Capitolo 2
"Perhaps one did not want to be loved so much as to be understood"
George Orwell
OLLY
30 Luglio 2019
Azzurro.
Quella mattina il cielo era azzurro, ma non come in una qualunque giornata soleggiata. Non era azzurro come il cielo d'estate, come l'acqua di uno stagno o la carta dei muffin della nonna.
Quella mattina il cielo era di un azzurro opaco, come quello delle nuvole che si mescolano tra loro spinte dal vento, come quello di una tempesta in arrivo. Indaco come la lavanda del nonno, come la tinta di casa loro, come l'anima di Olly.
Sfumature che era riuscita a catturare in una delle sue tele.
Quella mattina si era svegliata alle tre del mattino, quando il cielo era ancora uno scuro tappeto di stelle, aveva allungato la mano verso il comodino, cercando un pennello, e prima ancora di rendersene conto aveva cominciato a dipingere.
La settimana prima aveva comprato sette tele. Sette come i vizi capitali. Sette come i nani di Biancaneve. Sette come i giorni della settimana. Pensava fosse un numero simbolico e i simboli le erano sempre piaciuti.
Ora, una di quelle tele giaceva ai piedi di una parete proprio come lei giaceva sul suo letto, sepolta sotto un cumulo di lenzuola bianche e leggere come carezze, senza badare alle ondate tiepide che di tanto in tanto la costringevano a emettere uno sbuffo, quasi come se rilasciare fiato caldo potesse in qualche modo rinfrescarla.
Entrambe portavano addosso gli stessi segni: pennellate bianche che si vedevano appena, striature lilla e grosse macchie viola, squarci blu. Erano i colori di un'anima confusa, persa tra le tante vite che aveva toccato, tra i tanti suoni ascoltati e i momenti vissuti, erano colori che le si scioglievano addosso quasi fossero fatti proprio per lei, per essere una seconda pelle per quelle sue ossa fatte di amianto, che lei credeva essere di vetro.
Sospirò, distogliendo lo sguardo dal cielo oltre la finestra e da quella tempesta che sembrava ancora lontana: a Mountyborough il sole splendeva già da qualche ora.
Muovendosi appena sotto le coperte, Olly voltò la testa per vedere l'ora sulla radiosveglia.
7: 39.
I tre grossi numeri sembrarono quasi ammiccarle, prenderla in giro per essere stata a letto ad ascoltare la musica per quattro ore, quattro ore in cui il resto del mondo aveva dormito.
Tornò a guardare il soffitto e i capelli scuri le si sparpagliarono sul cuscino.
Per un momento si chiese cosa stesse aspettando: aveva una camera da dipingere, una macchina da aggiustare, una vita da portare avanti nonostante tutto.
Quella strana immobilità che stava provando mancava da quando aveva lasciato Mountyborough l'estate prima, le toglieva il respiro, ma allo stesso tempo gravava sul suo petto come la consapevolezza di un qualcosa che aveva perso e ritrovato dopo tanto tempo.
La risposta arrivò solo qualche minuto dopo.
Venti passi. Uno per ogni scalino.
Un rumore assordante in cucina: forse una pentola caduta, forse un mestolo.
Un'imprecazione di troppo.
Olly ricordò. Ricordò se stessa negli ultimi cinque anni, ogni martedì, sdraiata a letto ad aspettare che Philip scendesse in cucina a preparare la colazione per la moglie.
Ricordò i rimproveri di Karen al marito, ma anche la sorpresa nel vederlo in cucina nonostante fosse una loro tradizione da ancor prima che Olly nascesse.
All'età di nove anni Olly aveva chiesto al nonno perché avesse scelto proprio il martedì, ma lui non aveva risposto, aveva solo guardato la nonna prima di sorridere e allora lei non aveva più fatto domande, ma da cinque anni a quella parte, ogni martedì mattina se ne stava chiusa in camera sua ad ascoltarli.
C'era qualcosa di confortante nell'odore di bruciato della frittata del nonno, nei passi di Karen che, preoccupata, accorreva in cucina spingendo il marito da parte e sistemando i suoi disastri, nelle loro voci allegre che chiacchieravano del più e del meno.
Era un momento che sapeva di casa.
E casa era proprio ciò di cui Olly aveva bisogno.
Una casa che da tanto tempo ormai non era più un'abitazione, ma un insieme di persone.
Karen, Philip, Logan. Qualche parente lontano.
Tutto ciò che le rimaneva.
Tutto ciò di cui mi importi ancora qualcosa.
Tutte quelle persone che facevano parte del suo piccolo grande infinito, quelle che le avevano insegnato a rialzarsi, a piangere e a sorridere, quelle che ad ogni sguardo le avevano sussurrato uno di quei preziosi "ti voglio bene" che portava nel suo cuore, come collante di fragili frammenti che avevano smesso di essere un pezzo unico ormai da anni.
La voce della nonna, proveniente dalla cucina, riportò Olly alla realtà, a quel momento che aveva tanto aspettato e che ora rischiava di consumarsi senza che lei se ne accorgesse.
Quando sentì Philip borbottare, scoppiò a ridere, tirandosi il lenzuolo fino alla punta del naso; il materasso, che era stato messo su alcune cassette della frutta al centro della stanza per evitare che si sporcasse di vernice, tremò scosso dalle sue risate.
Olly passò piano le dita sulle lenzuola, lasciandosi scorrere il cotone morbido sotto i polpastrelli e, quando finalmente si fu calmata, si mise seduta, poggiando i piedi sulle pagine di giornale che coprivano il pavimento.
La pagina dello sport le rimase attaccata a un piede quando cercò di allontanarsi dal letto e la cronaca mondana si accartocciò rischiando di strapparsi.
Dipingerò questa stanza, dipingerò questa stanza e il bianco la smetterà di prendersi gioco di me.
Lo sguardo le cadde per un attimo sulla tela dipinta quella mattina e la portò a chiedersi perché avesse scelto proprio una quindici centimetri per quindici quando aveva a disposizione quattro pareti.
Lo sai perché Olly, lo sai perché.
Eccome se lo sapeva. Se quei colori erano la sua anima, allora non avrebbe mai potuto mostrarli al mondo, non avrebbe mai potuto dargli tanta importanza da riempire una parete intera, li avrebbe nascosti e taciuti, attendendo qualcuno che di quei silenzi avrebbe fatto il proprio tesoro, qualcuno che avrebbe sentito quanto un silenzio fosse in grado di gridare.
Qualcuno in grado di capire.
Dopo aver lanciato un'ultima occhiata ad un grosso pennello, Olly si alzò e si diresse verso il suo temporaneo armadio, una grossa sacca piena di vestiti di ogni tipo, e ne estrasse una semplice maglietta bianca e dei pantaloncini corti.
Dopo essersi vestita, frugò per tutta la stanza, tra coperte, barattoli e cuscini, alla ricerca di qualcosa con cui legarsi i capelli e, quando sentì la porta di casa sbattere, segno che ormai i nonni erano usciti, si arrese all'evidenza: doveva dipingere quelle dannate pareti il prima possibile o non avrebbe più trovato nemmeno la propria testa.
La ragazza chiuse la porta della propria camera con un sospiro, ancora intenta a legare lo scuro groviglio di capelli con un elastico da carte che, sicuramente, non sarebbe mai più riuscita a togliere.
A passo lento, scese gli scricchiolanti scalini di quella piccola casa traballante, per poi saltare con un sorriso l'ultimo gradino nell'esatto momento in cui qualcuno bussò alla porta.
«Olly! Sono Chloe, aprimi!».
Raggiunse velocemente la porta e, dopo essersi passata una mano sul volto, come a voler cancellare l'espressione sofferente che fino a quel momento l'aveva tormentata, l'aprì, salutando l'amica e adocchiando sorridente il vassoio pieno di biscotti che questa teneva in mano.
«Ehi, vieni, sediamoci qua fuori». Si avvicinò a una delle sedie a dondolo posizionate sotto il piccolo porticato e invitò l'amica a fare lo stesso.
Chloe poggiò il vassoio su un piccolo tavolino in legno posizionato tra le due sedie e sorrise all'amica portandosi una ciocca dei lunghi capelli scuri dietro le orecchie.
Il piccolo anellino che Olly aveva fatto per lei scintillò quando abbassò la mano scura e la poggiò sul bracciolo, godendosi il pizzicore dei tiepidi raggi di sole sulla pelle.
«Grazie per i biscotti, sono quasi più buoni di quelli della nonna», mormorò piano Olly immaginando le proteste di Karen nel caso in cui l'avesse sentita: "Quei biscotti sono pieni di conservanti", "Le cose fatte in casa sono più buone e più sane"...
Chloe sorrise.
O forse no. A Olly sembrò di vedere un lato delle sue labbra alzarsi leggermente a scoprire i denti bianchi, ma presto quello stesso angolo si piegò verso il basso.
«Chloe».
«Mh», la ragazza stava accarezzando con malinconia un morbido gatto randagio che aveva lentamente salito i tre gradini del portico, forse attratto dal profumo dei biscotti, forse dal tonno che Philip aveva lasciato apposta per lui in una ciotolina vicino alla scaletta.
Le sue mani tremanti si fermarono per un momento sulla testolina del micio, creando un contrasto affascinante con il pelo bianco.
«Chloe», la richiamò Olly dando un buffetto al gattino e costringendo l'amica a guardarla negli occhi.
Per un momento desiderò ignorare le lacrime che riempivano gli occhi della ragazza, desiderò non lasciarsi attrarre nella dolce trappola dell'ambra liquida che sembrava essere racchiusa nelle sue iridi.
Ma lo fece.
Portò le mani ai lati del suo volto, cancellando con un tocco le gocce scivolate sulla pelle scura della ragazza.
Era troppo bello per essere vero.
Era troppo bello anche solo pensare che per una volta andasse tutto bene, che Chloe fosse andata a trovarla solo per vederla, solo perché è così che fanno le persone normali.
Ma lei aveva accettato ormai da tempo di non far più parte di quella categoria, quella del normale.
Aveva capito che se è l'eccezione che conferma la regola, allora lei era l'eccezione.
Le era sembrato incredibile per un po'. Per i primi tre mesi, forse.
Ora era solo stanca.
«Mi dispiace», Chloe la guardò e ripeté quelle due parole ancora, ancora e ancora, «Mi dispiace».
Due parole.
Un secondo. Forse due.
Dispiace anche a me, Chloe.
Sapeva esattamente di cosa parlasse l'amica, ma avrebbe preferito non capire. Sarebbe stato tutto più semplice almeno per una volta, ma la semplicità sembrava non far parte della sua vita, delle loro vite.
Quella di Olly.
Quella di Chloe.
E quella delle Luci.
Se era vero che le persone non sono altro che momenti, quelli che hanno vissuto e dimenticato, quelli che verranno, allora Olly era un attimo in particolare: ventotto marzo duemilaquattordici, il giorno in cui aveva visto una Luce per la prima volta.
Si era voltata e l'aveva trovata lì. Una persona che doveva essere morta qualche minuto prima, forse qualche ora; una persona che inspiegabilmente nessuno oltre a lei riusciva a vedere.
Olly avrebbe accettato di vedere fantasmi, davvero, si era messa il cuore in pace, decidendo che di storie come la sua se ne raccontavano a bizzeffe, non le importava che nel suo caso si fosse avverata, lo avrebbe accettato.
Ma la verità è che le Luci non si accontentavano di essere viste.
Loro si mescolavano alla folla e la sorprendevano, facendole credere di essere persone qualunque, finché qualcuno non domandava a Olly perché stesse osservando il vuoto.
Loro le sorridevano.
Chiedevano e pretendevano.
Pretendevano di tornare. Non importava per quanto tempo, non importavano le conseguenze. Importava solo essere vivi. Di nuovo.
E lei, Olly, era l'unica che poteva accontentarli. E quello, quello non lo avrebbe mai accettato.
Non avrebbe mai accettato la sua capacità di riportarli in vita solo rivolgendo loro la parola, o la sfumatura dorata che copriva la loro pelle quando tornavano o gli sguardi che le rivolgevano dopo.
Freddi e caldi al tempo stesso.
Sembravano stringerla in una morsa soffocante, ringraziandola per averli riportati in vita, ringraziandola per aver donato loro un'illusione che li avrebbe fatti soffrire molto più della realtà.
Olly aveva paura di loro. Aveva paura che si sarebbero accorti del fatto che la morte è meglio non rimandarla, che la verità è sempre meglio di un'illusione.
Per cui, quando Chloe disse: «Ci resta poco tempo. Mi resta poco tempo prima che torni ad essere polvere e vento, e ombra», Olly non riuscì a fare altro se non stringerla in un abbraccio e pronunciare cinque parole che segnarono definitivamente la fine della quiete e l'inizio della tempesta.
«Non avrei dovuto portarti indietro».
Capì subito di aver sbagliato.
Lo capì dal modo in cui Chloe si irrigidì tra le sue braccia prima di scattare in piedi, lontano da lei. Alcuni capelli le scivolarono sul viso e lì rimasero, a fare da cortina a quel volto bagnato di lacrime che non erano le prime e non sarebbero state le ultime.
Lo capì da come le sue mani si serrarono in un pugno per nascondere il tremore.
Lo capì dal suo sguardo, quello che fin dal primo momento le era sembrato caldo oro liquido ed ora era solo freddo e scuro. E spento.
«Chloe».
«No», la ragazza fece un passo verso gli scalini, facendo allontanare anche il gatto randagio che si era acciambellato sul primo gradino, «Non mi importa. Lo so e non mi importa».
Certo che lo sai.
Olly chiuse gli occhi, sospirando. Chloe l'aveva sempre capita, era sempre stata in grado di leggere oltre le sue parole, di entrarle dentro e scavare nel caos che era la sua anima per conoscere la vera Olly.
E ora aveva capito che quelle parole erano solo parole, che, se avesse potuto, l'avrebbe riportata indietro ancora e ancora, e forse avrebbe rinunciato persino a se stessa pur di ridare la vita a qualcuno che sembrava volerla vivere più di lei.
Ma anche Olly sapeva qualcosa di Chloe.
Sapeva che era morta a diciannove anni a causa di una malattia e che per tutta la vita non aveva mai potuto scegliere nulla, si era lasciata trasportare come una foglia in balia del vento aspettando che qualcuno l'afferrasse e la riportasse a casa.
Non era successo.
Ed era comprensibile che per una volta Chloe scegliesse se stessa.
«Scusa», fece un passo avanti, vedendo l'amica farne uno indietro e scendere gli scalini, «Mi perdonerai vero?». Disse solo questo, non aggiunse altro, sapeva che Chloe l'avrebbe capita comunque.
Non te ne andrai senza dirmi addio, vero? Possiamo ancora essere amiche, possiamo ancora capirci, anche se domani tu non sarai più qui. L'eco del tuo cuore batte dentro il mio e batterà lì per sempre, perciò ti prego, se questa è la fine, possiamo ancora finirla bene.
«Non oggi», rispose Chloe voltandosi.
La guardò camminare lungo il vialetto e lanciare un'occhiata triste alla macchina parcheggiata nel giardino, quella macchina che per lei aveva rappresentato la possibilità di una nuova vita, ma che agli occhi di Chloe doveva apparire probabilmente come il fantasma di un passato che avrebbe cessato di esistere non appena fosse stata sistemata.
Si lasciò cadere sulla sedia a dondolo non appena la vide sparire per le strade di Mountyborough.
Si chiese chi sarebbe stata la prima a cedere e chi la prima a dimenticare tutto ciò che avevano condiviso in quei pochi giorni; chi sarebbe stata la prima a dire "arrivederci".
Non trovò una risposta.
La verità era che entrambe amavano il silenzio e probabilmente sarebbe stato quello il loro arrivederci; si sarebbero guardate occhi negli occhi e i loro silenzi avrebbero gridato fino a lasciarle senza fiato.
Poi, semplicemente, Chloe sarebbe sparita.
Olly si alzò e rientrò in casa, chiudendosi la porta alle spalle.
"Non oggi", aveva detto Chloe, e quello era abbastanza perché significava che ci sarebbe stato un domani.
Sorrise.
Non oggi.
Sorrise di nuovo.
Chiuse gli occhi e per la prima volta le sembrò di vedere davvero.
Vorticò su per le scale, danzando nelle ombre tracciate dai pallidi raggi del sole, lasciò che l'oscurità la inghiottisse anche solo per pochi secondi.
Giunse alla porta della sua camera con il fiato corto, la maratona del suo cuore che batteva all'impazzata la costrinse a respirare più a fondo, l'odore di vernice le bruciò le narici.
Non oggi.
Sorrise ancora, perché nonostante tutto quel "non oggi" aveva la stessa lenta melodia di un piccolo infinito.
Si chiuse in camera sua.
Prese un pennello.
Chiuse nuovamente gli occhi.
Lasciò che le immagini scorressero sulle sue palpebre e nel suo cuore, le lasciò colare lungo le braccia, lungo le guance, che si bagnarono di lacrime, lasciò che le sporcassero le dita.
Iniziò a dipingere.
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