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Capitolo 7

"Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato".

«Tesoro, scendi! ».

Olly chiuse il libro di scatto, lo schiocco delle pagine che si scontravano la risvegliò dal torpore fisico e mentale in cui era immersa.
Sdraiata sul letto, aprì le braccia ai lati, gli occhi ancora fissi verso il soffitto, nel punto in cui prima teneva sollevato il libro; lentamente, lasciò che la copertina liscia le scivolasse dalle mani e poi giù, fino a colpire il pavimento con un tonfo sordo.
Poi, cercò di stiracchiarsi e nell'allungarsi la punta dei suoi piedi urtò qualcosa: un secondo dopo, il suo blocco da disegno e l'astuccio caddero a terra, le matite si riversarono sul pavimento in un'esplosione di colori e Olly fu costretta a distogliere lo sguardo dal cielo stellato che si estendeva sopra di lei.

La ragazza si mise a sedere con un brontolio seccato, ma nonostante tutto sorrise; continuò a sorridere anche quando, dopo aver studiato il disastro che aveva fatto, afferrò una matita arancione per raccogliere i capelli in un'acconciatura degna di uno spaventapasseri.
E alla fine, quando si accorse che per impedire alla nonna di definire la sua stanza "un vero porcile" ci sarebbero volute ore di lavoro, scoppiò a ridere, sorpresa dal fatto che quel giorno il suo unico problema fosse riordinare la propria camera come un qualsiasi diciannovenne.
Ma del resto, se lo sentiva dentro: lo percepiva dall'odore di crema che c'era nell'aria, crema e zucchero bruciato, dal profumo del bucato e dei fiori arsi a causa dei novantotto gradi all'ombra; lo capiva dall'azzurro del cielo, così intenso e piatto da poter essere dipinto con un'unica pennellata, dal frinire allegro delle cicale e dal canticchiare della nonna che puliva il pavimento in cucina.
Lo sapeva: quel mercoledì, sarebbe stata una ragazza qualunque, niente Luci, nessun problema.
Solo Olly.

«Olly! E' quasi ora di pranzo, forza!». La voce di Karen trapassò i muri con una potenza che Olly non credeva possibile, ma, nonostante l'avesse sentita forte e chiaro, la ragazza non rispose alla nonna.
Quella mattina si era svegliata ancora alle cinque e, per non preoccupare i nonni, aveva deciso di rimanere chiusa in camera sua a leggere e disegnare; sembrava plausibile, ora, il fatto che una Olly "appena sveglia", e quindi ancora intontita, abbandonasse il letto solo al secondo richiamo e per di più brontolando risposte che Karen non avrebbe potuto sentire.
Quando poi la nonna riprese a canticchiare, la ragazza si decise finalmente a scendere, fermandosi solo un minuto per sostituire il pigiama con qualcosa di più adatto ad uscire.

«Credevo che fossi morta, là dentro», proruppe la donna non appena la vide, «ormai è mezzogiorno e il pranzo è quasi pronto».
Olly lanciò un'occhiata verso la cucina e vide nel forno quello che aveva tutta l'aria di essere pollo con le patate, il suo piatto preferito.
«Fortuna che mi sono svegliata in tempo allora!», disse quindi guardandosi attorno con le sopracciglia aggrottate e suscitando il sorriso della nonna che aveva capito cosa stesse cercando.
«Il nonno è nella stalla, mi ha detto di mandarti da lui non appena ti fossi svegliata, ma...», Karen arricciò le labbra leggermente infastidita quando vide la nipote dare più retta al pollo che cuoceva piuttosto che a lei, poi, si posò le mani rugose sui fianchi e scosse la testa sconsolata, «... qualsiasi cosa voglia, di' a quell'uomo di sbrigarsi, altrimenti rimarrà senza pranzo».
La nipote scoppiò a ridere e si diresse verso la porta a passo svelto, lasciando la nonna troppo intenta a gustarsi il suono di quella risata per sentire il suo mormorio:
«Ahi, ahi, il signor Williams è proprio nei guai».

Quel giorno, a Mountyborough si moriva di caldo, niente di eccezionale; mentre andava verso la stalla, sul retro della casa, qualche metro dopo il garage, Olly desiderò aver indossato il costume al posto della T-shirt pescata a caso tra le tante che aveva.
Le sue caviglie scoperte venivano graffiate dall'erba secca passo dopo passo e, con il sole di mezzogiorno a picco, sembrava di camminare nel deserto; la ragazza fu quindi molto felice quando si ritrovò all'ombra della stalla.
Era una vecchia struttura di legno che Philip aveva verniciato di rosso e bianco quando ancora era in grado di camminare sulle impalcature senza fare danni; accanto ad essa vi erano un piccolo orto pieno di carote e pomodori e un paio di alberi da frutta.
A Olly era sempre piaciuto aiutare il nonno in giardino, passava ore a pregare sua mamma di portarla da lui per poter indossare enormi guanti da lavoro e raccogliere frutta e verdura; i colori vivaci delle coltivazioni la rendevano allegra anche nei giorni più tristi e stare ad osservare quelle piccole piantine che lentamente crescevano era come assistere ad una magia.
Fu in quel momento che la ragazza decise che, quando sarebbe partita per tornare a Boston, qualche giorno prima dell'inizio delle lezioni, avrebbe portato con sé qualcuna di quelle prelibatezze.

Dopo essersi ripresa dal soffocante caldo che l'aveva travolta uscendo di casa, Olly si decise finalmente ad entrare nella stalla.
Superò a passo svelto i recinti di legno di alcune mucche che, con il muso immerso nel fieno, la scrutavano come se fosse arrivata per sottrarre loro del cibo; poi, nel silenzio che riempiva quell'ambiente, interrotto solo dal ronzare di alcune pale che ruotavano sul soffitto per rinfrescare l'aria, sentì il rimbombo di una martellata seguito dal nitrire di un cavallo.
«Oh, per la miseria!». Il brontolio del nonno non tardò a farsi sentire e, come sempre, fece sorridere la nipote che, però non gli diede retta e si avvicinò al recinto in cui si trovava uno splendido cavallo pezzato dalla folta criniera scura.
«Ma come sei bello», gli disse la ragazza con tono infantile dopo essersi avvicinata e aver teso lentamente una mano verso di lui; l'animale nitrì un'altra volta per poi dare un colpetto al palmo di Olly che, senza aspettare ulteriormente, lo accarezzò sorridendo.
«Come ti chiami?».
«Si chiama Alonso», rispose dolcemente il nonno che, nel frattempo, si era avvicinato e si trovava ora accanto alla nipote: il viso leggermente striato di nero, come le mani, e uno straccio sporco appoggiato sulla spalla.
«Originale... », mormorò lei in risposta, continuando a passare la mano sul suo pelo maculato, «pensavate di dirmi, prima o poi, che avevate comprato un cavallo?».
«Doveva farlo tua nonna, ma deve essersene dimenticata».
«Sarà andata sicuramente così». La ragazza lanciò all'uomo un'occhiata d'intesa e, insieme, scoppiarono a ridere.
Quel giorno, Olly si sentiva così leggera che non poteva farne a meno, sapeva che non sarebbe durata a lungo quell'allegria superficiale e infantile e, proprio per quel motivo, avrebbe voluto ridere fino a non sentire più i muscoli del viso, fino a bruciare tutto l'ossigeno che aveva nei polmoni, fino a lasciarsi consumare centimetro dopo centimetro dalla calda fiamma della sua stessa gioia, come una candela che si scioglie piano per poi spegnersi e non brillare mai più.

I passi di Philip risuonarono nel silenzio della stalla mentre si allontanava verso il fondo della struttura; là, immerso nel buio, illuminato solo dalla luce di due grosse lampade, c'era un tavolo da lavoro coperto da ingranaggi e pezzi di ferro, qualche tubetto di colori acrilici, dei pennelli rovinati e, di fronte, una parete piena di attrezzi di ogni tipo: martelli, trapani, chiavi inglesi e cacciaviti in ordine di grandezza...
Olly gli si avvicinò con calma, riprendendosi piano piano e respirando a pieni polmoni l'odore di fieno e legno vecchio.
«Cosa stai combinando?», chiese quindi osservando il ciarpame sparso sul bancone.
«Provo a costruire un carillon per la nonna», fu la risposta dell'uomo che, dopo aver indossato dei guanti in lattice, stava osservando con una lente d'ingrandimento due bulloni.
«Natale è ancora lontano».
«Pff... non è per Natale! Ne volevo costruire uno per il nostro cinquantesimo anniversario, ma ecco... potrei aver dimenticato di ordinare dei pezzi e... in poche parole, quel giorno ho potuto regalarle solo il progetto, per farle vedere come sarebbe stato». Philip si grattò il collo imbarazzato e, di fronte alla risata della nipote, non potè far altro che osservarla con espressione burbera; i suoi capelli bianchi tutti spettinati e lo sporco incrostato tra una ruga e l'altra lo facevano assomigliare a un bambino che viene rimproverato dopo aver combinato qualche marachella.

La verità era che Olly trovava quel gesto, seppur disastrosamente sbadato, anche incredibilmente dolce, e sapeva che a Karen doveva essere bastato vedere il disegno di come sarebbe stato il carillon per scoppiare a piangere commossa.
«E quindi ora hai tutti i pezzi?», domandò poi alzando le spalle e suggerendo al nonno di utilizzare il bullone più piccolo.
«L'ultimo ordine deve ancora essere spedito, manca un mesetto, sembra quasi che arrivino dall'altra parte del mondo... stupidi corrieri... ».
«Dai, andiamo a mangiare ora, altrimenti la nonna ci fa saltare il pranzo». La ragazza interruppe il suo borbottio poggiandogli una mano sulla spalla e convincendolo a mettere a posto il metro che aveva appena preso.

Lentamente, il nonno si tolse i guanti e gli strani occhiali da saldatore che portava nonostante non fossero necessari, poi, a capo chino, seguì la nipote fuori dalla stalla.
Nella sua testa si ripetevano parole che avrebbe tanto voluto dire ad alta voce, eppure ogni volta che guardava Olly sorridergli contenta, tutti i buoni propositi sfumavano e la proposta che si era convinto a farle gli rimaneva incastrata in gola, togliendogli il respiro e convincendolo del fatto che il momento migliore sarebbe stato:
-Il prossimo giorno. Il prossimo giorno- ripeté nella propria mente.

Così, quando aprirono la porta di casa e furono travolti dal profumo del pollo con le patate, si arrese all'evidenza dei fatti: ancora una volta, non aveva fatto nulla per aiutarla.
Così, quando la nipote si sedette a tavola e versò l'acqua a tutti, sorridendo, si arrese all'evidenza dei fatti: sarebbe morto senza vederla sorridere davvero.
Così, quando Karen servì il pranzo e chiese ad Olly che cosa stesse combinando Philip nella stalla, quando la ragazza gli rivolse uno sguardo complice, prima di voltarsi verso la nonna in un balenio di capelli neri come la notte e occhi ardenti come le fiamme dell'Inferno, si arrese all'evidenza dei fatti: quelle fiamme l'avrebbero divorata.

Poco alla volta.

Fino alla fine.

*****

«Ora io vado, esco con Chloe...», Olly si pulì le mani in un asciugamano umido e rimise l'anello che aveva poggiato sul bancone, poi, dopo aver tolto la polvere dai vestiti, posò un bacio sulla guancia secca del nonno e gli fece un occhiolino, « niente disastri, mi raccomando».
«Olly, aspetta!». Philip si alzò di scatto dallo sgabello su cui era seduto facendo rovesciare tutto ciò che c'era sul tavolo.
«Sì?».
«Io, ehm... volevo chiederti una cosa».
«D'accordo». La ragazza tornò verso di lui con un'alzata di spalle.
«Ecco...  volevo... », per un secondo lo sguardo dell'uomo divenne vacuo, incredibilmente lontano, poi, un sospiro lasciò le sue labbra sottili, «...  potresti comprarmi dei nuovi pennelli? Mi servono per dipingere le statuine del carillon».
«Certo, questa sera te li porto. Posso andare?». Lentamente, fece scorrere lo sguardo lungo la figura del nonno, scrutando il suo corpo forte e allo stesso tempo debole, i suoi capelli bianchi, il viso piegato in una smorfia di frustrazione...
«Sì... sì, certo: vai pure», concluse prima di voltarsi e riprendere a trafficare con viti, chiodi e bulloni vari.

E fu così che Olly lo lasciò, allontanandosi piano, rispondendo con la schiena a quel corpo leggermente ricurvo che le aveva dato le spalle; un passo dopo l'altro si lasciò dietro il capannone insieme alla polvere che si alzava da terra ad ogni suo passo, schiacciando e seppellendo ogni preoccupazione, ogni timore nei confronti di ciò che il nonno stava pensando.
Quel giorno, lei era solo Olly: Olly e nient'altro.
Forse...

Camminò sempre più svelta verso il paese, si addentrò nelle viette impolverate costeggiate da alte case ingiallite dal tempo, superò i negozi con le vetrine ad angolo decorate da tendine anni sessanta e vivaci cartelli che annunciavano sconti, sconti e sconti a non finire, ma solo per i turisti... 
Le sembrava di procedere nel vuoto, sollevata in aria in una bolla che la isolava da tutto il resto e si sentì incredibilmente sola: era sola in quella giornata di soffocante caldo, talmente sola da poter interpretare quel personaggio, presente in quasi tutti i quadri, che guarda a destra, unico e solo, mentre gli altri si voltano nella direzione opposta; aveva lo stesso profilo tagliente di uno scalpello e lo stesso contrasto di chiaro-scuro di una scultura di Michelangelo.
Ed era proprio così che si sentiva: come una statua che si ergeva fiera in mezzo a una piazza e tutt'attorno le grida e il caos di una guerra che devastava ogni cosa, ma non lei, mai lei.
Ma perchè? 
Perchè, pur sentendosi così forte quel giorno, pur non desiderando l'aiuto di nessuno, aveva sperato in una domanda diversa da parte di Philip?
E perchè, allora, si sentiva pronta a rispondere con il suo solito sorriso: sto bene nonno, davvero.
Davvero... 

Il suo cellulare le vibrò nella tasca dei pantaloni, risvegliandola da quello stato di trance in cui era caduta.
-Che diamine, Olly!-, si rimproverò scuotendo la testa arrabbiata.
Era tornata a Mountyborough per passare una bella estate: i ricordi e le luci non lo avrebbero impedito!
Con un sospiro, la ragazza afferrò il telefono e lesse velocemente il messaggio inviatole dall'amica: Chloe era stata vista entrare nella casa in cui si era momentaneamente stabilita e la signora che l'aveva scoperta aveva cominciato a fare domande; nulla di cui preoccuparsi, scriveva nel messaggio, sarebbe riuscita a risolvere la questione, ma non poteva raggiungere Olly per la cena.

Con uno sbuffo frustrato, la ragazza si incamminò verso il centro, sciolse la coda in cui aveva legato i capelli e morbide onde nere le caddero ai lati del viso; si mise l'elastico al polso e, con un'alzata di spalle, decise che ormai era troppo tardi per cancellare tutto: sarebbe andata al Mounty cafè e avrebbe ordinato qualcosa, almeno poteva chiacchierare con Sam, e l'indomani si sarebbe assicurata che Chloe avesse trovato una soluzione.

Pochi minuti dopo, Olly arrivò davanti a un piccolo negozietto ad angolo, l'insegna scolorita dal sole e le pareti dipinte di un arancione acceso.
Con un sorriso, si decise a entrare.

«Olly! ».
«Ciao, Jean».
La campanella appesa all'ingresso tintinnò forte quando la ragazza aprì la porta in legno del negozio; l'odore del carboncino, dell'inchiostro e della carta la investirono come se fosse appena entrata in una copisteria.
I vari scaffali del negozio erano coperti di tutto ciò che Olly potesse desiderare: tempere, pennelli, vernici, penne dal tratto sottile o spesso, squadre, album da disegno, carboncini... 
«E' inutile che guardi così quelle matite, signorina», disse l'uomo alto e magro che si trovava dietro al bancone, nascondendo a fatica un sorriso, «sono già vendute e il nuovo ordine arriverà solo tra due settimane».
Jean si avvicinò allo scaffale che la ragazza stava guardando con estremo interesse e prendendola delicatamente per le spalle la portò vicino al bancone.
Il suo viso pallido era raggrinzito come la pelle di un'albicocca troppo matura e velato dallo stesso rossore sulle guance; il profilo era sottile e il naso lungo curvava leggermente verso l'alto.
Quando Olly poggiò le mani sul vetro lucido e liscio che ricopriva il banco, mettendo in mostra varie macchie di inchiostro, l'uomo sorrise, i suoi occhi scuri scintillarono come la fiammella di una candela, accendendosi di pura ilarità.

«Mi servirebbero delle cose», disse poi la ragazza.
«Sono tutt'orecchie». Jean la guardava con la solita espressione che le rivolgeva ogni volta, sembrava quasi voler dire: sei venuta in questo negozio due giorni fa, cosa diavolo ci fai ancora qui?
«Philip vuole dipingere delle statuine e gli servono dei pennelli».
«Legno, cera, ceramica o pietra ?», domandò quindi lui scrutando attentamente il contenuto di un cassetto che aveva appena aperto.
«Legno».
«Mh... credo di averli da qualche parte in magazzino, non è che potresti passare dopo cena?». Jean chiuse il cassetto e si sedette su un alto sgabello nero che lo faceva assomigliare ad un pappagallo sul trespolo.
«D'accordo. Ah! Dimenticavo-», la ragazza si avvicinò ad uno scaffale e prese una scatola piena di gessetti, «questi servirebbero a me, li ho già consumati quasi tutti».
«Devi usare un tocco più leggero, calchi troppo, ma non è così che si fa! Dio, non riesco proprio a fartelo capire... ogni volta che prendi una matita sembra quasi che tu stia impugnando un fucile! Ci vuole grazia, ragazzina».
Olly osservò divertita il sorriso sghembo che si dipinse sul volto del vecchio Jean mentre la rimproverava, rispiegandole per l'ennesima volta come doveva usare pennelli e gessetti.

Jean era un vero esperto: in quella che lui definiva una "vita precedente", era stato un pittore.
Aveva vissuto per anni a Parigi, passando ogni singolo giorno al Louvre, studiando le opere di centinaia di artisti e cercando di scoprirne i segreti per poi dipingere qualsiasi cosa gli capitasse sotto al naso: la Senna, la Tour Eiffel, i tendoni striati di rosso delle piccole caffetterie incastrate tra pasticcerie costosissime e palazzi popolari... 
Aveva dipinto per anni, sperimentando ogni tecnica possibile e immaginabile, assaporando croissant alla crema sotto un tendone montato appositamente in un giardino fin troppo selvaggio così da poter rappresentare fiori e uccelli di tutti i tipi; le sue mani si erano sporcate di carbone, cera, olio, vernice... i suoi occhi avevano visto ogni tipo di colore: dal verde marcio di una miscela uscita male al blu brillante delle vesti di un quadro ottocentesco... 

La sua vita era stata un sogno, o almeno, lo era stata fino a quel fatidico giorno, quello che aveva cambiato tutto: un pomeriggio, sulla soglia dei cinquant'anni, le sue mani avevano cominciato a raggrinzirsi e a tremare come foglie secche in autunno; dipingere era velocemente diventato il suo peggior incubo, ma aveva continuato a testa alta, passando dalle rappresentazioni dei sofisticati paesaggi parigini ai quadri astratti.
Poi, un giorno, mentre si trovava sulla riva della Senna, la sua mano aveva avuto uno spasmo, l'ennesimo, il pennello era caduto macchiando e rovinando il lavoro fatto fino a quel momento e Jean, con le lacrime agli occhi e in preda all'ira, aveva buttato tela, pennelli e cavalletto nel fiume.
Senza più voltarsi indietro era corso a casa e, armato di cartine americane e metro a nastro, aveva cercato un paese lontano, piccolo e sperduto, dove nessuno avrebbe potuto ricordare chi era stato, ma solo chi avrebbe scelto di essere da quel momento in poi.
Una settimana dopo era arrivato a Mountyborough.

Per mesi non era stato altro che un'ombra che si aggirava per le strade con un cappuccio sulla testa e il volto livido di rabbia; poi, in un bel giorno di primavera, era tornato finalmente a sorridere e aveva aperto il Paris-Brest, un negozio che portava il nome del suo dolce preferito, ma vendeva materiale per artisti.

Jean però non se n'era mai preoccupato, per lui: l'arte era il migliore dei dessert. 

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