Jack
Quante strade prende e quanti pretesti adduce il cuore per arrivare a quello che vuole!
A. Dumas, La signora delle camelie
I suoi piedi scalzi gli facevano male, ogni passo su quella dura e sporca terra era una tortura, mentre i suoi vestiti leggiadri e candidi si erano ormai strappati e sporcati di quello scuro colore marrone.
Stava camminando da ore, la sua gola era secca, necessitava di anche solo una piccola goccia d'acqua, mentre la calura del meriggio non gli lasciava alcuno scampo; la sua testa era pesante, girava, ma non si fermava, continuava a correre, lontano, lontano dalla sua prigione e sempre più vicino alla sua libertà.
Era scappato, non sapeva neppure lui come, ma ci era riuscito e per la prima volta dopo tanto tempo si sentiva felice, come non mai. Sapeva qual era la sua meta, dove poteva trovare la sua felicità e questo gli bastava e avanzava; voleva semplicemente gustarla ancora per qualche ora, prima di doversene andare di nuovo, ma a lui andava bene così.
Non avrebbe dovuto innamorarsi, lo sapeva che questo lo avrebbe portato su una strada di non ritorno, ma era successo; il suo cuore non riusciva a dimenticare quei bellissimi capelli castani, leggermente rossicci, quegli occhi profondi e quel sorriso accattivante che brillava e lo faceva sentire speciale, come nessuno, dovuto anche al fatto, forse, che era l'unico che in quel luogo lo chiamava con il suo vero nome.
Il sole picchiava forte sulla sua pelle, che si era fatta rossa come il fuoco e bruciava tanto da sembrargli di aver toccato l'inferno. Nonostante questo, però, non si arrendeva, continuava a correre a cercare quello che era il suo amore e poi eccola finalmente, quell'enorme villa splendente che gli fece nascere spontaneo un sorriso sulle labbra e volteggiare il suo cuore come se fosse in grado di fare salti mortali.
Aumentò il passò, gli sembrava quasi di poter volare, ancora come in passato, ma sapeva che non era così, che non avrebbe mai più potuto evocare quelle ali che gli erano state brutalmente strappate quando lo avevano imprigionato sotto quella campana di vetro che lo aveva fatto morire dentro.
Inciampò varie volte, ma alla fine eccola, sempre più vicina quella casa che vedeva sfocata a causa delle lacrime.
-Jack! - urlò, felice, mentre nonostante la sua forza di volontà tutto si era fatto buio.
Quando riaprì gli occhi la prima cosa che vide fu un affrescato soffitto, la seconda cosa una figura che fece fatica a mettere a fuoco; aveva capelli scuri, capelli chiari, occhi neri e profondi.
-Si è svegliato. - la sua voce era femminile, sembrava essere sollevata mentre sorrideva al ragazzo albino. -Hai sete? - chiese, senza aspettare risposta e versando un bicchiere d'acqua che poi gli posò sulle labbra, aiutandolo a bere avidamente.
Lentamente la sua vista si fece sempre più acuta, i bordi e le immagini sfocate iniziarono a divenire definiti e poi lo vide, lì, seduto preoccupato proprio sotto di lui, che per tutto il tempo doveva avergli fatto da cuscino con le sue gambe.
I suoi occhi azzurri come il mare si specchiarono con quelli di quell'uomo che tanto amava, che gli aveva rubato il cuore in modo così semplice da non sembrargli neppure reale.
-Jack... - quasi pianse, buttandosi tra le sue braccia, che subito lo strinsero e gli accarezzarono la schiena per tranquillizzare i suoi singhiozzi.
Immediatamente un dolce profumo di camelia gli arrivò alle narici, forte, pungente, amato. Quasi sorrise inconsciamente l'albino, trovando quel fiore perfetto come simbolo di ciò che il castano rappresentava per lui.
-Vi lasciamo soli. - disse la stessa ragazza di prima, che però rimase inascoltata, poiché i due già si erano chiusi nel loro mondo, in quella loro piccola e fragile bolla che però avrebbero lottato con le unghie e con i denti per non farla scoppiare.
La mora sorrise dolce e si allontanò il più silenziosamente possibile, con i tacchi che leggiadri sembravano un semplice e dolce rumore di fine pioggia sul pavimento, accompagnata da un'altra figura, che però non era stata scorta dal ragazzo che aveva occhi solo per l'uomo che lo stringeva amante.
Era il loro secondo incontro, ma era come se in realtà si conoscessero da sempre; come se le loro anime si fossero già incontrate e sfiorate in un qualche tempo passato, così intensamente da lasciare un permanente segno in entrambi.
Si guardarono intensamente, i loro respiri accarezzavano l'uno il viso dell'altro e poi l'incontro delle loro labbra fu inevitabile.
Fu un contatto dolce, un semplice suggersi di labbra; un bacio iniziato piano, un po' impacciato e poi sempre più deciso, passionale e solo il rumore delle loro bocche faceva da musica di sottofondo in quell'enorme sala vuota, dove c'erano solo loro a fare da protagonisti.
-Mi hai fatto venire quasi un infarto. - soffiò Jack, sulle sue labbra, tenendo gli occhi chiusi, le loro fronti a contatto, mentre le punte dei loro nasi si accarezzavano appena, dolcemente.
Il cuore del compagno quasi urlava, batteva come delle bacchette sul tamburo di una batteria. Si sentiva le guance in fiamme, le farfalle nello stomaco, gli occhi liquidi e felici, mentre continuava a pensare che quello era stato il suo primo bacio e imbarazzato ne desiderava ancora.
-Pensavo che i vampiri fossero immortali. - sorrise appena, colpevole, guardandolo di sottecchi -Mi dispiace. - aggiunse poi, mentre l'altro sbuffando e facendo uno di quei meravigliosi sorrisi gli prendeva il mento, costringendolo a guardarlo, prima di tornare a riappropriarsi di quelle morbide e saporite labbra.
Si baciarono di nuovo, a lungo, ma non andarono mai oltre a quel contatto. Non ne avevano bisogno, non in quel momento, anche se il desiderio era una fiamma implacabile dentro di loro; sapevano di non essere ancora pronti, di non poter unirsi a quel modo così completo. Si conoscevano da troppo poco e volevano gustarsi ogni momento possibile; poi, per loro il semplice stare abbracciati a quel modo era come fare l'amore. Baciandosi, le loro anime si toccavano e si amavano, si univano e poi fuggivano, per incontrarsi di nuovo.
-Anche se immortale ho un cuore, Deneb. - sentirlo pronunciare dolcemente il suo nome gli riempì il cuore di gioia più di quanto già non fosse; ormai straripava, gli sembrava impossibile provare un sentimento così potente da stordirlo. Era sicuro che presto gli sarebbe venuto un infarto.
-Volevo vederti. - lo abbracciò, nascondendo il volto nell'incavo di quel collo profumato. Si sentiva a casa, dopo secoli e secoli di solitudine.
Tra quelle braccia si sentiva tranquillo, protetto, amato come non mai.
Tra quelle braccia non era l'Angelo, non era il creatore del mondo, l'essere più antico di quella terra, ma semplicemente un ragazzo normale e forse era proprio questo che lo aveva attratto sin da quel momento, in quel giardino, in quel gazebo dove Jack gli aveva chiesto di ballare, sotto la luce delle stelle.
-Potevi dirmelo nei nostri sogni. Ti sarei venuto a prendere. - lo rimproverò bonariamente, poggiando tanti piccoli baci tra quei candidi fili bianchi come la neve, lisci, morbidi e profumati.
-Volevo sorprenderti. Tu lo fai tutte le volte con me. - mugolò contro la sua spalla, mentre chiudeva gli occhi e si abbandonava a quelle piccole carezze.
-E' perché ti amo. - sussurrò al suo orecchio il castano, portando il cuore in gola a Deneb, i cui occhi si riempirono di lacrime.
Era proprio questo ciò di cui stava parlando; Jack riusciva sempre a farlo sentire umano, fargli provare emozioni dal quale in realtà avrebbe dovuto stare lontano, ma che ormai erano diventate una necessità.
Non poteva più lasciarlo, non voleva; come non voleva tornare in quella gabbia che avevano costruito per lui, per tenerlo al "sicuro".
I tempi d'oro dove lui era l'Angelo amato da tutti erano ormai lontani, nessuno veniva più alla sua porta, ma tutti lo temevano, lo vedevano come un essere irraggiungibile, inarrivabile, e di questo soffriva, anche se continuava comunque ad amare quel mondo che aveva creato per amore, fino quasi a sacrificarsi.
-Anche io... - sussurrò piano, mentre tornavano a baciarsi e a perdersi mano nella mano, su quel divanetto che era diventato il loro piccolo confessionale d'amore.
Da «L'Angelo della vita», pagine perdute, Libro II
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