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Ali Strappate (parte1)

Capitolo 26

"Ali strappate – parte 1"

Ogni uomo è un incubo abbandonato soltanto a se stesso.

Thomas Bernhard, La cantina, 1976

Pov Haru

Dormivo placidamente tra le sue braccia, dopo che tornato dal bagno mi aveva tranquillizzato e raccontato tutti i particolari sfocati nella mia mente.

Quello era stato forse il più bel momento che avevo mai provato nella mia vita o più in generale da quando ero arrivato nel Regno Oscuro. Ogni cosa era placida, non vi era alcuna ombra minacciosa intorno a noi; solo il nostro profumo, che mi stava cullando tra le braccia di Morfeo.

Forse quella notte avrei potuto dormire, lo speravo davvero perché dopo quelle ore intense il corpo mi doleva ovunque e l'unica cosa che desideravo era restare tra quelle braccia calde che mi avvolgevano come morbidi steli di un piccolo fiore che stava sbocciando ogni giorno di più.

Sarebbe stato bello, ma anche fin troppo semplice.

I sogni per loro natura erano destinati a infrangersi, a bruciare e così distruggere chiunque li coltivasse.

Per poter toccare un sogno bisognava continuare a lottare strenuamente, continuamente, versando sangue e sudore e anche una volta vinta una battaglia, ciò non significava che anche la guerra fosse terminata. Forse era perfino destinata a non concludersi mai.

Nel sonno leggero in cui ero caduto percepii Azrael muoversi accanto a me, agitato, come se stesse avendo un incubo.

Aprii piano gli occhi, assonnato. Le mie palpebre erano pesanti, quasi incollate; era una sensazione quasi nostalgica, che mi riportava indietro nel tempo quando la mattina la sveglia suonava e a me sembrava di aver dormito solo un'ora, perché come al solito mi ero attardato per leggere un libro o scrivere qualcosa sul mio quaderno segreto, dalle pagine candide che mi chiedevano solo di sporcarle d'inchiostro.

Aveva una copertina nera, logora, ai lati era un po' sporca di inchiostro e di lacrime, perché a volte tra quelle pagine sfogavo anche il mio dolore o semplicemente mi immedesimavo troppo nei miei stessi personaggi e finivo per provare le loro stesse emozioni.

Chissà dov'era finito quel piccolo tesoro. Probabilmente, era finito in cenere come tutta quanta la casa.

«Azrael?» chiamai con voce impastata, alzandomi su un braccio per sollevarmi e guardarlo meglio.

Lui non rispose, ma un rantolo di dolore arrivò alle mie orecchie e immediatamente fui sveglio.

La stanza era completamente buia, prima di quella sera ero sicuro non avrei potuto vedere nulla in quell'oscurità totale, ma in quel momento vidi chiaramente il mio vampiro matido di sudore che stringeva con le dita le coltri che coprivano il morbido materasso, fino a far affondare le appuntite e graffianti unghie che lo avevano anche leggermente lecerato.

Preso dal panico rimasi immobile, incapace di pensare o anche solo di agire. La mia mente era in un completo black out e l'unica cosa che fui in grado di fare fu quello di guardarlo impotente, tremando per la paura.

Che gli stava succedendo? Era per caso legato a ciò che era successo al lago?

Agisci Haru! Devi aiutarlo!

Cercai di incitarmi e di muovermi. Non so quale fu il vero risultato, semplicemente mi avvicinai a lui e gli presi il viso tra le mani e tentai di chiamarlo più volte.

Non riuscendo a risvegliarlo da quell'incubo in cui era caduto gli tirai uno schiaffo, strizzando gli occhi per non vedere e sussurrando poco prima un debole scusa, ma quel brutale gesto sembrò farlo stare meglio.

Gli occhi dell'altro si aprirono, erano scuri e febbricitanti.

I vampiri potevano avere la febbre? Se erano immortali dubitavo, ma non ne sapevo abbastanza in materia da poterci giurare.

Rantolò qualcosa che non capii.

«Non capisco.» dissi agitato.

«C... chiama...» scandì a fatica «R... Ry...» inarcò la schiena e digrignò i denti. Non c'era bisogno di dire altro, avevo capito, ma egoisticamente non volevo farlo.

«Devo chiamare Ryan.» ripetei come allucinato. Sentivo gli occhi pizzicare, la mia vista si era fatta rossa; i miei stessi occhi dovevano essersi tinti di quel colore scarlatto.

Se mi mossi fu solo quando sotto le mie dita percepii una sostanza calda e viscosa e alle mie narici arrivò prepotente il dolce e frugale profumo di sangue che mi fece inaridire e bruciare la gola.

Ryan era una delle ultime persone al mondo che volevo chiamare. Quel bambino era come una minaccia, sebene non sapessi perché.

Sapevo che il moro non si sarebbe mai invaghito del rosso, ma quel vampiro dai capelli rossi e gli occhi grigio-viola aveva un rapporto con lui che mi faceva chiudere la bocca dello stomaco e mi riempiva la bocca di un sapore amaro; un gusto che avevo capito essere quello della gelosia.

In quelle ore l'avevo provata troppo stesso e non mi piaceva, ma forse era naturale dopo tutte le ferite che l'altro mi aveva inferto.

Avevo deciso di avere fiducia in lui, ma allo stesso tempo non riuscivo ad averne fino in fondo.

Scesi dal letto, sbattei la porta e iniziai a correre per i corridoi.

Non sapevo dove mi stavano portando i miei piedi, ma in qualche modo il mio istinto mi stava dicendo che stavo comunque andando nella direzione giusta; che dovevo seguire quel leggiadro profumo di narciso e rosa.

Scesi sempre più giù, sempre più in basso. Non mi accorsi neppure di non essere inciampato nemmeno una volta, come invece in passato avrei fatto sbucciandomi qualche ginocchio oppure slogandomi una caviglia.

Semplicemente mi sentivo leggero come il vento, ma schiacciato da un masso che era la preoccupazione per Azrael e in fondo sentivo che quel corpo era finalmente mio.

Mi sentivo bene, per la prima volta, con me stesso. Avevo raggiunto un equilibrio che prima mi era sempre mancato, che mi aveva sempre fatto pensare di essere di essere una tazza rotta nel bel mezzo di un servizio impeccabile.

Scesi, gradino dopo gradito, percorsi corridoio dopo corridoio, fino a ritrovarmi davanti alla porta che mi avrebbe portato ai sotterranei.

L'incubo vivido della prima ed ultima volta in cui ero sceso la sotto mi si presentò davanti rivoltandomi lo stomaco da cima a fondo, fino a farmi percepire l'acido della nausea spandersi per tutta la bocca colpendo il palato.

Presi un profondo respiro e cacciai i miei demoni.

Pensai ad Azrael che aveva assolutamente bisogno delle cure i Ryan. Non potevo abbandonarlo solo per paura.

Strinsi i pugni e tornai a correre.

Qualunque cosa avessi visto, qualunque cosa fosse successa, dovevo solo concentrarmi su quel profumo di fiori.

Pov Ryan

Seduto sullo sgabello di legno, pestavo le erbe medicinali che avevo raccolto nel mortaio con forza, per lasciar sbollire la rabbia che avevo dentro.

La caviglia finalmente aveva smesso di dolore, ma non potevo dire lo stesso della ferita che avevo sul cuore, che stava ancora sanguinando a causa dell'Imperatore e di quella dannata ragazza dai capelli rossi.

Al solo pensarci ruppi il mortaio a metà e sbuffai ancor più irritato a causa delle erbe preziose che avevo appena sprecato.

Dragan mi aveva preso per la prima volta tra le braccia, mi aveva portato a principessa fino al castello e mi stava portando nella sua camera, quando aprendo la porta, stesa sul letto un'invitata completamente nuda ci aveva sorriso.

Uno scherzo di cattivo gusto giocato sicuramente di Azrael. Come sempre non aveva affatto tempismo!

Per quanto bello e intelligente, rimaneva comunque un idiota senza tempismo. Aveva segatura al posto della materia grigia e presto gliela avrei fatta pagare, magari avvelenando il suo prezioso angioletto albino.

Inoltre dopo aver scacciato la ragazza (per mia sfortuna non avevo potuto morderla fino ad ucciderla), si era intromesso il mio caro paparino, o Imperatore qual si voglia.

Aveva bloccato Dragan prima che potesse andare nelle camere di Azrael a pestarlo, una scena che mi sarei goduto volentieri, per portarlo a compiere i suoi regali doveri e probabilmente a discorrere "amorevolmente" nella sua stanza delle torture per punirlo poiché si era assentato senza permesso dal castello.

In fondo, sospettavo che l'Imperatore godesse nel punirlo solo perché somigliava insopportabilmente a quella donna che aveva sposato e che lo aveva tradito: Dafne, la madre di Dragan.

Il moro però era all'oscuro della vera motivazione per cui suo padre l'aveva brutalmente uccisa e forse era meglio così.

«Ryan!» quella voce molesta fu l'ultima che mi aspettai.

Allontanai da me il mortaio ormai rotto e gli sorrisi tirato.

«Cosa ti porta qui nel mio antro, falso angelo?» chiesi scendendo dallo sgabello con un piccolo ed elegante balzo e girandogli subito le spalle, per sostituire l'oggetto che avevo rotto.

«Azrael... sta male... lui...» la sua voce era concitata, ma una lampadina nel suo discorso a monosillabi si accese comunque nella mia testa e in meno di un secondo presi la borsa dei medicamenti e me la misi in spalla.

«Rimani qui.» ordinai.

«Cosa? No!» si oppose immediatamente, ma non avrei permesso a quel lombrico di farci scoprire. Era importante che nessuno sapesse di ciò che stava accadendo, soprattutto l'Imperatore che aveva occhi e orecchie ovunque.

«Ti hanno seguito?» chiesi solo per distrarlo, mentre da dietro un telo prendevo un pungolo dalla lamina rossa come il sangue, intagliata per ricreare quasi delle lingue di fuoco lungo la punta e lungo la lama vi era incisa una frase latina, presa dall'Eneide di Virgilio, e che tradotta suonava come:

"Lo scender ne l'Averno è cosa agevole

ché notte e dì ne sta l'entrata aperta;

ma tornar poscia a riveder le stelle,

qui la fatica e qui l'opra consiste."

Un piccolo monito che voleva dire di usare quella spada con saggezza, poiché era facile cadere nel male, ma ancor meno lo era tornare sui propri passi.

«No, non credo.» rispose.

Mi voltai verso di lui e mossi appena quella spada il cui nome era Ignis: "Fuoco". Un piccolo e antico dono da parte di Dragan che avevo sempre gelosamente custodito, poiché i suoi regali erano più unici che rari; almeno per me.

Un cerchio di fuoco immediatamente lo circondò, impedendogli così di muoversi. Riposi la spada al suo posto, al sicuro, lontana da occhi indiscreti.

«Non provare a toccarlo o brucerai. E' un fuoco che può bruciare anche i vampiri.» con calma mi diressi verso la porta, ignorando le sue urla.

Non avevo tempo per fargli da baby-sitter. Dovevo andare a curare Azrael prima che qualcuno si potesse accorgere del copioso odore di sangue e delle ferite che ogni tanto solevano aprirsi sulla sua schiena, là dove una volta dovevano esserci delle ali.

Ferite che si aprivano ogni qual volta quell'incubo prepotente lo colpiva, vero come non mai.

Era quasi ironico il fatto che dovessi occuparmi io di quelle ferite, esattamente come avevo già fatto in passato per quella persona.

Arrivai nelle stanze di Azrael senza farmi notare, scivolando silenziosamente tra le ombre della notte, le colonne che sorreggevano ornamentali il soffitto nei corridoi ed evitando gli sguardi indiscreti dei vampiri che, nonostante non palesassero la loro presenza, vegliavano invisibili ogni corridoio dell'enorme palazzo nero.

Aprii piano la porta e la richiusi velocemente alle mie spalle. Non appena Azrael percepii la mia presenza si tirò faticosamente a sedere, aiutandosi con i gomiti.

«Ci hai messo troppo.» ringhiò.

I vampiri non erano abituati al dolore, lo osannavano, lo andavano a ricercare, ma non su se stessi. Si sentivano immortali, intoccabili e superiori; quasi angeli caduti, ma in realtà una semplice fitta di dolore, provocata anche solo da una spina, bastava a farli piangere come dei bambini.

Mi avvicinai piano al letto, poggiandoci sopra la mia borsa e tirando fuori il necessario: nove barattoli di unguenti che avrei dovuto spalmare sulle sue scapole insanguinate. Era come se fosse stato strappato qualcosa, le ferite erano profonde e scavano nella sua pelle che lentamente, a causa della sua natura da vampiro nobile, si stavano sanando.

«Dov'è?» chiese.

«Al sicuro.» risposi semplicemente facendogli segni di avvicinarsi e mettersi seduto. Dopotutto, era avvezzo a quel trattamento che ero costretto a fargli di tanto in tanto, quando quelle ferite si riaprivamo come per magia, di loro spontanea volontà.

Docile come un cagnolino si mise seduto mostrandomi la schiena.

«Lo spero per te.» mi minacciò velatamente.

Quasi mi ritrovai a ridere, mentre con occhi critici osservavo le ferite e vi passavo sopra la mano incurante di sporcarmi di sangue.

Avevo sempre desiderato essere un medico, il sangue non mi creava nessun tipo di dosturbo anche se ero un vampiro. Ormai era da duecento anni che versavo in quello stato, la fame non era più un problema, non come lo era stato allora.

«È successo qualcosa di bello con il tuo falso angioletto?» chiesi, aprendo il primo barattolo, spandendo nell'aria un odore maleodorante. Dovetti persino smettere di respirare.

«Che diavolo, non puoi profumare questa robaccia una volta ogni tanto‽» si lamentò, smettendo anche lui di respirare.

Ghignai compiaciuto, cercando dal trattenermi dal mostrare un'espressione diabolica quando schiaffeggiai la mia mano sulle sue ferite, facendolo sussultare e ringhiare per il dolore. La mia vendetta poteva essere finalmente servita.

«No, e comunque anche la mia serata sarebbe stata davvero perfetta se un qualche idiota non avesse mandato una certa vampira nelle stanze di Dragan. Hai idea di chi possa essere stato?» chiesi innocentemente, continuando a fargli pressione.

«No.» mentì lui, sopportando il dolore che gli stavo infliggendo e che sarebbe solo sempre più incrementato ad ogni strato di unguento medicinale che gli avrei applicato.

«Come fai a saperlo?» chiese dopo un po' di silenzio, in cui aveva serrato i denti per non urlare.

Il sudore gli scendeva copioso dalle tempie, brillante anche se eravamo al buio, perché dove c'era buio ci sarebbe per sempre stata anche la luce. Era una verità inscindibile.

Erano due opposti che si attraevano, due entità che si tenevano per mano e si sorridevano, anche se quel contatto faceva loro del male, bruciandoli. Ambedue, però, resistevano, perché facce della stessa medaglia, gemelli che non sarebbero mai potuti esistere se uno fosse perito, poiché il dolore della perdita sarebbe stato troppo forte, incolmabile; li avrebbe condotti alla pazzia, portando all'Apocalisse.

Nessuna tromba, tuttavia, sarebbe suonata perché Dio non esisteva. Se fosse vissuto davvero da qualche parte nell'Etere o in qualche piano intermundi allora lo avrei saputo quando il destino aveva deciso di separare quei due.

No, al mondo eravamo soli; pedine di noi stessi e di un fato che si divertiva a muovere le nostre fila, dilettandosi a chiacchierare amabilmente con le tre Moire che avevano in pugno le nostre vite.

«Assomiglia a Deneb, tranne che per gli occhi.» un ricordo nostalgico mi strinse il cuore «Ma un figlio sa sempre riconoscere la propria madre.»

Ritirai la mano e aprii il secondo barattolo. Nel mentre lui si voltò a guardarmi incredulo.

Chi non lo sarebbe stato?

«Non di sangue.» specificai «Ma parecchio tempo fa fui adottato da lui e dall'uomo che amava più della sua stessa vita.»

Ricordavo ancora con gioia quei tempi lieti, che però sapevo non sarebbero mai più potuti tornare. Ormai era passato e tale sarebbe rimasto. Non so se avete mai viaggiato in treno, a me capitò una volta sola, ma dal finestrino vi è mai capitato di osservare la luce che sembra trasformarvi in un ghepardo e inseguirvi nelle zone d'ombra? Quel ghepardo a me era sempre sembrato disperato, quasi piangente, mentre tentava di afferrare quel treno che però lo avrebbe lasciato indietro, perché ormai lo aveva perso.

Quei tempi per me erano esattamente come quello strano gioco di luce, non sarebbero mai potuti salire di nuovo sul mio treno; non di nuovo.

«L'Angelo non ha mai avuto figli o il libro ne avrebbe parlato.» osservò, zittendosi poi quando applicai il secondo medicinale, ma senza più l'irruenza di prima.

«Al libro che conosci mancano molte pagine Azrael. Pagine che solo poche persone conoscono, poiché le hanno vissute di persona; esattamente come i tuoi genitori.» sapevo che era un colpo basso ammetterlo, dopotutto il moro per me era come un fratello. Chi altri avrebbe mai potuto essere il mio confessore? Io non mi fidavo più di nessuno, tranne che di lui, che mi ricordavo ogni giorno sempre di più quell'Angelo che ormai esisteva ancora solo nei ricordi affettivi del mio cuore.

Certo, in lui non scorreva neppure una traccia di sangue di Deneb, ma la sua anima... quella sì, che li legava e i segni sulla schiena per me erano stati un indizio più che sufficiente per capirlo.

L'Imperatore, mio padre, l'aveva sempre avuto avuto sotto il naso la "reincarnazione" del suo angelo e non lo aveva mai capito.

«Hai conosciuto i miei genitori?» chiese scostandosi e voltandosi per guardarmi meglio, interrompendo il mio operato.

Probabilmente ero uno dei pochi a sapere che Azrael aveva sempre amato i suoi, e li aveva sempre cercato in qualche modo, solo per ricordare i loro volti e chiedere la redenzione da quel crimine di cui si sentiva colpevole, macchiato indissolubilmente.

«Azrael, devi andartene e alla svelta con Haru.» sviai la sua domanda per il suo stesso bene. Il passato doveva rimanere sepolto fin tanto che si poteva celare al di sotto della terra.

Volevo risparmiargli il più possibile il dolore della verità che lo avrebbe distrutto e che, soprattutto, non dovevo essere io a raccontargli. Non era mio compito, ma di quell'uomo che non aveva accolto Azrael nella sua corte solo per via dei suoi poteri, ma anche perché figlio di quegli amici che non lo avevano mai abbandonato e che avevano reso la sua giovinezza meno buia.

Credo che ormai l'abbiate capito: l'Imperatore e Jack erano la stessa persona. Unica e indissolubile come luce e buio. Tuttavia, la prima era perita, rendendo il gemello pazzo, senza cuore e pieno di un dolore che in pochi potevano comprendere.

Jack era morto quel giorno: quello in cui Deneb gli fu sottratto, senza neppure ricevere un addio.

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