Verso il regno di luce
Capitolo 30
"Verso il regno di luce"
Le radici sono importanti, nella vita di un uomo,
ma noi uomini abbiamo le gambe, non le radici,
e le gambe sono fatte per andare altrove.
Pino Cacucci
Pov Azzy
Stringevo la mano di Haru saldamente nella mia, mentre lentamente, senza farci scorgere da occhi indiscreti, percorrevamo i corridoi del castello con una certa euforia nelle vene.
Quella notte non eravamo arrivati fino in fondo, sebbene i miei ricordi fossero offuscati, ma di una cosa ero certo: c'era qualcosa di strano in me.
Aver scambiato il nostro sangue aveva cambiato ogni cosa, mi sentito vivo, euforico e percepivo come delle emozioni non mie. Mi sentivo bene, mentre il contatto di quella mano mi scaldava dentro, a partire dal cuore fino ad arrivare allo stomaco. Non c'era nulla di sbagliato, le paure che avevo provato fino a poche ore prima erano completamente svanite, evaporate come neve al sole.
Finalmente, non mi sentivo più solo.
Avrei però voluto parlarne con lui, cercare di capire se anche lui si sentisse a quel modo o se fosse solo una mia supposizione; tuttavia, non ne avevamo avuto il tempo.
Ryan aveva bussato alla nostra porta quella mattina e ci aveva comunicato di fare i bagagli e di trovarci nella sala degli arazzi alle 9.00 in punto. E, a giudicare dall'aspetto delle sue labbra, sembrava che non lo avesse detto solo a noi.
Voleva far fuggire anche Dragan, e in fondo lo comprendevo. In quel frangente più di prima.
«Siamo quasi arrivati.» sussurrai al mio compagno, che si arrestò qualche passo indietro inducendomi a fare lo stesso.
«Qualcosa non va?» chiesi preoccupato, guardandomi intorno con la paura che avesse potuto notare qualche pericolo non visto.
«No.» scosse la testa e si avvicinò a me, alzandosi sulle punte e sgualcendomi la camicia nera, aggrappandosi ad essa. Unì le nostre labbra e io automaticamente chiusi gli occhi, ricambiando quella tenera effusione, avvolgendogli la vita tra le mie braccia e portandolo più vicino al mio corpo.
Sentivo solo una gran pace, una felicità travolgente, che quasi mi fece bruciare gli occhi a causa delle lacrime incredule e trattenute.
L'avevo solo letto nei libri di questa sensazione, quasi credevo fosse un'esagerazione da parte dei poeti e delle anime sensibili e più romantiche; eppure, era così: l'amore era effervescenza, forza opposta e contraria, quanto semplice. L'amore era chiudere gli occhi e camminare in un prato fiorito, senza aver paura del precipizio.
Mi sentii esattamente a quel modo. Non mi sarebbe importato di cadere, mi sarei rialzato sicuro che lui sarebbe stato al mio fianco.
Quando ci separammo non mi nutrii alcun senso di perdita, perché il suo amore era ancora lì, dentro di me.
«Azrael.» sentir pronunciare il mio nome in modo così possessivo e deciso, mi fece scorrere dei brividi di piacere in tutto il corpo. Se fosse stato possibile lo avrei preso lì, contro quel muro e lo avrei fatto mio, senza pentirmi di tale scelta. Ne nutrivo, ne sentivo, l'irrimediabile bisogno.
Ero acceso, caldo. Ero fuoco che stava divampando, indomabile, folle, pazzo! Mi serviva ossigeno per vivere, molto ossigeno e semplici baci stuzzicavano solo il mio appetito impazzito, che chiedeva solo un legame ancora più profondo e per niente platonico. In fondo, era nella mia natura di vampiro aver bisogno di qualcosa di più carnale per sopravvivere.
Aprii appena gli occhi e affogai in quelle iridi cremisi. Non solo io, ma anche lui nutriva il mio stesso desiderio e lo capii in quel preciso istante.
«Sei mio.» gli accarezzai una guancia e sorrisi, per niente intimorito da quegli occhi.
A quella tenera carezza essi diventarono immediatamente verdi e arrossii, mostrando di nuovo quella dolce parte che era sua e che ormai, dovevo scendere a patti con me stesso per questo, sarebbe svanita a lungo andare.
«Ti amo.» rispose, mordendosi il labbro inferiore e poggiandosi contro il mio petto.
«Lo so, ma adesso dobbiamo andare o faremo tardi.» lo rimproverai, scostandogli una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Aspetta.» mi guardò di nuovo negli occhi «Per quello che è successo questa notte...».
Gli posai un dito sulle labbra per fermarlo.
«Per il momento lo terremo per noi, fino a quando non ne parleremo chiaramente.»
Annuii e poi andammo verso la nostra via di fuga; verso il nostro nuovo inizio.
Pov Dragan
Fu come una sorta di déjà-vu.
In piedi davanti a quella porta normalissima, sentivo la terra tremare sotto i miei piedi, anche se molti anni fa la causa fu molto diversa: allora, avevo paura del cambiamento, non ero mai uscito dallo stretto controllo di mio padre e non mi ero mai allontanato da quel castello che mi aveva visto dare la luce. In quel momento, mentre non avevo più quindici anni, sentivo la mia paura era dovuta a una sensazione. Non sapevo perché, ma in qualche modo sapevo che sarei di nuovo tornato presto tra queste mura, poiché era questo il mio punto di inizio, dove affondavano le mie radici e probabilmente sarebbe stato anche il mio capolinea, se mai la morte avesse voluto usare la sua falce su di me.
Osservai quell'asse dura e di legno di cedro quasi fosse la bocca di un serpente.
Scostai lo sguardo solo quando percepii dei passi appena udibili e un profumo che avrei potuto riconoscere tra mille.
Appena scorsi la figura di Haru, il medaglione che portavo al collo si fece pesante e caldo, quasi bollente. Solo una sensazione, ma abbastanza forte da farmi abbassare lo sguardo proprio verso quel punto celato dai miei vestiti.
Dopo che Ryan se ne era andato dalla mia stanza quella mattina avevo meditato a lungo se indossarlo o meno, e alla fine avevo ceduto a quella parte di me stesso che guaiva e si lamentava, stretta da delle catene che non volevo togliere.
Io amavo Haru, ne ero più che sicuro, allora perché quel medaglione e quei guaiti mi toccavano così tanto profondamente?
Alzai nuovamente gli occhi e incontrai le iridi di Azrael, calme come il mare in bonaccia, come non lo erano mai state. Sembrava aver trovato la pace eterna e lo invidiai, tanto quanto sapere che non era la mia mano a stringere quella dell'albino.
«Dragan.» salutò mite il moro.
«Come stai?» chiesi al più piccolo, ignorando l'altro completamente.
Haru guardò il compagno e poi me, sorridendo colpevole.
Davvero non avevo più alcuna speranza? Sì, eppure continuavo a nutrirne nonostante i rifiuti.
«Sto bene, adesso.» lo disse con decisione, fluido. Fu come sentirlo parlare per la prima volta e in quel momento capii che Ryan aveva ragione: non era più umano.
«Entriamo.» riuscii solo a dire, voltando loro le spalle e aprendo quella porta che non sembra più l'entrata per l'Inferno.
Ryan era seduto su uno dei divanetti, composto, ma allo stesso tempo rigido come la corda di un violino.
Si stava tastando le punte dei capelli rossi tra indice e pollice, con uno sguardo tra l'indifferente e l'imbronciato, segno che però, per chi lo conosceva, voleva dire che aveva fatto qualcosa di cui non andava per niente fiero.
A pochi metri da lui, poggiato a uno degli arazzi, una nera figura incappucciata sostava statuaria con le braccia serrate al petto e intorno a lui vi era un'aurea di freddezza e rabbia cupa. Dove l'avevo già vista?
«In perfetto orario.» sorrise Ryan, scendendo e venendoci incontro, gettandosi però principalmente tra le mie braccia.
Non ricambiai. Non gli donai neppure una carezza, rimasi fermo come una statua di granito che non gradiva affatto la sua presenza, sebbene poco prima non fosse stato affatto così. Nella mia camera avevo perso il controllo, così come nella foresta quando lo avevo preso tra le mie braccia invece che lasciarlo indietro.
Sembrò non prendersela affatto, mi strinse solo di più e poi mi lasciò, senza più rivolgermi uno sguardo.
Fu difficile non percepire qualcosa che si rompeva. Per un momento sentii il gelo.
Lo ignorai, come molte altre cose.
«Questa è la vostra unica occasione.» incominciò parlando ad Azrael e Haru, come se il discorso non mi riguardasse affatto.
«Quella persona incappucciata vi aiuterà ad uscire da qui senza farvi scoprire e vi scorterà fino alle colline che segnano il confine tra il nostro regno e quello della luce. Una volta giunti là potrete sbrigarvela da soli e sarete al sicuro. Dragan inoltre sa dove andare. Addio.».
Cercò di andarsene, ma io gli presi un braccio.
Fu un gesto istintivo, involontario ed incontrollato.
«Sì?» chiese sorpreso quanto me.
Lo lasciai immediatamente.
«Non devi preoccuparti.» dissi solo, allontanandomi il secondo successivo, prima di compiere qualche altro gesto sconsiderato. Come se non ne avessi già fatti abbastanza in quelle poche ore.
Mi avviai vicino a quella figura che ancora non aveva parlato e che non mi ispirava affatto fiducia.
«Non mi importa se non siete pronti.» alzò appena il viso, ancora invisibile, e poi guardò verso Haru in particolare «Se sarete dei pesi, se non riuscirete a seguire i miei ritmi, se non seguirete i miei ordini e se sarete molesti vi lascerò indietro. Se sarete feriti, se vi ammalerete, se non mi doveste piacere vi ucciderò senza pensarci.» si presentò, minaccioso, prima di spostare una delle stoffe appese al muro, mostrando un passaggio segreto già aperto.
«Seguitemi, non lamentatevi e non cercate di scoprire il mio volto. Il mio nome è Devesh, se ve lo chiedete sono anche io un vampiro, e odio parlare.» disse scontroso, prendendo una torcia infuocata ed entrando nel passaggio senza aspettarci o farci un segno.
Fu in quel momento che lo ricordai.
Sarebbe stata una lunga e dura fuga.
Pov Devesh\Dylan
Vederlo entrare in quella stanza per me fu un colpo al cuore, sparato da un cecchino esperto, con freddezza e assoluta padronanza della sua arma.
Era cresciuto il mio piccolo bambino e quel che era peggio era che lo aveva fatto senza di me, ma ormai il destino era stato tessuto e io non potevo far altro che adattarmi ad esso e alle scelte fatto, senza poter piangere sul latte versato; non sarebbe servito. Non in quel momento, mentre era a pochi passi dietro di me, lontano dai miei occhi che faticavano a guardarlo a causa della vergogna che provavo nei miei stessi confronti.
Non ero mai riuscito a perdonarmi per aver abbandonato i miei figli, sangue del mio sangue, anche sa sapevo che allora inscenare la mia morte fu la cosa migliore per tutti. Non li avrebbero trovati, o così almeno pensavo, ma a quanto pare alla fine era impossibile proteggere davvero qualcosa di così importante, anche privandoci di essa.
«Dove stiamo andando?» chiese sottovoce, probabilmente a me o a uno dei ragazzi che ci accompagnavano.
«Non lo so.» rispose il vampiro dai capelli lunghi, che era accanto a lui «Non sono mai passato per questi corridoi».
Si guardò intorno disorientato, alla ricerca di un punto familiare, che però non sarebbe mai riuscito a trovare. Quei cunicoli sembravano tutti uguali, sono qualcuno di esperto, che li aveva percorsi mille volte, sarebbe riuscito a non perdersi, probabilmente per l'eternità. Io stesso, i primi tempi, avevo corso quel rischio.
«Sono cunicoli.» specificai atono e con voce bassa, roca, per non essere riconosciuto; anche se dubitavo che Haru potesse riconoscere la mia voce dopo così tanti anni «furono scavati più di duecento anni fa. Una volta questa era una miniera che poi venne distrutta e nessun testimone è ancora vivo per raccontare come.».
«Vuol dire che...» il più piccolo non riuscì a finire la frase.
«Sì, chi vi lavorava è morto e giace ancora sotto questa terra. Anche bambini.» alzai più in alto la torcia per far scorgere loro alcuni scheletri che ancora erano visibili su quei percorsi rocciosi e irregolari.
«Ora basta con la gita turistica.» tornai a camminare deciso e a passo di marcia «È meglio non rimanere in questo posto troppo a lungo.»
«Perché? Paura dei fantasmi?» chiese sprezzante il moro che teneva così impunemente la mano di mio figlio, mentre giocava con uno dei tanti teschi lì presenti.
«N...Non esistono i fantasmi vero?» chiese l'albino, sbiancando.
«No.» si intromise Dragan «Ma immagino che non siano cunicoli sicuri. Sopra c'è il castello, il peso li schiaccia e provoca crolli, non essendo vere e proprie strutture con una solida base, ma solo gallerie scavate nella terra. Non so come facciano ad esistere ancora dopo così tanti anni.».
Non risposi e non rivelai nemmeno che in realtà molti cunicoli erano ormai ostruiti. Per lo più resistevano solo quelli completamente rocciosi, la cui storia era per qualche triste motivo anche la più agghiacciante, visto che erano i passaggi costruiti dai bambini.
«Questo posto mi ricorda qualcosa.» se ne saltò fuori all'improvviso quello che mi sembrava il più stupido del gruppo.
Continuai a camminare davanti a loro, cercando di prestare la minima attenzione a loro e soprattutto a quella mano che non accennava a staccarsi da quella di mio figlio, che stringeva dolcemente, come se fosse stata un'ancora e allo stesso tempo un ponte di collegamento. Perché sembrava fidarsi così tanto di lui e essere a proprio agio in quella situazione? Non era forse stato rapito da quei vampiri, strappato da quella normalità che avevo cercato di donare a lui e a sua sorella per tenerli lontani da questo mondo corrotto e marcio?
«La montagna?» tentò Haru.
«No, il profumo di Ryan.» rispose perplesso «Sbaglio?» cercò lo sguardo del secondo vampiro, che però lo ignorò totalmente, aumentando anche il passo. Sembrava che non scorresse buon sangue tra i due.
Vampiri adolescenti. Odiavo i loro drammi, ma probabilmente era perché al tempo anche io avevo vissuto i loro stessi problemi.
A quell'età ci si sentiva maturi, quasi vecchi, con il mondo in mano e la straordinaria consapevolezza di avere una forza tale da poter avere il mondo tra le mani. Era facile sentirsi dei re e degli eroi, ma in realtà non si era altro che ancora dei bambini, forse cresciuti un po' troppo alla svelta, forse ancora troppo immaturi, ma pur sempre infanti. I drammi d'amore e le scaramucce o le avventure con gli amici erano ciò che muovevano un adolescente, mentre gli adulti erano mossi da ben altro, un peso che all'ora, alla loro tenera età, non avrei mai potuto comprendere.
«Smettetela.» ringhiai, riportando ordine e silenzio «O vi lascio qui e credetemi, non vorreste mai perdervi in queste gallerie per l'eternità, senza possibilità d'uscita.».
Forse fui troppo severo, ma tutti si ammutolirono e io scossi la testa, tornando a guidarli, anche se sarei voluto essere lontano da loro.
Probabilmente ero un codardo. Quale padre non sarebbe stato felice di rivedere il proprio figlio e di riabbracciarlo?
Ma proprio perché ero genitore sapevo che non mi avrebbe mai perdonato: gli avevo fatto credere di essere morto, che fosse solo, orfano e padre di se stesso. Lo avevo lasciato a crescere da solo, insieme a sua sorella, privandolo di quella spensieratezza che avrebbe dovuto avere ogni bambino alla sua età, lasciandogli solo un misero arco come arma, privandolo di spiegazioni e nascondendogli la verità su chi fossi veramente io e cosa fosse lui. Gli avevo negato la possibilità di essere se stesso e questo era il più grande fallimento che come padre avevo compiuto.
In quel momento era lì, con un sorriso sulle labbra e l'amore negli occhi, ma sapevo che dietro quelle iridi verdi simili a quelle di sua madre, ma che aveva ereditato dal bisnonno, c'era molto di più. C'era una paura che potevo vedere, ma non guarire o decifrare.
Come padre avevo fallito.
Non avevo alcun diritto di rovinargli la vita, di intromettermi, ma in qualche modo fu più forte di me cercare di proteggerlo da sotto quel mantello.
Non era necessario che lui venisse a conoscenza della mia identità. Nell'ombra, mi fu data in fondo una seconda possibilità che avrei cercato di non sprecare, mai.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro