Capitolo 12
"They met so near with their lips that their breaths embraced together "
William Shakespeare
Olly era sdraiata sul pavimento del "garage" del nonno, infilata tra l'auto ammaccata che aveva acquistato giorni prima e lo strato di terra e polvere che ricopriva i listelli di legno poggiati a terra.
Quella mattina Chloe se n'era andata presto, onde evitare di farsi trovare dai nonni di Olly con i capelli sparati in ogni direzione, due spaventose occhiaie viola e, soprattutto, i vestiti sporchi di vomito.
Anche quel giorno quindi, Olly si era svegliata presto per salutare la ragazza e, non potendosi rifugiare nella sua camera, aveva deciso di mettersi subito al lavoro, così da finire il prima possibile; dopo aver chiuso la porta alle spalle dell'amica, aveva quindi bevuto una tazza di caffè che, in realtà, era stata più che altro una tazza di zucchero leggermente bagnata da un'acqua sporca dal retrogusto amarognolo, poi, dopo essersi cambiata con quei pochi vestiti che aveva avuto il buon senso di prelevare dalla sua stanza, aveva raggiunto il garage, dove si era messa all'opera.
Ora, il sole splendeva ormai alto nei cielo, una chiazza dorata velata da nuvole opache che scivolavano pigre su uno sfondo chiaro; come sempre, anche quel giorno faceva talmente caldo che persino respirare risultava faticoso, ad ogni boccata d'aria, l'umidità riempiva i polmoni e si attaccava alla pelle.
Di tanto in tanto, il leggero venticello tiepido che soffiava trasportava i muggiti lamentosi delle mucche di Philip e la voce di Karen che canticchiava allegra mentre puliva casa; il profumo di muschio e gelsomino della biancheria stesa ad asciugare in giardino dava alla testa in un modo stranamente piacevole.
Olly aveva appena finito di riparare l'ultimo pezzo e stava controllando che tutto funzionasse alla perfezione; il pavimento attorno a lei era disseminato di attrezzi e stracci macchiati di olio scuro, dalla radio fluivano lente le note della canzone preferita della ragazza e lei mormorava piano le parole con le labbra sottili piegate in un sorriso; i suoi capelli scuri, raccolti in uno chignon disordinato si arricciavano per il caldo e la bandana rossa che si era legata in testa per tenere indietro le ciocche più corte era ormai intrisa di sudore
«Olly».
La ragazza sentì dei passi avvicinarsi al capannone, la voce che l'aveva chiamata era quella della nonna, per cui non fu per niente sorpresa quando, guardando il pavimento subito dopo l'auto, vide le sue ciabatte blu con ricamate sopra tante margherite.
Olly continuò a lavorare imperterrita, le mancava un'ultima cosa, una sola e poi avrebbe potuto finalmente verniciare quel gioiellino.
«Olly», la richiamò la donna facendo un passo avanti, «c'è qui un tuo amico, mi pare abbia detto di chiamarsi Cal».
La povera Karen sobbalzò per lo spavento quando la nipote lasciò cadere a terra gli attrezzi con cui stava lavorando; la vide scivolare piano sul pavimento, rialzandosi da terra come fosse in trance e non riuscì nemmeno a fermarla quando si asciugò il volto sudato con uno straccio sporco che le macchiò le guance di nero.
Sotto le striature di sporco il suo volto era cereo, immobile e terrorizzato; la nonna fece un passo verso la nipote nell'esatto momento in cui lei ne fece uno indietro per appoggiarsi all'auto, incapace di sorreggersi sulle proprie gambe.
Per un attimo, nella sua testa, Olly vide scorrere tutte le azioni che aveva fatto quella mattina: aveva preparato il caffè, aveva salutato Chloe, si era cambiata, era uscita, aveva guardato l'orologio e più volte... più volte si era ripromessa di non fare tardi per l'appuntamento con Cal.
Sospirò, stringendo le mani a pugno come se volesse colpirsi da sola per la sua stupidità, poi, con una certa incredulità, si voltò a controllare l'orologio: undici e trenta. Come diavolo aveva fatto a dimenticarsene?
«Tesoro, ti senti bene?», le domandò la nonna, «Sembri un po' pallida».
«Sì, no... è qua fuori?», concluse passandosi nuovamente lo straccio sul viso e sporcandosi anche l'altra guancia.
«Sì, gli ho chiesto di aspettare un attimo. Volevo... sai... volevo essere sicura che lo avessi invitato tu». Karen divenne talmente rossa in volto che, per un momento, il confine tra la fronte e la chioma fulva divenne invisibile; sapeva quanto quella domanda sarebbe suonata stupida alle orecchie della nipote, ma per tutta la vita l'aveva vista uscire solo con Logan e, nelle ultime settimane, con Chloe, che era però un caso particolare, quindi era strano il fatto che quel ragazzo si fosse presentato a casa per uscire con lei.
«Sì, sì... andiamo a pranzo insieme, gli faccio fare un giro in paese», rispose Olly, sventolando una mano davanti al viso per farsi aria.
«Oh, credevo saresti rimasta a pranzo», mormorò piano la nonna quasi come per non farsi sentire; a volte avrebbe desiderato tornare indietro nel tempo, tornare a quando Olly era stata troppo piccola per andarsene a spasso da sola e doveva per forza obbedire ai più grandi; tornare a quando avrebbe potuto semplicemente agitare il mestolo e gridare "Oggi rimani a casa, signorina", e lei lo avrebbe fatto senza opporsi, mettendo il broncio e chiudendosi in camera con i suoi pennelli e i suoi colori, dipingendo fino ad addormentarsi sfinita e coperta di vernice.
Questa volta, invece, non potè far altro che sospirare e sorridere, consapevole di non poter risolvere i problemi della nipote semplicemente impedendole di uscire.
«Allora io torno dentro, stai attenta e non tornare tardi», aggiunse poi celando a fatica la delusione e sistemando il nodo del grembiule che portava in vita.
Olly guardò la nonna mentre indugiava, non sapendo se tornare veramente dentro o restare per saperne di più, osservò le sue dita sottili e leggermente storte che districavano a fatica il nodo, poi, facendo un passo verso di lei, sorrise.
«Che ne dici se questa sera prepariamo la pasta? Come ci ha insegnato la mamma, ti aiuto io e poi vediamo se il nonno è ancora capace di giocare a scarabeo. Va bene?», chiese quindi.
La nonna alzò lo sguardo sorpresa, lasciò perdere i lacci del grembiule che le sfuggirono dalle mani e fece una risata; questa volta ricordò altro, ricordò una tavola apparecchiata e piena di muffin al cioccolato ancora caldi, ricordò una ragazza, una sedicenne, seduta accanto al tavolo che le porgeva un biglietto di scuse per essere uscita in piena notte solo per dipingere la piazza illuminata dalla luna. Non potè evitare di sorridere.
«Mi piacerebbe molto», le ripose dolcemente, «sicuramente il nonno passerà tutto il pomeriggio con quel suo vecchio dizionario sfilacciato per trovare nuove parole», aggiunse poi.
Entrambe risero sollevate, la dolce melodia delle loro voci si confuse all'allegro cinguettio di un uccellino di passaggio ed Olly, finalmente, sentì il suo petto alleggerirsi; sapeva quanto quella serata sarebbe stata importante per i nonni, la possibilità di passare una sera tutti insieme come non facevano da tempo, da quando il numero di quel "tutti" si era quasi dimezzato, da quando l'ultima serata insieme si era conclusa con un tazza frantumata ai loro piedi, con i frammenti di ceramica che ammiccavano illuminati dalla fredda luce del lampadario, minuscoli e taglienti come i bordi laceri dei cuori di tutti loro.
Ma quel giorno sarebbe stato diverso, perchè era passato troppo tempo e Olly si era ormai così abituata ad essere sola che la mancanza sarebbe stata quasi accettabile.
Quasi...
Karen le lasciò un dolce bacio tra i capelli e poi se ne andò, così in silenzio che, quando la sua ombra tracciata dal sole sul pavimento fu sostituita da un'altra, Olly pensò di esserselo solo immaginata, almeno finché non sentì la sua voce.
«Ciao», Cal comparve dalla porta del garage sorridente, i capelli scompigliati del vento e gli occhi illuminati dal sole, «Scusa se non ho avvisato, ieri hai detto solo che ci saremmo visti di mattina e... diciamo che non avevo idea di cosa intendessi di preciso. E'... è troppo tardi? O troppo presto?».
Olly lo osservò per un attimo senza parole, confusa dalla sua confusione, poi fece uno strano verso, simile ad un lamento, che Cal dovette trovare divertente perchè, improvvisamente, scrollando le spalle, rise.
Il ragazzo fece altri passi avanti, avvicinandosi curioso alla macchina e, non appena voltò le spalle ad Olly, questa cercò di pulirsi le guance sporche di olio e di sistemarsi la canottiera scura completamente attaccata al corpo a causa del sudore.
«Io... no, cioè, hai fatto bene. Scusami tu, non credevo che fosse già così tardi», gli rispose poi impacciata agitando una mano in aria.
«Si vede», disse il ragazzo con voce incerta, eppure, quando si voltò verso di lei, non sembrava essersi offeso; aveva quell'espressione di pacifica indifferenza che gli faceva contrarre la mascella e alzare un solo angolo della labbra, in un sorriso allo stesso tempo sghembo e teso che poteva essere difficilmente interpretato.
«Bella, la macchina», aggiunse poi, «L'hai sistemata tu?».
«In realtà funzionava già piuttosto bene, anche se a guardarla non si direbbe. Ho solo sostituito alcuni pezzi che erano rovinati, ma il resto era... ok, diciamo».
Cal annuì, senza ribattere, e per alcuni secondi rimasero a fissarsi curiosi nella penombra del garage: lui con le mani in tasca e gli occhi accesi dal sole di mezzogiorno, lei con le mani tremanti avvolte negli stracci sporchi che aveva raccolto.
Poi, finalmente, Olly si decise ad agire: «Allora, se mi aspetti qui cinque minuti, vado a cambiarmi. Torno subito, prometto».
«Fai pure con calma, ho tutto il tempo del mondo», rispose Cal sorridendole un'ultima volta e tornarndo ad osservare la macchina.
Le sue mani avevano iniziato a tremare nelle tasche, il cuore gli batteva forte nel petto e, quando le sue labbra si dischiusero, ne uscì un tiepido sospiro; avrebbe voluto chiamarla, dirle di tornare indietro, dirle che non gli importava se la maglietta era impolverata; avrebbe voluto dirle che quella fascia rossa tra i capelli scuri gli faceva venire voglia di stringerla a sè e di non lasciarla più andare; avrebbe voluto dirle che non era vero, che non avevano tutto il tempo del mondo, ma non lo fece, si sedette su uno sgabello impolverato, accanto alla Dodge, e non potè fare a meno di pensare che solo Olly avrebbe potuto rimettere insieme tutti i suoi pezzi, proprio come stava facendo con quella macchina.
*****
«Eccoci qua!», annunciò la ragazza allargando le braccia e facendo una piroetta piuttosto scoordinata.
Quando Cal sollevò lo sguardo, per un momento fu costretto a richiudere gli occhi, accecato dai raggi del sole e travolto da sensazioni che pensava non sarebbe mai più stato in grado di provare.
Da mesi ormai, credeva che certe emozioni gli fossero state precluse, troppo vive, troppo travolgenti per uno come lui, ma Olly lo aveva costretto più di una volta a ricredersi; la conosceva da così poco, eppure da così tanto tempo.
Rialzò la testa, osservando la ragazza davanti a lui, le sue braccia spalancate ad indicare il piccolo angolo del paese in cui lo aveva portato, i suoi capelli, scuri e lisci come la seta, eppure di una sfumatura più chiara vicino all'attaccatura; guardò i suoi occhi accesi e le sue labbra distese in un sorriso e, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentì vivo per davvero.
Sorrise a sua volta, inclinando la testa di lato, permettendo ai caldi raggi del sole di bagnare la pelle ambrata della sua gola, proprio nel punto in cui era attraversata da una lunga cicatrice che scompariva oltre il collo della maglietta che indossava; una ciocca di capelli, un po' più lunga delle altre, gli ricadde sulla fronte, un ricciolo color cioccolato delicatamente mosso dal vento. In quel momento, si disse, avrebbe solo voluto un pennello per dipingere la ragazza; se fosse stato capace, ne avrebbe usato uno a punta sottile per dipingere le labbra chiare, due petali delicati poggiati sulla distesa di neve che era il suo viso; poi avrebbe preso il nero, rapide pennellate per tessere quella scura ragnatela di seta che le ricadeva morbida attorno al viso; e, alla fine, il marrone, il più scuro possibile per l'iride, ma anche un po' di terra di Siena, giusto per dare luce ai quei diamanti sporchi che le brillavano sul viso.
Con un sospiro, si rese purtroppo conto che non sarebbe riuscito a rappresentare nulla di tutto ciò e decise allora che sarebbe stato il caso di ricorrere a quello che meglio conosceva: la letteratura.
Immaginava già come sarebbe stato il suo pomeriggio, chiuso in una biblioteca a leggere pagina dopo pagina tutti i libri disponibili fino a trovare le parole che meglio avrebbero descritto il soffio di vita che quella ragazza portava in lui.
"Dovrei paragonare te a un giorno d'estate? Tu sei più piacevole e più dolce, venti impetuosi scuotono... "
«Cal, forza». La voce della ragazza lo risvegliò dai suoi pensieri e Cal si costrinse a seguirla, non era il caso di stare fermo ad osservarla tutto il tempo.
I due si sedettero uno di fronte all'altro, all'ombra di una grossa quercia.
Quando Olly gli aveva detto che lo avrebbe portato nel suo posto preferito non si sarebbe mai aspettato di ritrovarsi lì, sulle colline dove lei gli aveva parlato per la prima volta; lungo la strada si erano fermati al Mounty Cafè, dove Olly aveva ritirato un cestino colmo di cibo e Cal aveva sorriso, pensando che la ragazza non aveva del tutto dimenticato il loro appuntamento se quella mattina aveva chiamato Samantha per farsi preparare il pranzo.
Poi, sempre insieme, si erano incamminati lungo la stradina sterrata che entrambi avevano percorso correndo la prima volta che si erano visti: lui per scappare, lei per parlargli; e Olly aveva proseguito spedita, in silenzio, finché si erano ritrovati sulle colline al confine di Mountyborough in uno spiazzo erboso protetto dall'ombra della grande quercia sotto cui ora erano seduti.
«Ti piace?», gli chiese quindi Olly aprendo il cestino.
Cal la aiutò a sistemare i tovaglioli sul prato tra di loro, prima di riempirli di bevande e panini; le loro mani si sfiorarono più volte, ma il ragazzo sorrise, cercando di ignorare quella sensazione che gli faceva mancare il respiro.
«E' molto tranquillo», disse alla fine, «E' bello», concluse poi, dopo aver intuito che la sua precedente risposta non dovesse essere suonata come un "no", ma nemmeno come un "sì".
«Ci venivo spesso da piccola, con la mia famiglia, facevamo dei picnic la domenica», mormorò la ragazza, così piano che Cal credette di esserselo immaginato, mentre gli passava uno dei panini che aveva tolto dal cestino.
«Dev'essere stato bello... immagino...».
«Cosa?», domandò lei vedendolo giocare nervosamente con un tovagliolo e temendo che, anche quella volta, si sarebbe limitato a fare un aereoplanino e a tirarglielo, in silenzio.
Lui invece rispose, sorprendendola, guardandola negli occhi e parlando con una tale delicatezza che per un attimo Olly vide un ragazzo completamente diverso da quello che le aveva offerto una pizza e poi aveva passato tutta la serata con il muso, immerso in un suo inferno personale fatto di sofferenza e chissà cos'altro.
«Ricordo quando ero piccolo e andavo al parco con mia madre, lei portava sempre un cestino pieno di cibo, proprio come abbiamo fatto oggi, e mentre mangiavamo mi leggeva dei libri; ricordo che avrei passato ore sdraiato su quel prato, con la testa sulle sue gambe, le sue mani che mi accarezzavano i capelli e lo sguardo perso tra le nuvole. Immagino che non fosse la stessa cosa in una grande famiglia», concluse poi rapidamente, passandosi una mano tra i capelli scuri e addentando il panino, distogliendo lo sguardo e fissandolo sulle sue gambe incrociate.
«In realtà non era poi così diverso», gli disse lei prendendo una vaschetta piena di frittelle, e, anche se solo per un secondo, vide un sorriso balenargli sul viso, come un lampo bianco in quell'ombra tiepida e scura, «Mia madre e mia nonna preparavano panini e insalate, mentre io, il nonno e papà leggevamo delle storie, a volte il nonno le metteva in scena e finiva sempre con il rovesciare qualcosa facendo infuriare la nonna».
Cal la guardò mentre fissava qualcosa in lontananza e prendeva una frittella portandosela alla bocca, la vide sorridere dolcemente, persa nel ricordo di qualcosa che lui non aveva avuto la fortuna di vedere e, quando chiuse gli occhi, come a voler assaporare quei ricordi, riuscì quasi a vedere le immagini scorrere dietro le sue palpebre: immagini di attimi felici e giorni bui, immagini di gioia e dolore, ferite che si erano rimarginate subito e altre che ancora sanguinavano...
Pensò a come sarebbe stato abbracciarla, stringersela al petto senza la paura di poterle fare del male; pensò a come sarebbe stato essere la causa di quei sorrisi, quelli veri e dolci che comparivano solo quando nessuno poteva vederla, o quasi; pensò che sarebbe stato tutto più semplice se lui fosse stato un ragazzo qualunque e lei una ragazza qualunque e pensò che, in quel momento, sarebbe bastato dire qualcosa di stupido per farla sorridere.
E invece...
Invece staccò un pezzo del suo panino e glielo tirò, colpendole una guancia, macchiandola con della maionese; i suoi occhi si aprirono di scatto, la confusione lasciò subito spazio a una luce di divertimento e, un attimo dopo, Olly gli aveva tirato la metà di frittella che non aveva ancora mangiato.
Cal avrebbe potuto porre fine a quella lotta immediatamente, ora che erano pari, ma, per qualche strano motivo, non lo fece e rispose al fuoco tirandole un altro pezzo del suo pranzo.
I due ragazzi erano scossi dalle risate, persi in quel momento di follia, totalmente immersi in quella leggerezza che non avevano mai trovato facilmente nella loro vita; le loro braccia si allungarono più volte, a volte sfiorandosi, altre afferrandosi quasi come per tenersi a galla e non lasciare che quel mare di gioia si trasformasse in una tempesta di emozioni troppo travolgenti; i loro corpi si erano avvicinati e ora le loro ginocchia si toccavano.
Più volte, troppo presi dalla battaglia, i due non si accorsero dei loro volti vicini, così vicini che se avessero smesso di ridere avrebbero sentito il respiro dell'altro sulle guance; il primo a capirlo fu Cal che, con la scusa di aver finito le munizioni, si allontanò di qualche centimetro, prendendo fiato e pensando a quanto sarebbe stato facile allungare una mano e toccarla, sentire la sua pelle chiara a contatto con la propria, e poi avvicinarsi ancora di più, essere accarezzato dal suo respiro, perdersi nell'immensità dei suoi occhi.
Non puoi farlo, diceva qualcosa dentro di lui, ma qualcos'altro gli gridava disperatamente di afferrarla e baciarla.
Fallo, fallo.
«Beh, direi che abbiamo fatto un bel casino», Olly aveva il volto sporco di maionese e di briciole, i capelli si erano spettinati a causa della brezza e della lotta, ma nonostante tutto sembrava comunque meno sconvolta del ragazzo, il cui fiatone e le cui guance rosse erano l'unico indizio della tempesta interiore che lo stava travolgendo.
«Tieni, prendi questo». Cal, cercando di distrarsi, le lanciò un tovagliolo piegato a forma di aereoplanino che aveva realizzato senza nemmeno prestarvi attenzione mentre le raccontava un pezzo del suo passato.
«Grazie», gli disse lei sorridendo prima di prendere due vaschette di pancakes, «Ci sono rimasti solo questi, meglio mangiarli».
«Già, scusa se ho fatto un disastro, credevo solo che sareb-».
«Non c'è problema, mi ha fatto piacere», Olly gli fece un rapido sorriso prima di continuare, non sapeva bene nemmeno lei cosa avrebbe voluto dire, ma era sicura di una cosa: non voleva che la conversazione cadesse nel vuoto ancora una volta, «Tendo sempre a farmi travolgere dai ricordi, a volte preferirei non averne, renderebbe tutto più semplice, ma poi ci penso... ».
«E capisci che, nonostante tutto, è comunque meglio di non averne mai avuti», concluse Cal per lei facendola annuire.
C'era qualcosa di estremamente piacevole nel parlare con qualcuno che capiva esattamente quello che volevi dire, come un filo che teneva legate due persone che si conoscevano appena, eppure condividevano lo stesso dolore, quasi come se fossero sempre state lì, soli, l'una accanto all'altra, e poi finalmente ecco che si erano incontrate
«E tu? Che ricordi hai oltre ai picnic con tua madre?».
Olly lo vide socchiudere gli occhi prima di iniziare a parlare, vide le sue mani tremare piano prima che afferrasse una forchetta per tenerle occupate e quasi si pentì di avergli fatto quella domanda, ma poi sentì la sua voce, malinconica, ma sicura mentre raccontava e allora ascoltò.
«Non molti, in realtà: la maggior parte sono prima dei sette anni. Ricordo che, prima che mia madre si ammalasse, quando tornava dal lavoro insisteva sempre per giocare con me a Risiko, anche se era stanca morta. Io all'epoca non capivo molto di conquiste mondiali-», a questo punto fece una piccola risata e Olly fu costretta ad imitarlo per allontanare un po' della tensione che sentiva crescere nel petto, «-però mi divertivo a tirare i dadi e a muovere i carrarmati, a volte la mamma me ne lasciava prendere uno in più, faceva finta di non sentire quando sbagliavo a contare o approfittavo della sua stanchezza per posizionarne più di quelli che mi spettavano. E alla fine vinceva sempre lei, ma a me non importava, non mi interessava poi così tanto quel gioco, però era l'unico modo che avevamo per passare più tempo insieme».
Cal assaggiò i pancake e il suo sguardo si illuminò, i suoi occhi color indaco erano più scuri del solito, ma, illuminati dai raggi di sole che riuscivano a superare le foglie della quercia, brillavano come la superficie dell'oceano.
«E' un bellissimo ricordo», disse Olly a bassa voce, mentre nella sua mente comparivano immagini di serate piuttosto simili, passate a sgridare Philip perchè imbrogliava sempre e a rincorrere suo padre che, a metà del gioco, tirava sempre fuori da chissà dove un pacchetto di caramelle per distrarla e farla perdere.
Uno strano sbuffo, una sorta di risata malinconica, lasciò le sue labbra.
«Lo è», le rispose Cal accennando un sorriso.
«E poi cos'è successo?».
«Mia madre», il ragazzo mangiò un altro boccone lasciando che il silenzio riempisse il poco spazio tra di loro, poi, dopo un attimo di indecisione, riprese a parlare, «mia madre è morta poco dopo il mio settimo compleanno e non c'era nessuno che potesse occuparsi di me. Ho passato il resto della mia vita in un orfanotrofio, sono uscito un anno fa».
«Mi dispiace», disse Olly piano, «non dev'essere stato piacevole. Logan, il mio miglior amico, ci è stato per quattro anni, prima che lo adottassero, è lì che l'ho conosciuto».
Cal annuì, infilzò l'ultimo pezzo di pancake e distolse lo sguardo, nervoso; la calda luce del primo pomeriggio, filtrata dai rami della quercia, lo avvolgeva con uno scintillio dorato e i suoi occhi, a metà tra luce e ombra, erano limpidi come non mai, tristi e malinconici.
«Ci sei stata anche tu?», domandò infine con la voce incrinata da un velo di preoccupazione.
«No», rispose la ragazza scrollando le spalle, facendosi così ricadere una ciocca di capelli scuri davanti al volto, «Mia madre lavorava all'orfanotrofio della città qui vicina, a volte, quando il nonno non poteva passarmi a prendere a scuola, veniva lei e poi mi portava con lei al lavoro, lasciava che giocassi con gli altri bambini. Ho conosciuto Logan e siamo diventati amici».
«E' stato fortunato», rispose Cal e quando, dopo aver finito il pranzo, si sdraiò sul prato accanto ad Olly, chiudendo gli occhi, rivide un immagine di se stesso, parecchi anni prima: rivide un bambino triste e arrabbiato con un libro sempre sotto braccio, rivide una stanza bianca e spoglia e lui che vi entrava, aprendo piano la porta e osservando con la coda dell'occhio gli altri bambini che giocavano insieme.
Ricordò qualcuno che gli diceva "Dai, vieni! Ti divertirai, vedrai che sarà felice di conoscerti!" e poi gli rimbombò nelle orecchie la sua voce, debole e spenta, "Non è vero, non piaccio a nessuno".
Poi, solo il rumore della porta che si chiudeva alle sue spalle, nel passato, e il mormorio di Olly che si era voltata verso di lui, nel presente.
«Non è vero, sono stata io quella fortunata».
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