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Cap. 4; La Ballata Dell'Ignavia

   «Fare cosa con la cosa?» gracchiò Alastor interdetto, spostando gli occhi su Vezirya nella speranza di trovarvi della lucidità.
Questa sbuffò rumorosamente premendosi gli occhi con due dita.

   Per fortuna lei e Vega erano abituati a lavorare in squadra, ad arrivare per tempo lì dove l'altro non arrivava.
Infatti, sebbene la mente di Vega fosse eccelsa nell'architettare dettagliatamente dei piani d'azione, rapida nella risposta d'effetto e risolutiva nel lungo tempo, quella di Vezirya era più veloce, più fresca e caotica. Perfetta per le situazioni d'emergenza inaspettate dove l'esito era di per sé incerto.

   Lei era brava a guadagnare tempo, Vega era bravo a sfruttarlo.

In un baleno, l'espressione stizzita della succuba diventò contrita, supplichevole addirittura.
   «Meno male che è qui, signor Alastor! Il principe ha confuso l'ubicazione della sua stanza e si è ritrovato nella mia.»
   «Lo capisco», nonostante il sorriso e il tono cortese, tra lo sguardo di Alastor e quello di Vega intercorreva ben altro.
   «È facile confondersi con le porte tutte uguali.»

Vezirya si alzò dal letto, e vedendo un barlume di speranza di averla vinta si frappose tra di loro. Tutta sorrisi verso il demone rosso gli posò appena una mano sulla spalla: «Sarebbe così gentile da accompagnarmi giù al bar? Questa sera ho proprio voglia di fare conversazione.».
Alastor acconsentì.
   Non aveva smesso di guardare quella mano estranea sulla sua spalla finché la proprietaria non l'ebbe tolta.
Ciò che ancor di meno poteva aspettarsi, era che quella stessa estranea potesse prenderlo sottobraccio. A quell'ennesimo contatto non richiesto, infatti, il microfono gracchiò nuovamente.

   I due si incamminarono, fingendo entrambi una serenità che non apparteneva né all'uno né all'altro, e raggiunsero Angel e Husk al bancone del bar.
La festa sarebbe iniziata di lì a poco, Lucifero era ancora impegnato in cucina con le cotture dell'ultimo minuto.

   La mente di Vezirya correva veloce; si era già creata dieci scenari possibili su come sarebbe andata a finire con Alastor.
Forse, sfruttando la presenza degli altri due, avrebbe cercato di metterla in difficoltà. Forse, con i suoi giri di parole, l'avrebbe spinta a confessare qualcosa.
Forse, ma soltanto forse, avrebbe dovuto lasciare che fosse Vega a occuparsi del demone della radio. Lui lo gestiva sicuramente meglio, tralasciando la penosa scena di poco prima.

   C'erano infinite possibilità di fallimento.

Alastor però, contrariamente alle previsioni della succuba, se na stava seduto composto, tranquillo.
A malapena la scrutava di soppiatto, e soltanto di tanto in tanto.

   A rompere il silenzio glaciale fra i due c'era soltanto lo scuotere frenetico dello shaker di Husk, che si era già adoperato a preparare da bere. E mentre Vezirya era cautamente all'erta, come una lepre abbassata nella malva, Alastor sembrava essere a suo completo agio in quello stato d'attesa, e con l'unghia dell'indice tracciava piccoli cerchi sulla superficie legnosa sotto di lui.

   «Dunque», esclamò di colpo, facendo trasalire sia Vezirya che Angel, «cosa fa lei per vivere?»
Angel si sporse sul bancone, schiacciandoci sopra il petto prominente quasi del tutto scoperto, e guardò il demone della radio con aria giudicante.
   «Scherzi? Lei è una star! La conoscono tutti qui», Vezirya spalancò il suo gigantesco sorriso e gli fece l'occhiolino.
   «Ma dimenticavo che sei un vecchio decrepito, e non te ne intendi di vera musica, né di stile», aggiunse il ragno guardandosi le unghie della terza mano.

Alastor rise istericamente, le sopracciglia corrucciate, e Vezirya lo interruppe prima che potesse rispondere a tono.
   «Lei, invece? Il maggiordomo è la sua sola occupazione?»
Angel, per ridere, sbatté il bicchierino del suo shot tanto forte da mandarlo in frantumi.
   «Mi complimento per il comportamento», rincarò Alastor, «davvero maturo e raffinato, giusto per qualcuno di classe come te!»

I suoi occhi stavano già cambiando colore quando una folata intensa lo pervase.
   Era un odore virulento e pungente.
Odore di antrace.
Le pupille scure del demone rosso scorsero senza fatica il taglio che la succuba si era procurata su un dito, nel tentativo di raccogliere le schegge di vetro. Dalla ferita spillavano alcune gocce di sangue, e nell'odore di quel sangue c'era qualcosa di estremamente sbagliato, che evidentemente soltanto lui riusciva a percepire con chiarezza.

   Vezirya lo notò quello sguardo serio e indagatore che Alastor le aveva puntato addosso, e si sentì una preda allo scoperto.

   «Posso fare qualcosa per aiutarla?» chiese Alastor con tono stranamente sommesso, ma sempre fermo.
E lì a Vezirya venne un'idea per metterlo fuori gioco, almeno per un po'.

La succuba, infatti, con un movimento fulmineo del polso gli infilò l'intero dito ferito dritto in bocca, sotto lo sguardo scioccato degli astanti.
   Se lo avesse avuto in mano, Angel avrebbe fatto cadere un altro bicchiere.

   «Meglio», disse lei estraendo il dito dalle fauci del demone e vedendolo ripulito.
Era ben messa al corrente del potere che aveva quel sangue.

Il demone della radio balzò all'indietro di alcuni metri; non si era ancora mai sentito tanto violato; e nel farlo andò a sbattere con la schiena contro qualcosa, o per meglio dire qualcuno.
Quando alzò lo sguardo, sopra di lui svettava Vega con le mani in alto ai lati della testa per evitare di toccarlo, come in segno di resa.
   «Tutto bene?», il falco non fece neanche in tempo a finire la frase che il demone rosso si liquefece in una pozza nera sotto di loro e scomparì.

   Quando alzò gli occhi, Vezirya gli stava puntando lo stesso dito a mo' di pistola e mimò un "pew" con le labbra, ridacchiando sinistramente soddisfatta.

   Un attimo dopo Lucifero sbucò fuori dalla cucina con addosso un adorabile grembiulino da cameriera, seguito da uno stuolo di carrellini portavivande che lo seguivano come mossi da autocoscienza.
Il re sfilò davanti a tutti soddisfatto del suo lavoro e schioccando le dita fece volare tutte le varie cloche sull'enorme tavolo precedentemente apparecchiato con minuzia dalla figlia e da Vaggie.

   «Scusate per il ritardo», annunciò, «ma del resto, l'attesa aumenta il desiderio, dico bene?» e ammiccò languido verso Vezirya che lo squadrò dalla testa ai piedi.
Imbarazzato, Lucifero si sbarazzò di quel grembiule con un colpo di tosse, quindi si sbrigò a scoprire tutti i coperchi dei vassoi sul tavolo.

   C'erano pietanze di ogni tipo: stufato di opossum in salsa piccante, occhietti bolliti, insalata con-dita, scarafaggi in umido.
Tante varie delizie per ogni tipo di palato.

Vega impiegò una manciata di secondi prima di avventarsi sugli spiedini di piccione, sotto gli occhi soddisfatti di Lucifero che non aveva ancora smesso di guardarlo con quell'orgoglio paterno, che non faceva che metterlo a disagio.

   La festa proseguì tra le risate e la musica, Angel e Vezirya si erano dati alla pazza gioia con i cocktails e ora sedevano vicini sul divano, osservando Niffty, Lucifero, Charlie e Vega da varie angolazioni mentre giocavano a twister.
   «Piede destro su rosso, Vostra Altezza», la voce monotona di Husk mentre faceva girare la freccetta e dava le indicazioni agli altri, esprimeva appieno quanto poco si stesse divertendo.
Per Vezirya e Angel era ogni volta la parte più esilarante di quel quadretto.

   Il telefono di lei squillò all'improvviso, non una, non due, ma forse una decina di volte.
Quando lo afferrò, sullo schermo apparve una carrellata di messaggi da parte di Valentino.
In alcuni sembrava far finta di niente, in altri le chiedeva scusa, e gli ultimi riportavano tutti la stessa cosa: controlla Angel. Fa' tornare a casa Angel. Dimmi cosa fa Angel.

Con un sospiro amareggiato la succuba guardò il demone accanto a lei; in quel momento sembrava così spensierato. Le guance lievemente arrossate dall'alcol e lo sguardo sorridente.
   Quell'occhio nero fu un pugno nello stomaco per lei.

   «Ho visto parecchi dei tuoi film, sai?» gli disse appoggiandosi con il gomito sullo schienale del divano, «hai davvero del talento!»
Gli occhi di Angel, anche i sei che aveva sulle guance, si spalancarono e brillarono colmi di entusiasmo.
   «Si vede che ti piace quello che fai, è così?»
   «Beh, come dire», per un attimo il demone esitò e sembrò come se un'ombra fosse calata sul suo sorriso.
Il tempo di scuotere la testa ed ecco che gli occhioni ripresero il loro caratteristico bagliore malizioso, alzò il mento e tirò in fuori il petto strizzandolo quasi del tutto fuori dalla scollatura con le mani.
   «Insomma, mi hai guardato bene?»

Vezirya sorrise appena.
   Forse non era ancora pronto per parlarne, per aprirsi.

   «Che sudata!», con un tonfo Lucifero si abbandonò seduto proprio in mezzo a loro, le braccia e la nuca distese sullo schienale.
Con la coda dell'occhio lanciò uno sguardo che era un tutto dire alla succuba lì accanto.
   «Non che mi dispiaccia sudare un po'», la voce uscì calda, gutturale, dalle sue fauci sorridenti.

Vezirya si rialzò dal divano ruotando gli occhi al cielo, poi raggiunse gli altri sul tappeto colorato senza più degnarlo di uno sguardo.

   Approfittando del trambusto, Vega si ritirò nella sua stanza di soppiatto.
Le risate e la musica si fecero echi indistinti e ovattati mentre i pensieri gli ronzavano nella testa come uno sciame impazzito e la porta si richiudeva alle sue spalle.
Il benedetto click della chiave che scattò nella serratura lo fece sospirare sollevato; finalmente il mondo era fuori gittata.

   Si avvicinò al comodino accanto al letto e accese la radio a basso volume, una musica ambient con pianoforte e sax lo fece rilassare istantaneamente.

Come assuefatto da un'abitudine ormai diventata droga, Vega non impiegò nemmeno due minuti a capire cosa fare; le mani si avventarono rapaci al suo collo, lì dove pendeva costantemente il talismano incantato che obnubilava il suo terzo occhio, e lo strapparono via con eccessiva urgenza, come stesse soffocando e la sua vita dipendesse da quello.

   Guardò il piccolo cristallo ambrato nel suo palmo mentre questo emetteva gli ultimi spasmi di luce, e quando si spense definitivamente l'enorme palpebra sulla sua fronte si spalancò.
L'occhio ruotava spasmodicamente in ogni direzione, analizzando per un paio di secondi ora l'angolo in alto a sinistra, ora il tappetino ai piedi del letto, ora la nappa che pendeva dalla cordicella della tenda, ora l'elegante applique sulla parete destra. Senza sosta.
   Era come avesse sete del mondo, dopo tanto dormire.

   "Basta non farsi domande per qualche istante", si ripeteva mormorando piano, "puoi gestirlo".

Una volta appurato che il terribile occhio non lo avrebbe martoriato di orribili visioni, Vega si rilassò.
   Con un dito disegnò il proprio sigillo nell'aria di fronte a sé, e un istante dopo si era aperto un portale dal nulla.
Vega entrò in quella nuova dimensione; la sua dimensione.

   Un bianco ottico infinito, privo soffitto e pareti, solo un pavimento a scacchiera senza fine, senza alcun punto di riferimento che potesse agevolare l'orientamento.
Vega, però, conosceva piuttosto bene quel posto.
   Il passato, il presente e il futuro che si fondono senza confini, fari o parametri, proprio come dimostrava quella scacchiera tanto infinita da far venire le vertigini.

Sapeva bene come evitare il futuro, anche perché in realtà a interessargli davvero era il passato. Il doloroso cantuccio dove sadicamente si rifugiava fin troppo spesso.
   Camminò nell'immenso spazio aperto sapendo esattamente come orientarsi, aprendo porte invisibili che lo trasportavano nei suoi ricordi.

   «Piccolo mio, finché ci sarò io nessuno potrà farti del male.»
Ora era nella sua vecchia camera da letto, e quella voce soffice gli aprì istantaneamente un feroce squarcio nel petto.

Vassilisa, sua madre, era seduta sul bordo del letto, l'enorme vestito blu notte che era solita indossare si apriva a raggiera tutto intorno a lei.
   Con una mano sottile accarezzava il rigonfiamento piangente sotto le coperte, che doveva essere per forza il piccolo pulcino che era stato lui molti anni prima.

   Ricordava bene quella notte; aveva avuto la visione di un piccolo demone che veniva smembrato dai cannibali e si era spaventato a morte.

Con un fruscio lamentoso, il piccolo Vega sbucò fuori dalle coperte con la sua vestaglietta gialla, i capelli lunghi e il suo adorato Richie, il pupazzetto di un kraken, stretto al petto.
I tre occhi ricolmi di lacrimoni.
Vassilisa sorrise intenerita e accolse il figlio sul suo grembo, lasciandolo sfogare.

   «Sono stanco! Non voglio più vedere la verità, voglio solo dormire...», pigolò, asciugandosi gli occhi con il braccio.
   «I doni che abbiamo sono spesso le nostre condanne», gli spiegò la regina con tono accogliente, «ma noi possiamo controllarli. Basta conoscerli!»

   Con l'indice Vassilisa sollevò il visetto del figlio, asciugando con una manica la piccola bolla di moccio che si gonfiava sul suo piccolo becco.

   «Ma io non voglio conoscerlo! Mi fa solo paura...»
La madre ridacchiò stringendolo al petto e cullandolo, mentre accennava una ninna nanna schioccando la lingua.
   «La verità è soltanto un punto di vista. Qualcosa che può sembrare sbagliato o tragico per te, potrebbe non esserlo davvero.»

   Vega ricordava quel discorso.
Si avvicinò fino ad appoggiarsi con la spalla alla colonnina del baldacchino e il piccolo Vega sembrò voltarsi verso di lui, forse percependo la sua presenza.
   Non ne fu stupito, avevano entrambi gli stessi poteri.

Si ricordava che da piccolo aveva sempre avuto la sensazione di essere osservato da qualcosa che si nascondeva negli angoli della sua stanza, non poteva immaginare che si trattasse di lui stesso da adulto.

   Aveva sempre vegliato su di sé.

Quest'improvvisa consapevolezza gli riscaldò il cuore.

Si sedette anche lui su quel letto che da piccolo gli sembrava immenso, e allargò le braccia per stringere sé stesso e sua madre in un abbraccio impalpabile e invisibile.
   Per poco non si commosse.

   «Anche se ti sembra spaventosa, la verità non è cattiva, Abeniantas», soffiò sua madre tra i capelli profumati di suo figlio.

Il morso atroce che minacciava di chiudergli la gola spinse Vega a tirarsi su, afferrare una maniglia invisibile e uscire da quel ricordo.

L'ambiente in cui si trovava adesso era sempre una camera da letto, ma più adulta.
   E non era la sua.

   «Perché non vuoi dirmi la verità?»
Un giovane Stolas spintonò un altrettanto giovane Vega, che perse l'equilibrio e cadde con un morbido tonfo sul letto del primo.
   «Come puoi chiedermi di vedere se ci sarà mai amore nel tuo matrimonio, Stolas?», il Vega del ricordo ridacchiò incredulo, «insomma, guardaci!»

   Anche al Vega adulto venne da ridere riguardando quel ricordo.
Stolas era solito chiedergli l'esito di tante cose come quella, Vega sapeva lo facesse soltanto per la paura di rimanere solo, e di non poter quindi condividere quell'amore che tanto desiderava avere con qualcuno.
   Lui, ovviamente, conosceva la verità e tacendo cercava soltanto di proteggerlo.
In più, ogni volta non poteva non domandarsi come l'altro non riuscisse ad immaginarsi un futuro con lui.
Lui lo amava. E per davvero.
Anche se in realtà neanche il suo terzo occhio lo vedeva, quel futuro insieme, ma questo non voleva ammetterlo.

   Stolas mugugnò insoddisfatto, dopodiché si arrampicò cavalcioni sul Vega ancora steso sul letto. Faceva così ogni volta che voleva fargli provare la sua stessa frustrazione.
   «Credi non ci possa essere amore perché mi piace questo?», sbuffò il gufo, poi le sue mani scivolarono lungo il torso dell'altro, aggrappandosi all'orlo dei suoi pantaloni. Adesso un sorriso malizioso lo illuminava, e via via che le mani scendevano si faceva più audace.
   «Credo semplicemente che la verità non sia definitiva», sospirò Vega prima di gettare all'indietro la testa, ora in visibile difficoltà.

   Forse parlava più con se stesso che con il fratellastro, e per zittire i pensieri afferrò il viso di Stolas e lo strattonò a sé, riprendendo il controllo di quel gioco subdolo.
   Il tubare sommesso del più piccolo e le guance arrossate gli mandarono in tilt il cervello, e mentre lo accompagnava giù con sé stendendosi sul materasso, lasciò scivolare la lingua dentro la sua bocca, sancendo la fine di quel battibecco.

   Mentre i respiri dei due si facevano più ansanti e il fruscio dei vestiti che venivano lanciati via sempre più veloce, Vega aprì di nuovo la porta invisibile che lo riportò al freddo, asettico ambiente bianco dell'inizio.
   Non aveva bisogno di altri stimoli per pensare a Stolas. Lo faceva già.

Rimase immerso nel bianco per qualche istante, domandandosi perché proprio in quel momento avesse sentito il bisogno di rifugiarsi in quei ricordi, che erano tanto atroci quanto consolanti.
   Non riusciva a spiegarselo.

Quale che fosse la verità che stava tenendo nascosto anche a se stesso, non fu in grado di trovare il coraggio necessario per affrontarla.
   Come sempre.
Dunque con un sospiro uscì di nuovo da quella dimensione onirica.

Nella sua stanza la musica era andata avanti soltanto di qualche nota; per quanto potesse essere lungo il tempo che passava in quella dimensione, quando tornava dai suoi viaggi non erano che passati pochi secondi.

   Quando le orecchie tornarono ad abituarsi ai suoni "reali" della stanza, si accorse che da un po' qualcuno stava bussando insistentemente alla porta.
Ancora frastornato e con il talismano in tasca e l'occhio sveglio e vigile, si trascinò ad aprire.

Lo so lo so, questo capitolo è un po' lunghetto, ma amichetti non potevo PROPRIO tagliarlo, e anzi, in prima stesura era venuto anche più lungo!

A ogni modo, capitolo un po' malinconico, da lacrimuccia, sigh.
Spero lo abbiate apprezzato come me!

Quale sarà questa verità che Vega nasconde a se stesso? Che potere ha il sangue di Vezirya e.... Chi è che bussa?

✨Al prossimo capitolo!
E come sempre, per curiosità, novità, spoiler, estratti e tanto altro, seguitemi anche su Instagram: xophe_library✨

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