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Cap. 6; Cameratismo Ritrovato

Il mattino seguente, Vezirya aveva una scaletta ben precisa di impegni da portare a termine, ma una volta aperti gli occhi volle aggiungere due nuove diciture improvvisate sulla cima di quella lista.
   Per prima cosa, fare qualunque efferatezza le sarebbe parsa necessaria, per porre rimedio all'orribile mal di testa post sbronza che le massacrava le tempie.
Andava bene tutto, anche rifilarsi in gola un cospicuo numero di barbiturici e aspettare la venuta della Sacra Morte.
   Dopodiché, sarebbe andata da Vega e gli avrebbe ricordato, in quel modo tutto suo, perché per lui sarebbe stato meglio non fare sparate come quella della sera prima e non farla alterare mai più, di lì in poi.

Dunque risorse dalle lenzuola candide del suo letto come una perfetta Venere ubriaca, si trascinò in bagno mugugnando, con il passo leggero e femmineo di un opossum schiacciato da un autotreno, ed esaminò il proprio riflesso allo specchio.
   Ed ebbe il primo principio d'infarto di quella che si prospettava essere una leggerissima giornata.

Gli occhi incandescenti erano cerchiati di nero e infossati nelle orbite al punto da sembrare due fiammelle verdi in un teschio. La pelle aveva perso brillantezza e le sue squame, che soltanto il giorno prima rilucevano di salute come quelle d'un pesce fresco, risultavano patinate di bianco come la pelle di una seppia sul bancone ghiacciato di un mercato.
Per non parlare dei capelli, che una volta erano voluminosi e lucenti come quelli di una dea. E ora di quello splendore non rimaneva neanche l'ombra. Sostava, invece, sulla sua testa e lungo la sua schiena, un immenso intreccio di nidi di rondine che mai in tutta l'eternità che aveva davanti avrebbe potuto districare.

   Prima di urlare, sbraitare e sfogarsi contro lo specchio, decise di prendere tutta quella rabbia e, con un profondo sospiro, chiuderla dentro di sé. Dopodiché uscire dalla stanza, attraversare il corridoio e scatenarla nella camera di Vega, dandogli il più dolce dei buongiorni.

   «Grandissimo idiota bastardo!» sbraitò di botto, dopo essersi silenziosamente richiusa la porta alle spalle. Dunque con gli occhi che erano due spade roventi, cercò l'ombra del falco in giro per la sua stanza, e la trovò lì appesa al soffitto.
Vega dormiva, forse serenamente, con la testa infilata nel suo orribile chaperon legato sotto al mento.
   Mentre ringhiava, tese un braccio e lo vide tramutarsi in un lungo tentacolo aranciato, avvinghiò nelle sue spire il corpo monumentale del falco e lo tirò a sé, proprio davanti al suo grugno inferocito.
Con l'altra mano gli slegò il cappuccio e lo lanciò lontano, rivelando che sotto si esso Vega era già sveglio e la stava fissando, stoico e impassibile. Soltanto un sopracciglio leggermente inarcato.
   «Sciocco da parte tua venire qui e...», si azzardò a dire il principe.
   «Sciocco da parte mia?» urlò l'altra, con la voce baritona che pareva provenire dal buco più basso dell'inferno.
   Lo sollevò in mezzo alla stanza e lo sgrullò.

Lo rilasciò dopo pochi istanti, e furente si mise a camminare avanti e indietro.
Vega non reagì, o almeno non lo diede a vedere, e cercò di recuperare l'equilibrio dallo stordimento quando lei non guardava.
   «Quindi ti è sembrato intelligente trasformarti e tentare di fare a pezzi il lacchè della principessa?» i capelli fucsia ondeggiavano intorno a lei come mossi da vita propria.
   «Ed è dall'alto della tua capacità di controllare la rabbia, che mi aggredisci così?» gli rilanciò la palla lui, stropicciandosi gli occhi e richiudendo pudicamente la camicia da notte che, sbottonata, scopriva troppo il petto.
   «Io mi sono messa nei guai, mi sono esposta pur di metterlo fuori gioco. E tu? Tu hai messo a soqquadro la stanza per la tua collanina?»
   Con l'audacia di un domatore di leoni, Vega si avvicinò a lei e la prese per le spalle, sorridendo amichevolmente.
   «Non sospetta che io ti conosca, quindi se potessi abbassare soltanto di qualche decibel il tuo gracchiare, faresti un favore a entrambi», l'ammonì placido.

   Stettero in silenzio per qualche istante, giusto per accertarsi che il baccano non avesse svegliato nessuno.
   «Stai uno schifo», ruppe il silenzio il falco, prima di accompagnarla nel suo bagno.

   Dieci minuti dopo erano lì; Vezirya elegantemente seduta sul bordo della vasca a occhi chiusi mentre Vega le massaggiava una crema alla bava di lumaca sulla faccia.
   Il falco le spiegò che il demone rosso era andato lì per chiedergli di indagare sul suo conto, facendo affidamento sulla sua chiaroveggenza, e poi in un raptus di megalomania gli aveva strappato la collana che lo aveva reso schiavo delle visioni.
Non entrò nei particolari, della sua morte non ne aveva ancora parlato con nessuno.
   «Quindi non sospetta di me e di te insieme, ma sospetta di me e di te separatamente», ne convenne lei, «non è la stessa cosa?»
   «Dividi et impera, mia cara!» la rassicurò lui facendole "boop" nel punto della sua faccia dove avrebbe dovuto esserci un naso, «ha tante di quelle cose a cui pensare che non riuscirà a concentrarsi. Piuttosto...»
   Per la mezz'ora seguente le spiegò di aver incontrato Vox e di essere sceso a compromessi con lui, riservò per se stesso l'informazione di quanto gli costassero quei compromessi.

Finalmente una buona notizia. Vezirya poté rilassarsi, e soltanto allora si accorse di quanto fosse piacevole il tocco delicato delle dita di Vega che le massaggiavano il viso.
   Eccoli i benefici dell'avere un amico gay.

Dovette ammettere, in fondo al suo cuore, che gli era mancato.
   Terribilmente.
E odiava che lui riuscisse a comportarsi come se quegli otto anni non fossero passati, perché lei proprio non ci riusciva.
Non gli importava di lei? Non gli era mancata?
   Se avesse visto in lui della difficoltà nell'approcciarsi con lei, o del senso di colpa, lo avrebbe capito.
Ma per Vega era davvero come se si fossero sempre visti. E non riusciva a tollerarlo.

Lui era la sua spalla, il suo partner, e in quegli otto anni ne aveva sventati di pericoli senza che Vega accorresse in suo aiuto come avevano sempre fatto tra di loro.
Era frustrante.
   Ma, per quanto diverso dalla sua specie, Vega restava un Goetia, e i Goetia erano tutti così: rampolli di altissimo lignaggio per cui il resto del mondo era biasimabile e scontato.
Quando loro erano felici, allora tutti gli altri dovevano essere felici, e quando invece avevano la luna storta era sempre su tutti gli altri che riversavano la loro collera.

   «Non ti preoccupare per il rosso, so già come comportarmi con lui», la rassicurò Vega mentre Vezirya andava verso la porta.
   «E poi c'è Lucifero dalla nostra parte!», aggiunse a bassa voce, costringendola a fermarsi sull'uscio.
   «Lucifero è dalla nostra parte?»
   «La mia di sicuro!» ridacchiò, «E per quanto riguarda te, sembra aver messo gli occhi sulle curve giuste», e con le mani ridisegnò nell'aria davanti a sé la silhouette di Vezirya, che un secondo dopo gli aveva richiuso la porta in faccia.

   Un'ora dopo era giù, seduta davanti a Husker mentre questo gli versava in un bicchiere un intruglio che si faceva spesso per riprendersi dalle sbornie.
   Alastor era seduto sul divano a leggere il suo stupido giornale, ma ogni volta che non lo guardava Vezirya poteva sentire i suoi occhi addosso. Le bruciavano sulla nuca come due spilli roventi.
Con il gomito alzato oltre la sua testa mentre si scolava gli ultimi rimasugli del magico elisir di Husk, attraverso il vetro spesso del fondo del bicchiere vide la figura falsata e tutta contorta di Vega che, baldanzoso e tutto in tiro, scendeva dalle scale.
   «Buongiorno», la voce di Alastor crepitò dal suo angolino, sorprendendo tutti gli astanti meno che Vega stesso.
Le aveva assicurato che sapeva bene come comportarsi con lui, ora.
   «Lo è davvero, non trovi?», gli fece eco il falco andandogli incontro con il petto bene in fuori, «e a proposito di quanto accaduto ieri, mi sono appena ricordato di non essermi scusato con te, perciò... qua la mano, vecchio puzzone bastardo!»
Vezirya ringraziò di non star ancora bevendo, altrimenti si sarebbe strozzata.
   Vega se ne stava dritto in piedi, troneggiando davanti ad Alastor che lo fissava con il suo solito sorriso, e porgendogli la mano in segno di pace.
Il demone sotto di lui rimase immobile un paio di secondi, quindi richiuse lentamente il giornale e puntò il naso in alto: «Gradirei che continuassimo a darci del "lei"», gli ricordò.
   «Oh! Lei ha sempre ragione. È un uomo migliore di me. Ripeto: qua la mano, gran figlio di un cane!»

   Se avesse potuto farlo davanti a tutti, Vezirya si sarebbe spalmata una mano in faccia.
Fortunatamente Alastor sembrò ignorare il principe, e proprio nel momento in cui Vezirya stava per chiedere se ci fosse qualcosa da mangiare, uno strano bagliore si impossessò della sua vista periferica. Un bagliore che conosceva bene e che poteva vedere soltanto lei.

   Con la scusa di andare a prendere un po' d'aria per riprendersi, Vezirya annunciò che sarebbe uscita per un po' e, prima di varcare la porta d'ingresso, lanciò al socio una veloce occhiata che nel linguaggio segreto delle coppie quasi sposate significava: "non fare casini o giuro che ti tiro il collo!"

   Quando fu abbastanza lontana dall'hotel e da possibili altri occhi indiscreti, la succuba schioccò le dita e il Necronomicon apparì davanti a lei tingendo una pagina completamente bianca con un nome: Ejebedias.
Anche senza Vega, lei non aveva mai smesso di portare a termine i suoi compiti.

   Dopo quasi un'ora di camminata i suoi sensi la portarono nella zona dove sapeva lo avrebbe trovato.
Purtroppo non era un quartiere desolato, tra i vicoli aveva incrociato diversi demoni, perciò avrebbe dovuto trovare il modo di attirarlo in un posto più appartato.
   Mentre passava in rassegna il volto di ogni peccatore che gli attraversava la strada, uno in particolare attirò la sua attenzione.
Era tutto avvolto in una lunga giacca nera e coperto da un cappello a falda larga, in un momento in cui abbassò la testa riconobbe che aveva i capelli biondi. La ridotta statura era inconfondibile: doveva trattarsi di Lucifero.
   Ma che ci faceva Lucifero sotto copertura per la città?
Vezirya fiutò che ci fosse qualcosa di losco, sotto, e improvvisamente la sua missione era cambiata, adesso stava pedinando il re degli inferi.

   Lucifero svoltò un altro paio di volte e si infilò aldilà di un breve sottopassaggio, dove sembrava aprirsi un piccolo spiazzo.
Quando la succuba fu a metà del passaggio, Lucifero parlò da un angolo dove non poteva vederlo: «Ti stavo aspettando, troia. Perché mi stai seguendo?».
   Vezirya sgranò gli occhi, pietrificata e oltraggiata da quell'offesa. D'impulso velocizzò il passo e uscì allo scoperto con i pugni chiusi e stretti lungo i fianchi, pronta alla baruffa.
   «Come cazzo ti permetti, piccolo figlio di... »
Qualcosa di pesante le saltò sulle spalle, scaraventandola a terra. Ebbe giusto il tempo di rigirarsi sulla schiena per digrignare i denti contro il suo aggressore: non era Lucifero.

   Era basso, sì, e aveva i capelli biondi, ma al centro della sua faccia la faceva da padrone un gigantesco grugno che si apriva alla sua estremità come un fiore fatto di barbigli carnosi che il demone le puntò sul viso. Non c'erano occhi, a vedersi, ma un'enorme bocca da cui fuoriusciva una lingua stretta e rasposa da formichiere.
   La vista le diede lo stesso segnale che le diede all'hotel, quel toporagno era Ejebedias.
Evidentemente la sua forza era indirettamente proporzionale alla sua altezza, e probabilmente la compensava, dal momento che per quanto potesse scalciare e dimenarsi, Vezirya non riuscì a liberarsi dalla presa del toporagno, che muovendo le piccole zampe arcuate si piazzò tra le sue gambe, facendo ben intuire quali fossero i suoi loschi intenti.
   «Lo so che lo vuoi, quelle delle tua specie sono tutte troie!»
Vezirya provò a estrarre la rivoltella che teneva in tasca, ma il demone fu più veloce di lei e le aprì una grossa ferita sul braccio con un coltello.
Sangue rosso mela spillò dal taglio profondo, e Vezirya sperò con tutta se stessa che quel coso che aveva addosso non venisse a contatto con quel sangue.
Per lei sarebbe stato molto peggio, se fosse accaduto.

   Improvvisamente un'enorme ombra nera oscurò il piccolo quadrato di cielo che si apriva sopra di loro. Vezirya strizzò gli occhi e, controluce, riuscì soltanto a vedere come un'enorme freccia nera calare in picchiata verso di loro a una velocità esorbitante.
   Lo strillo inconfondibile di un falco riecheggiò nel cielo, poi uno sparo.

Vezirya aveva chiuso gli occhi aspettando che il demone si liquefacesse sopra di lei come tutti i demoni che facevano fuori, ma non successe. Ejebedias continuava indisturbato a scendere lungo il suo corpo.
   Lo aveva mancato.

   «Oh bravo, complimenti! Hai quasi colpito il cielo!» sbraitò.
   «Chiudi il becco, è tanto tempo che non ne uso una!»

   Vega atterrò dietro di loro nella sua enorme forma demoniaca, ruggendo e scuotendo le piume arruffate. Soltanto allora lo schifoso toporagno si voltò, e nel momento stesso in cui aprì la bocca per urlare qualcosa, la canna della Beretta di Vega gliela tappò.
   Di nuovo uno sparo, e stavolta il corpo del demone si dissolse.

Vezirya premette la testa sul suolo dietro di lei per riprendere fiato ringraziando qualsiasi cosa non fosse Dio per averla risparmiata, quando Vega, di nuovo normale, rientrò nel suo campo visivo tendendole una mano.
   «Sei qui», ansimò lei mentre il principe la tirava su.
   «Sì, ma per puro caso! Sto cercando di riprendere confidenza con il mio occhio, e stavo giusto giocherellando con il ciondolo quando...»
   Qualcosa impattò contro di lui, interrompendolo, e quando abbassò lo sguardo, Vezirya lo stava abbracciando.
La faccia immersa nel suo petto e le mani appese alla stoffa pesante della sua preziosa giacca sartoriale.
   «Sta' attenta con quel sangue, non toccarmi è peri-...», si bloccò e dopo averla guardata dall'alto per qualche secondo, ricambiò quell'abbraccio.
   «Sono qui», concluse, suggellando inconsapevolmente la fine dei dubbi di lei.
A Vega importava di lei, gli importava ancora.
   Ora lo sapeva.

   Lungo il tragitto verso il rifugio degli angeli, Vezirya spiegò a Vega le dinamiche di quello sfortunato incontro.
   «È strano che tu non lo abbia riconosciuto, non mi hai detto di vedere una sorta di alone di luce quando il bersaglio rientra nel tuo campo visivo?» osservò il principe.
   «Sì, ma pensavo fosse Lucifero.»
Vega rifletté per qualche istante, e per assurdo Vezirya sperò che non arrivasse alla stessa conclusione a cui era arrivata lei.
   «E perché pensare che si trattasse di Lucifero avrebbe oscurato questo potere?»
   «Ma che ne so! Stai facendo troppe domande - gira qui a destra - come faccio a saperlo?»
Vezirya continuò a glissare malmostosa tutte le domande che gli aveva fatto, finché non cambiarono argomento.
   La succuba infatti gli spiegò che avrebbe dovuto aiutarla a portare Morra all'hotel. Lui aveva sangue angelico nelle vene, poteva ottenere la sua fiducia.
   Per una volta non avrebbe dovuto neanche mentire! Era vero che non volevano farle del male.

   Vezirya entrò nell'edificio lasciando Vega fuori dalla porta a fumare, come suo solito, e si diresse a passo spedito verso l'alloggio di Morra.
Lei se ne stava accovacciata in un angolo, le ginocchia strette al petto e la faccia immersa nelle braccia che le cingevano. La schiena le sobbalzava.
Mossa da un istinto più forte di lei, Vezirya le si accostò silenziosamente e allungò una mano per accarezzarle la testa.
   «Oh, tesor-...» si interruppe, «nah.»
E, ripensandoci, ritrasse la mano.
Nel sentirla Morra alzò la testa e la fissò con una strana espressione tra la calma e la furia.
   «Voglio farti parlare con qualcuno», annunciò all'improvviso Vezirya, e senza darle il tempo di reazione corse a recuperare Vega, spingendolo dentro la stanza.
   Non si prese neanche il tempo di fare le presentazioni o altri stupidi convenevoli, Vega era perfettamente in grado di gestirla da solo, e lei aveva soltanto bisogno di risolvere quanto prima possibile quella situazione.

   Morra sarebbe andata all'hotel con loro e lei doveva accertarsi che non avrebbe rivelato niente sul rifugio, niente su lei è Carmilla, e niente nemmeno su quella chiacchierata con Vega.
Ma come poteva fidarsi di lei?
Vega era un suo simile e poteva dimostrarglielo, ma sarebbe bastato?

   Venti minuti dopo, proprio mentre Vezirya stava esaminando la ferita riportata sul braccio dallo scontro avuto poco prima per poterla medicare, Vega si riaffacciò dalla stanza.
Scosse lievemente la testa e mimò lentamente un "saltacampana".
   Non aveva funzionato.

Scossa da un'improvvisa scarica di frustrazione Vezirya si alzò dalla sedia su cui era seduta come un ciclone e volò nella camera di Morra.
   «Non sto per farti del male», la rassicurò mentre superava il falco e si avventava su di lei, il suo tono di voce era quanto di più lontano dal rassicurante ci fosse.
   Le bloccò le braccia dietro la schiena con una mano, l'angelo era provato da tutti quei giorni rinchiusa al rifugio e non oppose troppa resistenza. Vezirya accostò la ferita che ancora grondava rivoli di sangue scarlatto alle sue labbra aperte che annaspavano.
Vega capì e non disse niente.

   Erano le origini di Vezirya il segreto dietro al potere dell'elisir che le scorreva nelle vene, un sangue che aveva la capacità di assoggettare al suo volere chiunque ne entrasse in contatto. Ma non c'era solo questo, qualcosa di più oscuro si nascondeva in quel sangue. Qualcosa che faceva salire in superficie le perverse tentazioni di chi lo assaggiava.
   Fortunatamente, però, quello era un giochino che si riservava di usare soltanto come ultima spiaggia.
Le piaceva guadagnarsi la stima e la fiducia delle persone, piuttosto che arrogarsele.
   Ma con Morra non ebbe scelta.
Aveva bisogno di una garanzia di fedeltà, e il suo sangue gliel'avrebbe assicurata.

   Ma ora avevano bisogno di un piano, e su quello, ovviamente, non ci avevano ancora riflettuto abbastanza.

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