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Bugie

Capitolo 21

"Bugie"

Ogni menzogna è due bugie – la bugia che raccontiamo agli altri e la bugia che raccontiamo a noi stessi per giustificarla.

- Robert Brault

Diciamo bugie quando abbiamo paura... paura di ciò che non conosciamo, paura di ciò che gli altri penseranno, paura di quello che potrebbero scoprire di noi. Ma ogni volta che diciamo una bugia, la cosa che temiamo diventa più forte.

- Tad Williams

Pov Azrael

L'aria graffiava la mia pelle, mentre le possenti ali di Zafirus la tagliavano con un suono pesante e sordo.

Non era la prima volta che volavo su di lui, ma la sensazione sembrava non cambiare mai; mi sentivo libero, felice e un po' invidioso.

Cosa si provava ad avere delle ali, a sentirle come estensione del proprio corpo? Cosa percepiva sbattendole e riuscendo a sconfiggere ogni legge di gravità? Come si sentiva riuscendo a sconfiggere l'aria?

Era domande che spesso mi avevano colto mentre volavo con lui, anche solo per guardare quella terra dall'alto, godendomi il paesaggio del regno di luce pieno di colline e si luci che si riflettevano sui fiumi e sui laghi.

-Manca ancora molto? – gli chiesi, mentre accarezzavo le sue bianche e candide squame, dure e lisce, perfino taglienti.

"Ci siamo quasi." fu l'unica cosa che disse, prima di tornare silenzioso.

Mi guardai intorno, stavamo sorvolando la foresta e giungendo ai confini del regno del buio; oltre la quale si ergeva ἀμνημονέω (amnemoneo)*, la terra dimenticata.

Come poteva aver fatto tutta quella strada da solo e in così poco tempo? Era un vero imbranato, inciampava spesso e non era neppure veloce; eppure, era riuscito a ricoprire una così grande distanza. Non riuscivo a comprendere come.

Zafirus all'improvviso si fermò e iniziò a scendere, molto lentamente e con cautela, formando dei piccoli cerchi d'aria taglienti che fecero cadere gli alberi prima che potesse poggiare le sue enormi zampe a terra.

"Da qui dovrai proseguire da solo. Oltre non posso andare." Scesi dal suo torso scivolando e cadendo come un gatto a terra, sulle gambe.

Scostai il cappuccio del mantello, facendolo scendere e cadere sordamente e pesantemente sulle mie spalle, guardandomi in giro.

In quel luogo faceva davvero freddo, ed era strano per un vampiro poter percepire la temperatura. Era irreale, sovrannaturale e il mio istinto mi diceva di andarmene, che ero ancora in tempo per farlo, ma il mio cuore mi scongiurava di avanzare e trovare la mia fine e allo stesso tempo il mio inizio. Di cercare Haru e di riportarlo a "casa", o meglio in quella camera dove doveva avermi aspettato per l'intera settimana e per ore.

Mi portai la mano al petto, perché sentivo il mio cuore palpitare? Ormai, era una sensazione sovente da quando l'albino era entrato nella mia vita.

Chiusi gli occhi e iniziai a muovere i miei primi passi verso quel luogo incantato e silenzioso, calpestando la fredda neve brillante e ghiacciata, che ricopriva ogni cosa, tranne che quegli aceri bellissimi ed imponenti.

In quel luogo vita e morte, candore e peccato, purezza e impurità si sposavano ed incontravano perfettamente e niente sembrava avrebbe potuto deturpare la bellezza e allo stesso tempo la severità di quel luogo che riusciva a mettere paura anche a me; che ero la morte stessa.

Sentivo lo sguardo di Zafirus su di me, ma non gli chiesi o dissi nulla. Semplicemente avanzai senza voltarmi indietro, perché sapevo che se avessi guardato alle mie spalle avrei rivisto quel passato che in quel momento stavo abbandonando per abbracciare il mio futuro; mi stavo dirigendo da quel nanerottolo candido che avrei aiutato a scappare, privandomi così del mio piccolo luogo sicuro e della mia posizione.

Sorrisi appena, ricordandomi la scena del balcone di Romeo e Giulietta. Forse, qualcosa in comune in quel momento lo avevamo.

La neve scricchiolava sotto il mio peso, si schiacciava e inarcava, segnando il mio passaggio.

Non sapevo dove stavo andando, ma percepivo che quella era la direzione giusta; nonostante l'intenso odore di sangue che percepivo non mi dava alcuna sensazione positiva. Anche se sapevo che non apparteneva a lui.

Nessun rumore proveniva da quel luogo, non vi era neppure un filo d'aria a muovere le foglie. Il silenzio era così profondo e tetro da mettermi in soggezione e schiacciarmi con il suo peso.

Mi fermai a un certo punto, quando incontrai delle orme e del sangue; mi chinai e accarezzai quella macchia rossa con le mie dita; non sapevo da quanto fosse lì, ma ero sicuro appartenesse al mio nanerottolo.

Iniziai quindi a seguire le sue tracce, mentre il mio cuore martellava forte, fin quasi nelle mie orecchie. Non avevo mai provato paura, ma in quel momento la sentivo accarezzarmi e farmi accapponare la pelle; la cosa strana era che non avevo paura per me stesso, ma per lui. Era così strano per me provare apprensione; perché ci tenevo così tanto?

La risposta era ovvia, ma ancora non volevo dirla; sebbene, venisse sussurrata in un angolo lontano della mia mente.

Pov Haru

Il canto degli uccellini si spandeva nell'aria lieto e leggiadro, con il suo tono acuto, che sembrava danzare alternandosi con il canto delle cicale che orgogliose lo innalzavano da ogni dove all'interno di quel fiorente bosco che si stagliava intorno e dietro di me.

Sedevo con gli occhi chiusi poggiato al tronco di un un piccolo melo fiorito che stava iniziando a dare anche i suoi frutti.

Tutto era perfetto, tranquillo in quello spiazzo isolato e collinare; sentivo che niente avrebbe potuto farmi del male e che avrei potuto vivere lì per sempre, facendomi accarezzare dall'aria tiepida e dai gentili raggi solari che passavano attraverso le foglie del melo e con un libro in mano, a leggere e rileggere una storia di cui io non ero il protagonista e dove la mia vita era normale; come non la era mai stata.

Anche i fili d'erba verde iniziarono a cantare, mossi da quel vento che soffiava leggero, muovendo anche le foglie degli alberi che mi circondavano e portando il suono di un tronco di bambù che in lontananza batteva violento contro una pietra ad un ritmo cadenzato; esattamente come in uno di quei laghi giapponesi.

Pareva il suono ritmico di un tamburo, ma più rilassante e allo stesso tempo quasi sinistro, poiché squarciava quel silenzio naturale quasi presagendo qualcosa che però non capii.

Aprii lentamente gli occhi, a fatica, poiché il sonno sembrava ancora voler tenermi tenere incatenato a sé, in una specie di suggerimento, di preferire il vuoto a tutto quello che si stagliò davanti a me. Eppure, quella natura che mi circondava non poteva farmi niente, se non farmi abbandonare alla pace dei sensi.

Sorrisi, alzandomi e traballando un po' sulle mie gambe, che mi dolevano e fornicavano; da quanto tempo ero lì?

«Ben svegliato.» disse la calda voce di mio padre, sorprendendomi. Come poteva essere lì se... Se era cosa? Non lo ricordavo.

«Ho dormito molto?» chiesi, stropicciandomi un occhio, mentre il vento si alzava e iniziava a far danzare i rami degli abeti e dei pioppi verdi e brillanti come potevano esserlo solo durante l'estate.

«Non più di quel che sembra.» mi sorrise, avvicinandosi e accarezzandomi una guancia.

Quel tocco fu quasi nostalgico per qualche motivo che non sapevo spiegarmi, caldo come i raggi del sole e perfino agognato.

Mi rispecchiai nei suoi occhi azzurri come l'acqua di una pura sorgente, quasi trasparenti, limpidi e puri, come se non avessero mai conosciuto il peccato; sebbene, potei specchiarmi in uno solo di essi, infatti, il suo lume sinistro era nascosto da una candida frangia di un color biondo platino che sembrava essere bianco sotto la luce solare.

«Oggi tiriamo con l'arco?» chiesi eccitato, sicuro per qualche motivo che fosse domenica; il giorno consacrato solo a noi due.

Mi aveva sempre portato ad allenarmi in giardino o nel poligono di tiro di Domenica.

«Certo.» rispose continuando a sorridermi e scompigliandomi i capelli.

Mi sentivo a casa, al sicuro, come non mi sembrava di essere da tempo.

Gli presi una mano, come se fossi ancora un bambino e mi lasciai guidare da essa, dalla calda e tranquilla sensazione che mi dava.

Quel palmo era bianco come la mia pelle, era morbido e leggermente freddo, ma era la mano del mio papà, dell'uomo che più al mondo stimavo e amavo.

Lui mi avrebbe sempre protetto, non mi avrebbe mai tradito, perché ero il suo bambino.

Mi accompagnò fino al centro di quello spiazzo, continuando a sorridermi con ogni cosa di visibile avesse; persino quel piccolo neo sotto l'occhio visibile. Mi lasciò solo quando giungemmo a un ceppo d'albero piatto e ruvido, al quale era stato appoggiato l'arco e la faretra di frecce.

«Pronto?» chiese dandomi in mano i due oggetti che afferrai con orgoglio ed eccitazione, annuendo e mettendomi in posa.

Tirare con l'arco non era una cosa facile come tutti potevano credere: ci voleva concentrazione, forza e udito.

Presi un profondo respiro, inserendo la freccia contro la corda, guardando poi il bersaglio che era davanti a me, mentre il vento soffiava tanto da far colorare l'erba di mille sfumature dal verde al bianco.

Espirai, lasciando fuoriuscire tutta la tensione, svuotandomi di ogni cosa; di ogni pensiero, sebbene Popper non sarebbe mai stato d'accordo e forse era vero. La mia mentre era un faro di idee, sapeva cosa fare, come applicarlo e aveva una teoria; eppure, mi sentivo leggero.

Tirai in fuori il gomito destro, mentre estendevo davanti a me il braccio sinistro, facendo così tendere la corda mediante la freccia.

I capelli mi solleticavano la fronte, leggermente gli occhi, ma non battei ciglio; semplicemente guardai davanti a me, il mio bersaglio, quel punto rosso in mezzo al nero e al blu.

Mi focalizzai su quel punto, prendendo una gradazione di lancio che mi sembrava quella giusta, presa per istinto e forse anche pratica.

Le spalle forse erano troppo tese, mi rilassai un poco, consapevole della presenza di mio padre Dylan al mio fianco.

Per me era luce, era sole; era quella roccia che non se ne sarebbe mai andata dalla mia vita. Che egoisticamente avrei sempre voluto avere accanto, perché sapevo che quando tutti gli altri se ne sarebbero andati, lui mi avrebbe accolto tra le sue grandi braccia con il suo dolce e inconfondibile profumo e mi avrebbe stretto indipendentemente da ogni mio difetto.

Scoccai. Lasciai che la freccia lasciasse la sua posizione, che si allineasse grazie alla parte in legno, che sfrigolasse correndo proprio battendo contro di essa, producendo quel movimento d'aria, quel fischio che assomigliava al battito d'ali di un uccello; al battito di un ciglio.

Sul mio viso si aprì un sorriso, che poi mutò in un urlo, mentre vedevo la freccia che avevo scoccato colpire al petto mio padre che si era messo davanti al bersaglio.

Lasciai scivolare la faretra dalla spalla e l'arco mi sfuggì dalla mano; entrambe con un suono sordo caddero a terra, mentre tutto alla mia vista si sfocò e divenne per un attimo nero, tranne il sangue che sgorgava copioso dalla sua ferita.

«P... Papà?» domandai titubante, incredulo, mentre tutto sembrava frantumarsi sotto ai miei piedi.

"Ops, lo hai ucciso." gongolò divertita una vocina che sembrava essere dentro la mia testa "Sei un mostro." continuò ridendo.

Indietreggiai, cadendo a terra, mentre anche mio padre alzava lo sguardo vuoto e perso; quello di un morto.

«Mi hai ucciso.» mi accusò e io scossi la testa, mentre le parole non uscivano e rimanevano mute all'interno della mia gola.

«Hai ucciso tuo padre!» gridò all'improvviso una voce alle mie spalle, quella di mia madre.

Tremai, guardandola spaventato, scuotendo la testa nella speranza che mi credesse, ma i suoi occhi verdi mi inchiodarono al posto, pieni di odio e rancore.

Non sostenni il suo sguardo duro, freddo, abbellito da quella pelle chiara e i capelli scuri, di un caldo castano; ondulati come le onde del mare agitato, a tratti a boccoli.

Il sole scomparve all'improvviso, lasciando posto solo a minacciose nubi di tempesta color indaco e violetto; persino gli alberi mutarono diventando rossi come il sangue che colava dalla ferita di mio padre.

Il vento si era fatto lontano e soffiava riproducendo il suono di un vortice; quasi riuscivo a figurarmi un mulinello che vorticava e vorticava, avvicinandosi lento, sempre più intenso, portando aria fredda d'inverno.

I colori che mi circondavano si erano spenti, tutto sembrava essersi seccato, mentre io tremavo come un giunco immerso nelle acque putride di uno stagno.

Mia madre corse poi da lui, mentre dietro di lei c'era una dolce bambina di soli sette anni, dai lunghi capelli biondi e gli occhi verdi più brillanti dei miei. Mi guardava piangendo, esattamente come quando da piccoli si svegliava in lacrime dopo aver sognato l'uomo nero.

«Io non gli ho fatto male, devi credermi.» tentai, guardandola e allungando una mano verso di lei, che scoppiò a piangere.

A subentrare in quella surreale e cupa scena fu poi un bellissimo ragazzo, che sapevo conoscere, ma di cui non riuscivo a ricordare il nome, che abbracciò Lena, consolandola e baciandole la fronte; un gesto innocente, che però mi fece crescere dentro una rabbia per me innaturale, che derivava da quella che sapevo essere gelosia. Perché reputavo quell'abbraccio sbagliato? Perché credevo che quelle braccia dovessero stringere me?

Lena mutò all'improvviso espressione, diventando simile a quella di un diavolo, mentre abbracciava l'alto e bellissimo ragazzo moro. Ghignò verso la mia direzione, ferendomi, mostrando così tutta la malvagità che le albergava dentro.

«Azrael.» pigolò, mentre sentir pronunciare quel nome mi tolse il respiro.

Chi era Azrael? Perché quel nome mi faceva così male, come se il solo pronunciarlo servisse a strapparmi il cuore dal petto?

Il moro prese il mento di mia sorella, costringendola a guardarla, e all'improvviso la baciò; come se io non fossi lì, come se fossi un semplice fantasma o un sasso che non provava sentimenti.

Un ringhio mi uscì spontaneo e il mio corpo si mosse senza che io potessi nemmeno rendermene conto. Mi gettai su mia sorella che all'improvviso era diventata una ragazza e non era più quell'innocente bambina.

Non riuscii a fermarmi, l'ira mi colse e mi rese la vista rossa. Quella volta ero andato contro gli insegnamenti di Seneca, scegliendo il furor alla ratio; cadendo nella più spregevole delle emozioni, quella che ottenebra, rende ciechi e fa agire senza pensare, rendendo un essere umano un mero animale.

Le mie unghie, che si erano fatte all'improvviso appuntite, tagliarono e affondarono nella sua pelle, macchiandole il vestito bianco e i capelli biondo platino. Si dimenava, urlava, ma per me quelle grida non erano altro che fonte di gioia; era come se in quel momento fossi stato su una spiaggia a ballare intorno a un falò.

Sentii l'energia scorrermi elettrica dentro, l'adrenalina circolare e riempire il mio sangue, mentre nella mia bocca il sangue dal gusto di ferro e rame, sembrava essere pura ambrosia.

Nessuno mi fermò, mentre strappavo a Lena lembi di carne; nessuno mi separò da lei, prima che potessi cibarmi di tutto il suo sangue e reciderle i capelli. E a me sembrò normale; tutta quella violenza era come se facesse parte di me.

"Perché è così." sussurrò la voce.

Solo quando smise di urlare mi fermai, come se nel momento in cui avesse smesso di respirare e smettere di lottare, tutto avesse perso all'improvviso senso.

La guardai e poi osservai le mie mani sporche del suo sangue, come i miei vestiti.

Mi separai subito da lei, indietreggiando, scuotendo la testa incredulo, mentre Azrael e i miei genitori mi guardavano come se fossi un mostro. Forse, lo ero.

«Perché?» chiesi con voce tremante, piangendo mentre osservavo il corpo esanime di Lena «Perché non mi avete fermato!» gridai a pieni polmoni.

"Perché mi sento felice della sua morte?" Avrei anche voluto chiedere, ma lo tenni per me. Quella felicità era ingiustificata e assolutamente sbagliata.

«Perché sei un mostro e non volevi essere fermato.» rispose Azrael freddo, atono e apatico.

Non c'era alcuna emozione sul suo viso: né dolore, né disprezzo o dispiacere. Era indifferente e quella fu per me come uno schiaffo in piano volto e allo stesso tempo un sollievo.

Pov Azrael

Guardavo quella superficie vermiglia alla sua ricerca, come se sperassi di poter anche solo intravedere la sua luce, quella del suo sorriso.

-Nanerottolo! – urlai, guardandomi intorno, circumnavigando a piedi quell'enorme lago di sangue che mi faceva venire i brividi. Non avevo mai sentito niente di simile, eppure, qualcosa mi diceva che era pericoloso, che non avrei dovuto provare a solcare le sue acque se ci tenevo alla pelle.

-Nanerottolo! – gridai di nuovo, mentre la neve scricchiolava sotto il mio peso e mi avvicinavo a quel ponte costruito su quel liquido vitale, nonostante sapessi che non mi avrebbe risposto.

Lo stavo chiamando da quelle che mi sembravano ore, perfino la gola mi bruciava e lui ancora non mi aveva risposto o si era mostrato.

Se fosse caduto? Non sapeva nuotare, ricordai.

Digrignai i denti, indurendo così i tratti del mio volto. Che cosa potevo fare? Se fosse morto?

Scossi la testa, non era da me essere così tragico, inoltre potevo percepire la sua presenza. Era ancora vivo, di questo ne ero assolutamente sicuro.

Precedentemente era stata solo una sensazione, ma ora mi era chiaro: potevo percepire la sua essenza vitale; se chiudevo gli occhi potevo figurarmela come un brillante fiore di loto bianco che cresceva nel buio. Nelle settimane scorse, quelle in cui mi ero allontanato da lui, quel fiore mi era sempre apparso in sogno, insieme a lui: quel dannato ragazzino candido con delle grandi ali bianche, ma tarpate da dei lunghi nastri rossi che lo mantenevano legato alle tenebre.

-Vieni fuori! Oppure vado a squartare tua sorella moccioso! – minacciai, sapendo che anche quelle parole sarebbero state pronunciate a vuoto. Ciò, non fece altro che innervosirmi di più.

Mi fermai esattamente al centro di quel ponte che sembrava essere stato costruito di recente, ma il cui aspetto nuovo doveva essere stato conservato dall'assenza di tempo che vigeva in quel luogo che riusciva a farmi accapponare la pelle peggio di un campo di battaglia.

-Guarda che me ne vado! – tentai di nuovo, mordendomi il labbro inferiore e ferendolo con i miei stessi canini acuminati. Sfortunatamente, nonostante l'istinto mi dicesse di stare lontano da quell'enorme pozza di sangue, la fame era quella che era.

Niente di nuovo si mosse. Tutto era come morto, senza tempo. Forse anche senza spazio, neppure io sapevo esattamente dove ci trovavamo, o speravo per lo meno di non saperlo: Δυσπορία (Dusporia)** il lago dei mezzi vampiri; ne avevo sentito parlare solo nelle leggende.

Chiusi gli occhi e presi un profondo respiro, stringendo il bordo di quel parapetto di legno.

-Haru... - sussurrai.

Perché stavo sperando che da un momento all'altro saltasse fuori dietro un albero e corresse da me?

-Perché lo ami. – disse una voce dolce.

Riaprii di scatto gli occhi e mi guardai introno a me, scacciando poi con una mano una fastidiosa bolla di luce, piccola quanto una lucciola, che mi stava gironzolando intorno. Quella però, non si fece toccare, come se avesse una propria volontà.

-Io non amo nessuno. – sottolineai per bene l'ultima parola –solo me stesso. -.

Una risata dolce come mille campane d'argento e poi quella lucina vibrò per poi diventare una vera e propria persona.

-Haru? – chiamai, ma poi scossi la testa; non poteva essere lui nonostante la somiglianza.

-Chi sei? – mi corressi, guardando quel ragazzo appena più alto di almeno dieci centimetri del mio nanerottolo, gli occhi azzurri come il cielo e i capelli candidi come la neve.

Sorrise gentilmente e tentò di avvicinarsi e io arretrai.

-Chi sei? – chiesi ancora, mentre lui non perdeva quel suo dannato sorriso.

Senza rispondere si voltò verso quel liquido vermiglio e denso; il suo sguardo era brillante, deciso, ma anche leggermente malinconico e preoccupato.

-Sta combattendo, ma non può farlo senza di te. – inconsciamente anche io guardai verso la sua direzione, capendo all'istante di chi stesse parlando: Haru, il mio nanerottolo disperso.

-Se non sa combattere da solo allora è meglio che muoia. In questo mondo non c'è spazio per i deboli. – dissi duro.

Se fosse stato qualcun altro in quel momento me ne sarei andato, ma dette quelle parole non mi mossi e ritornai a guardare semplicemente quel bellissimo uomo che non poteva che essere altro che una specie di fantasma.

-Pensi davvero che lui sia debole? – chiese, mentre i nostri occhi tornarono a scontrarsi.

Un tremito percorse il mio corpo, insieme a una strana sensazione che non riuscii a decifrare. Quella persona mi era familiare, ma non riuscivo a ricordare dove l'avessi già vista.

-Certo. – dissi deciso, mentendo –E' solo una palla al piede: inciampa nel niente, la notte piange se non ci sono io a stringerlo, la mattina ha sempre i capelli in disordine, poi il suo stomaco non fa altro che fare versi molesti e la sua bocca non fa altro che chiedere "scusa" neanche fosse un mantra e poi sa solo combinare guai. -.

-Ma lo ami, nonostante questi suoi difetti. – mi fece notare –Per questo non riesci a trovarlo debole. -.

Mi irrigidii, come osava dire ancora una volta che amavo quel dannato ragazzino? Credeva che mi sarei arreso? Che lo avrei ammesso così facilmente? Mai, era una cosa mia, che mi sarei portato nella tomba!

-Non cercare di portare le mie parole a tuo favore morto. – ringhiai –Tu non sei me. -.

-Touché. – disse tristemente, portando entrambe le braccia dietro la sua schiena e tornando a guardare quel lago –Sono morto, ma anche io ho amato Azrael. – confidò.

Mi poggiai con un bacino contro la superficie di legno e incrociai le braccia al petto –Non mi interessa ascoltare la tua noiosa e sicuramente struggente storia d'amore. Ho altro a cui pensare. – e poi anche io tornai a guardare quel maledetto bacino di sangue.

-Se non lo ami perché vuoi salvarlo? – chiese, stando al mio gioco e in fondo gliene fui grato. Mi ero davvero addolcito a causa di quel dannato nano.

-Perché se morisse, con chi potrei divertirmi? – chiesi mentendo ancora una volta, come in fondo era mia abitudine.

-Se non sarai sincero con te stesso morirà Azrael. Vuoi davvero questo? – chiese lui avvicinandosi e abbracciandomi –Ogni amore è come un fragile seme che tenta di sbocciare d'inverno. Sta ad entrambi tentare di trasformarlo in una primula. -

* In greco significa "Dimenticare"

** significa "passaggio difficile"


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