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"Il bene e il male in te" - Parte 2

Capitolo 9

"Il bene e il male in te" – Parte 2

Per tutti la morte ha uno sguardo.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

Sarà come smettere un vizio,

come vedere nello specchio

riemergere un viso morto,

come ascoltare un labbro chiuso.

Scenderemo nel gorgo muti.

Cersare Pavese – Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Pov Azrael

-D... Dove stiamo andando? – chiese con un sussurro, mentre continuava a tenermi per un lembo della camicia. Tremava come un piccolo coniglietto e ancora non aveva visto la parte più bella di quella gita in cui avevo intenzione di portarlo.

-Nei sotterranei. – dissi scendendo le ultime rampe di scale, mentre il tempo sembrava come congelato in quella parte del castello.

L'aria era umida, fredda, ti penetrava quasi fin dentro le ossa; le pareti erano scure e bagnate di acqua torbida, che accarezzava le mura in sasso le cui facce erano rovinate e irregolari, sul quale il muschio cresceva rigoglioso.

Presi la lanterna appesa alla parete e accesi la piccola e consunta candela all'interno. –Forza vieni, ora ti faccio vedere ciò che cerchi. – dissi, voltandomi e mettendogli in mano quell'oggetto di vetro e ferro –Dopo di te. -.

La sua piccola mano candida si chiuse dolcemente attorno all'anello e ingoiando rumorosamente si fece coraggio, guardandomi, come a ricordarsi che se c'ero io non doveva provare alcuna paura; era una cosa sciocca, dolce... ma non me ne importava affatto, perché quella notte gli avrei fatto capire che non avrebbe mai dovuto fidarsi di nessuno, perché un giorno prima o poi chiunque lo avrebbe tradito, anche la persona più impensabile di questo mondo; perfino un cane poteva tradire il proprio padrone. Io lo avevo pagato molto tempo prima a mie spese.

-Non te ne vai vero? – chiese mordendosi il labbro inferiore, sbattendo quelle dannate palpebre per accentuare quegli acquosi occhi verdi, magnifici, che incantavano anche me.

-No, ora andiamo. O qualcuno potrebbe voler mordere il tuo candido collo, nanerottolo. – si irrigidì e subito iniziò a scendere i gradini, mentre io ridacchiavo dietro di lui, osservando attentamente la linea delle sue spalle, ogni più piccolo cambiamento; prestando anche attenzione ai suoi passi, sapendo che era solito inciampare anche nel nulla. Forse era proprio per quel suo lato goffo che amavo prenderlo in giro e fargli del male.

Scendemmo in silenzio, senza alcuno ostacolo; percepivo il suo cuore battere forte, quasi in gola, mentre reggeva quella lanterna per far luce ai suoi deboli occhi che non potevano vedere lontano, oltre a quel buio pesto che invece i miei lumi potevano valicare.

Era piacevole ascoltare quel suono; nonostante tutto non riuscivo proprio a smettere di udirlo. Era come una droga, esattamente come quel sangue che sapevo scorrergli nelle vene e che era impossibile da ignorare, anche mentre mi era a qualche passo di distanza.

Osservavo come ossessionato la linea del suo collo, le punte dei suoi canuti capelli accarezzarla insieme alla spalla; irrazionalmente avrei desiderato accarezzarlo in quel punto, prima di chinarmi e morderlo, prosciugando completamente quel piccolo corpicino di ossa e carne della propria scarlatta linfa vitale. Eppure, dovevo trattenermi come sempre davanti a lui.

-Quanto manca? – chiese, mentre una lieve nebbiolina iniziava a camminare verso di noi all'altezza del pavimento, nascondendo i gradini e l'aria si faceva ancora più rarefatta e gelida, come se all'improvviso fossimo giunti in una landa su all'estremo Nord del mondo.

-Non molto. – risposi, mentre mi umettavo le labbra e l'eccitazione iniziava a scorrermi dentro, percorrendo ogni più piccola parte del mio corpo, perfino le punte dei miei capelli; avevo quasi la pelle d'oca.

Lui annuì tornando a camminare, posando una mano sulla scoscesa parete accanto a lui, nel tentativo di avere un aggrappo, una sicurezza, un'ancora che avrebbe potuto proteggerlo dal crollo del mondo se necessario, inconsapevole che la terra sulla quale camminava non era altro che un fragile vetro, fatto di sabbia e fuoco, una lega così precaria che niente avrebbe potuto impedirne la rottura.

La strada della vita in fondo era fatta che di quella lega, che riluceva nel buio del caos e delle incertezze; un affascinante falso diamante, che prima o poi sarebbe crollato, facendo piombare chi percorreva quel sentiero nel buio della solitudine, della morte.

Nulla era certo nella vita: l'unica cosa su cui si poteva contare era se stessi.

Ormai eravamo vicini, molto vicini alle prigioni; potevo percepire grazie al mio udito alterato i lamenti dei prigionieri, con gli occhi riuscivo a vedere le loro braccia tendersi oltre le sbarre, quasi nel tentativo di catturare una luce che non avrebbero mai più potuto toccare. Avevo sempre amato quel luogo, quanto molto in fondo lo avevo odiato; quante persone avevo ucciso? Quante volte mi ero sporcato del loro sangue per dovere e per fame?

Ma a chi volevo darla a bere, io avevo sempre adorato sentire le loro urla di dolore e terrore e di bagnarmi di quel loro scarlatto liquido che mi rendeva ancor più bello di quanto già non fossi.

-C... Cos'è stato? – squittì all'improvviso, fermandosi e guardandosi intorno. Fece un passo all'indietro e si scontrò contro il mio petto; lo cinsi per la vita e appoggiai il mento sulla sua spalla.

Quale sublime profumo. Mi penetrò nelle narici, mi inebriò i sensi, mi distese i nervi.

-Nulla. – risposi flebile, con voce melliflua, baciandogli la spalla scoperta a causa di quella maglietta troppo grande che indossava, perché mia. Era una splendida visione quando indossava i miei indumenti, non avrei mai smesso di ripeterlo. –Un animaletto. Continuiamo a scendere, ormai manca poco. – con le labbra gli accarezzai la pelle del collo, vi posai tanti piccoli baci che lo fecero tremare di eccitazione, mentre il respiro gli si era mozzato; era così dolce il mio piccolo gattino che ben presto avrebbe rizzato il pelo per la paura.

-O... okay. – si lasciò persuadere e si mosse non appena lo lasciai, scendendo gli ultimi gradini, mentre la nebbia si era fatta più fitta e l'oscurità era più cupa del nero della notte.

Io rimasi poco più indietro di lui, mentre i lamenti si facevano più forti e godetti quando le umide e risonanti pareti produssero l'eco della lanterna di ferro cadere a terra e il suo urlo spandersi, rendendomi gongolante di gioia.

Le mani scheletriche si animarono, iniziarono ad ammucchiarsi l'una sull'altra, nel tentativo di raggiungere Haru che se ne stava fermo, impietrito, con le lacrime agli occhi e i palmi sulle orecchie al centro del corridoio.

Lui per quei reietti doveva essere una luce folgorante, di salvezza; qualcosa che non vedevano sin da quando erano stati rinchiusi in quella gattabuia per i loro peccati.

-Non ti piacciono gli animaletti? – chiesi avvicinandomi.

-Liberali! – urlò, voltandosi verso di me; era la prima volta che vedevo quegli occhi verdi diventare duri e taglienti come lame –Liberali! – ripeté tremando.

-Non posso. – mi avvicinai e gli accarezzai una guancia, ma lui si ritrasse, voltandosi.

-Che vi hanno fatto di male? – chiese, con voce piena di risentimento, mentre stringeva le mani a pugno.

Era bello anche in quel frangente, mentre fragile si mostrava coraggioso. Perché sembrava che in lui la paura diventasse forza? Come poteva reagire, sebbene lui non riuscisse a comprendere questa sua peculiarità?

La paura non lo fermava, ma lo faceva camminare, correre. Forse anche per questo mi aveva colpito quel giorno, in quella casa in fiamme.

-Sono prigionieri di guerra. Sono qui per espiare i loro peccati. – mi avvicinai a una di quelle mani, che non riuscì a sfuggire alla mia presa in tempo; gli accarezzai e baciai l'interno del polso e poi lo ruppi, facendo gridare quel povero abitante di luce sfortunato.

-Fermati! – Haru si lanciò su di me e mi abbracciò. Come poteva averne ancora il coraggio dopo ciò che gli avevo fatto vedere? –Non fargli del male, ti prego. – singhiozzò.

Lasciai quel braccio, che si ritrasse immediatamente, sparendo in quelle tenebre a lui nemiche e poi guardai quel dolce nanerottolo le cui sopracciglia erano imperlate di piccole gemme trasparenti.

-Non far più loro del male. – sussurrò contro il mio petto.

-Non posso promettertelo; ora vieni, questa non era la parte migliore. – lo presi per un polso e iniziai a trascinarlo quel lungo e sempre più stretto corridoio. Non vi era alcuna apertura, nessuna luce e lui dietro di me tremava di paura mentre si lasciava trascinare; non che avrebbe avuto molta altra scelta: volevo condividere quel momento con lui.

In silenzio arrivammo in una sala circolare, buia, tetra, la cui aria era pesante e stantia, quasi acidula e sudicia; sapeva di carne in putrefazione e urina.

Accesi le torce una ad una, illuminando l'ambiente spoglio, ma sporco di sangue, parecchio sangue che deturpava il nero pavimento e le pareti, schizzandole, indicando che in quel luogo in molti erano passati, ma mai usciti vivi.

Percepii il respiro trattenuto dell'altro, che dietro di me guardava la figura stesa e rannicchiata a terra, legati a mani, e piedi a delle catene, ancorate al pavimento; quello respirava a fatica, la sua pelle era pallida come la superficie lunare, i suoi capelli biondi e sporchi di sangue, polvere e cenere o anche di semplice pattume nero presente tra le fessure dei ciottoli che componevano il grezzo pavimento.

Il prigioniero era contenuto all'interno di un cerchio si sale, un antico sigillo legato alla stregoneria, che serviva per intrappolare, ma che a noi semplicemente fungeva come elemento purificatore, oltre che alla mera morte che raramente concedevamo. Solitamente le vittime all'interno di quel luogo rimanevano lì per anni, se non secoli, come nostre fonti di sostentamento; ci divertivamo a torturarle, a sentirle gridare mentre imploravano la pace, la morte, che noi non volevamo concedergli.

Mi avvicinai tranquillo ad un tavolo, sul quale erano poggiati strumenti dediti alla tortura; oggetti come quelli erano presenti praticamente in tutto il sotterraneo nelle più varie stanze nascoste.

Canticchiai appena, passando una mano su quelle armi taglienti, pericolose, anche se all'apparenza sembravano innocue e poi presi l'arma più semplice, ma che avrebbe comunque fatto soffrire quella creatura di luce in modo atroce: una frusta.

Tornai da Haru, che continuava a guardare come spiritato la figura in mezzo a quel cerchio, che lentamente, abituato come una bestia si alzò faticosamente, mettendosi in ginocchio, tremando completamente nudo, pieno di tagli, ustioni e cicatrici che non avrebbero mai abbandonato il suo corpo emancipato, quasi scheletrico.

-Vuoi giocare un po'? Ti assicuro che è molto divertente. – mi misi dietro di lui, che era come se non mi vedesse. Gli presi una mano, gli misi tra le mani quell'arma che avevo scelto e gli baciai il collo –Non avere paura, è abituato al dolore. – aggiunsi mellifluo, disegnando reticolati invisibili su quella dolce pelle calda.

-Perché mi stai facendo questo? – lasciò che un'altra lacrima cadesse dai suoi occhi, percorrendo la sua gote, cadendo poi a terra, davanti ai suoi piedi. Quanta umiltà e umanità poteva avere quel piccolo angelo che tenevo tra le braccia? Non potevo permettergli di tenersene troppa dentro, in quel luogo lo avrebbe portato alla morte. Dovevo proteggerlo, me lo ero ripromesso.

-Per farti capire che io non sono buono Haru. – gli accarezzai la base della schiena, appena al di sopra dell'osso sacro, mentre muovevo il suo braccio, pronto ad aiutarlo nel movimento della scoccata. –Siamo in guerra anche se non la vedi, non c'è posto per la gentilezza; devi reagire, sei l'Angelo e devi usare i tuoi poteri per difendere la tua gente. -.

Cercò di contrastarmi, di fermare il mio movimento. –Io non sono l'Angelo, non ho alcun potere! – tentò di ribellarsi, cercando di allontanarsi da me, ma non avrei mai potuto permetterglielo. Doveva vedere, osservare con i sui occhi; era necessario che sporcasse il suo animo.

-Sai cosa accadrebbe se non lo fossi? Faresti la sua stessa fine. – lo costrinsi a scoccare, a colpire quell'uomo che urlò di dolore non appena quella frusta lo colpì, con gli aculei che erano spuntati mentre la corda viaggiava nell'aria, quando dapprima erano invisibili.

Si contorse a terra, urlò e ansimò, piangendo, mentre il sangue copioso si riversava a terra e sul suo corpo e con lui anche l'albino tremava contro di me.

-No... - disse flebile, inudibile, quasi persino al mio orecchio.

Gli accarezzai la guancia, mentre la frusta gli cadeva a terra, con un suono pesante; sarebbe crollato anche lui in ginocchio, se non lo avesse tenuto stretto per la vita con una mano, mentre tentavo di tranquillizzarlo canticchiando una vecchia e dolce nenia all'orecchio, sussurrando parole antiche, che nemmeno io ricordavo esattamente dove e quando le avessi sentite. Era una lingua strana, ma tranquillizzante, che calmò i suoi singhiozzi, il suo dolore sordo e acuto.

- Saya akan dekat di tangan, jangan takut; bahkan jika dunia akan jatuh sayap saya menanggung engkau up. * – non sapevo perché, ma la mia voce era quasi rotta nel pronunciare quelle strane parole senza senso, che probabilmente non esistevano nemmeno, se non nella mia testa.

-Liberalo, ti prego. – chiuse gli occhi, mentre si abbandonava contro ogni altro irragionevole dubbio contro il mio petto.

-In qualunque modo? – chiesi e lui annuì, lasciandosi andare e cadere a terra, sconsolato, privo di forze.

Lo lasciai e mi diressi vero quella figura che da dietro i lunghi, disordinati capelli, che gli coprivano anche il volto mi guardò supplicante. Sapevo cosa voleva e glielo avrei dato e non perché me lo aveva chiesto il nanerottolo, ma perché in fondo avevo fame e avevo voglia di divertirmi, di mostrare al più piccolo quanto in realtà fossi crudele.

Io non volevo alcuna traccia di luce in me, volevo solo che il buio mi circondasse, che la morte fosse nei miei occhi.

-Fermo! – mi sentii all'improvviso circondare dalle piccole braccia di quell'angioletto bianco come la neve –Non ucciderlo. Ti prego. -.

Lo guardai appena da oltre la mia spalla. –Perché dovrei ascoltarti? – chiesi –Mi hai appena detto di liberarlo in qualsiasi modo. – gli ricordai.

-Mi potrai avere, in qualunque modo, ma non ucciderlo. Prendimi. – sentivo la paura nella sua voce, il costo che quelle parole avevano avuto per lui, ma non potei che ritrovarmi a sorridere e sentirmi eccitato, mentre mi giravo e mi chinavo per baciarlo, stringendolo tra le mie braccia e ricercando l'orlo di quella maglietta che era di troppo.

Tra morte e carnalità, avrei scelto sempre la seconda se si trattava di quella piccola campanella bianca.

Lo feci indietreggiare fino ad una delle pareti, continuando a baciarlo, mentre le sue mani si erano andare a serrare sulla mia camicia. Si era perfino alzato sulle punte, per raggiungermi meglio, e goffo ricambiava come meglio poteva essendo completamente inesperto.

Gli accarezzai la pelle calda dei fianchi snelli e morbidi, sentivo piccole scariche elettriche partire dai miei polpastrelli. Avrei voluto divorarlo in quel preciso istante, ma mi staccai e mi fermai quando iniziò a piangere e tremare, strizzando gli occhi, pieni di paura.

No, non potevo prendermelo in quel modo.

In passato avevo violentato, stuprato, percosso donne e uomini, solo per il semplice gusto della paura e del sesso, ma non volevo che lui mi ricordasse a quel modo; che il suo corpo tremasse a causa delle mie violenze. Era illogico, persino per me, ma era così.

Mi allontanai e in pochi secondi mi ritrovai dietro al prigioniero che sorrise, chiudendo gli occhi e mimando con la bocca "grazie".

Gliela recisi, decapitandolo e buttando quel capo ai piedi di Haru che gridò, osservando quegli occhi che diventavano vitrei e bui, sbiancando, diventando bianco come un cencio e poi svenire, cadendo a terra.

-Debole di cuore. – sentenziai, lasciandolo li, mentre alzavo quel cadavere, rompendo con forza le catene e bevendo il sangue da quel collo reciso come se fosse un calice.

Mi sporcai il viso, i vestiti, i capelli; mi sentii finalmente il vecchio me stesso, quello che adorava sporcarsi di sangue e che diventava ancor più bello macchiato di quella linfa vitale.

Mi sentivo come una corolla di tenebra, cristallizzata nel roso rubino.

Pov Haru

Quando mi svegliai ero su una morbida superficie, qualcosa di caldo mi abbracciava, probabilmente una coperta, mentre un piccolo soffio d'aria costante come un respiro mi accarezzava i capelli in un punto preciso.

Mi sentivo frastornato, stanco, nonostante il mio corpo mi dicesse che dovevo aver dormito a lungo, ma in un sonno agitato, probabilmente.

Aprii piano gli occhi, tutto era buio e a stringermi era un corpo, sicuramente quello del mio carceriere: Azrael.

A quel nome qualcosa scattò nella mia testa, immagini terrificanti e urla si affollarono nella mia testa e mi staccai repentinamente da lui, spaventato, gridando di non toccarmi, mentre la nausea saliva e rivedevo quegli occhi guardarmi mentre la morte li prendeva. Perché? Perché non poteva essere semplicemente tutto un sogno?

-Buon giorno anche a te, bel addormentato. – il vampiro non fece alcuna piega, mentre sbadigliava e si puliva una guancia ancora sporca di sangue, del sangue di quell'uomo innocente, che non aveva fatto nulla, ma che aveva avuto la semplice sfortuna di essere stato catturato.

-Sei... sei... - perché non riuscivo a dire quella parola? Perché mi si fermava nella gola sebbene lo pensassi veramente?

-Un mostro? – finì lui per me e rise –Sì, lo sono. Non c'è nulla di buono in me. -.

Era vero, doveva esserlo, eppure vedevo ancora quella luce dentro di lui; quel bagliore così caldo da attrarmi, che sembrava eguagliare la luce del sole. Era un po' come un faro nella notte, l'avrei sempre vista, sempre trovata, in quel buio.

-Hai ragione. – mi costrinsi a dire, ma non ci credevo davvero –Sarebbe stato meglio che mi avessi lasciato tra le mani dell'imperatore. –.

Allora, non sapevo ancora che quella frase mi avrebbe portato altri guai.

* ti starò sempre accanto, non avere paura; anche se il mondo cadrà le mie ali ti sorreggeranno.

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