Capitolo 6
Il senso di colpa non se ne andò ed Eita passò la settimana successiva a rimuginare sulle sue scelte e la decisione accordata insieme. Avevano informato Hayato la mattina seguente e lui non si era reso tanto disponibile alla comprensione come lo era stato Reon. Era scattato su come una bestia, gridando che no, loro non avevano il diritto di fare quella cosa. Ci erano voluti dieci minuti buoni per convincerlo ad abbassare la voce e a non dirlo in giro. Era una settimana che Hayato se ne andava in giro per la nave con un broncio incazzato e rispondeva male a chiunque gli rivolgesse la parola.
Kenjirou aveva percepito che qualcosa non andava quasi subito, ma non aveva fatto domande. Prima lo avrebbero lasciato andare, si diceva, prima tutta quella storia sarebbe finita. L'unica cosa che volle sapere fu delle sue sorti, ma ogni volta che cercava di parlare con Eita, quello o lo respingeva o si rifiutava di rispondere.
Alla fine, sbottò: «La vuoi smettere di ignorarmi?!»
Eita sobbalzò leggermente ma a parte un flebile movimento delle spalle non lo diede da vedere. Si voltò verso Kenjirou e lo guardò negli occhi per qualche secondo. «Non ti sto ignorando. Sto pulendo le cozze.»
Il sopracciglio di Kenjirou ebbe un fremito. «Non intendo quello.»
Eita tornò a concentrare tutta la sua attenzione sul secchio di cozze ancora mezzo pieno. «E allora cosa intendi?»
«Ogni volta che provo a chiederti cosa avete intenzione di fare con me m'ignori e te ne vai. Perché?» il biondo tirò un profondo respiro e puntò lo sguardo fuori dall'oblò, osservando l'isola dove avevano deciso di fermarsi per fare provviste. Avevano ormeggiato la nave ormai da mezza giornata ma né Kai né Yunohama erano ancora tornati ed Hayato era scomparso, sceso con la scusa di voler sbollire la rabbia prendendo ad asciate una palma innocua e indifesa.
Tornò a spostare lo sguardo sulle cozze e buttò quella che teneva in mano dentro al secchio. Atterrò con un tonfo sugli altri gusci neri e la conchiglia si scheggiò. Eita non se ne accorse, dacché si era alzato e avvicinato alla vasca. «Vieni con me.»
Kenjirou pensò stesse scherzando. Incrociò le braccia al petto e lo fissò per qualche secondo, prima di domandare: «E come dovrei venire con te? E dove?»
Eita non rispose e si limitò a protendere le braccia verso il castano. Quello, riluttante, gli afferrò gli avambracci.
«Dove andiamo?» chiese ancora, mentre Eita lo sollevava e lo stringeva al petto per non farlo cadere. Kenjirou rabbrividì sentendo l'assenza dell'acqua. Si aggrappò alla camicia del più grande e sentì il cuore battere più velocemente all'odore di sale marino che emanava. Non appena salirono sul ponte tutti gli occhi furono su di loro, ma l'occhiataccia di Eita convinse tutti a distogliere immediatamente lo sguardo. Kenjirou si guardò intorno incuriosito.
Il ponte – e quindi la nave stessa – era più grande di quanto si fosse immaginato. Tre grossi pilastri di legno si innalzavano al cielo sostenevano il pesante tendaggio di velluto nero, simbolo dei pirati. A poppa si trovava il timone abbandonato. Uno dei manici mancava ed era stato sostituito con un ramo abbastanza robusto, sicuramente in via provvisoria. Casse piene di stracci, corde e altri oggetti di cui Kenjirou non capì la funzione erano abbandonate un po' ovunque e l'equipaggio le circumnavigava o le saltava, sfrecciando di fretta da una parte all'altra della nave. Mentre scendevano dalla passerella Kenjirou notò che l'albero maestro era stato fissato alla base con una muraglia di pezzi di legno, sicuramente causa del continuo martellare che aveva udito in quei giorni.
L'isola non era relativamente grande e la spiaggia era piccola e sassosa. Eita la superò senza dire nulla e si inoltrò nella vegetazione. Kenjirou alzò lo sguardo e si perse ad osservare il cielo azzurro che si intravedeva dalle larghe foglie delle palme. «Ancora non mi hai detto dove stiamo andando.»
«C'è un posto...» si limitò a dire Eita. «Un posto che ho visto poco fa, quando sono sceso per controllare dove si fosse cacciato Yamagata.»
«Chi è Yamagata?» domandò di getto Shirabu. Semi gli scoccò un'occhiata incuriosita.
«Quello che ultimamente gira incazzato.» Kenjirou distese le labbra in una linea dura per impedirsi di sorridere divertito e questo non sfuggì all'occhio attento di Eita. «Sono spiritoso?»
Il castano dovette attingere a tutta la sua forza di volontà per non tirargli un pugno seduta stante. Di certo se Eita si fosse fatto male oppure fosse svenuto non avrebbe avuto la forza necessaria per strisciare fino al mare. Distavano già di un buon centinaio di metri e continuavano ad inoltrarsi nella vegetazione che diventava man mano più fitta, tanto che Semi fu costretto a tirar fuori un coltello per tagliare i rami troppo invadenti.
«Ci siamo quasi.» Kenjirou aveva voglia di ribattere che erano dieci minuti che continuavano a camminare in mezzo a tutta quella boscaglia uguale e che quindi non poteva assolutamente essere sicuro del fatto che fossero vicini alla loro meta – qualunque essa fosse – ma quando Eita tagliò l'ultimo ramo e la grossa foglia cadde a terra davanti a loro si aprì uno spiraglio di costa e poco oltre la spiaggia un piccolo bacino d'acqua salata. Kenjirou strabuzzò gli occhi e iniziò a divincolarsi dalla presa di Eita che, sorpreso, dovette lascia cadere il coltello per sorreggerlo.
«Smettila di agitarti tanto!» sbottò il biondo, afferrandolo per i fianchi e caricandoselo in spalla.
«Mollami, Semi!» Kenjirou gli tirò pugno alla base della schiena. «Mollami!»
«Se ti mollo ora tiri una testata.» borbottò Eita, poi si diresse verso il piccolo laghetto e ci lasciò cadere dentro Kenjirou. «Certo che con quella testa dura che ti ritrovi non ti faresti nulla.»
Il castano non sentì l'ultimo commento, o se lo sentì decise di ignorarlo. Raggiunse il fondo del lago e si stese sulla sabbia, chiudendo gli occhi e godendosi la poca corrente che si era generata in quel piccolo bacino. Non gli sembrava vero di essere nuovamente in una conca d'acqua naturale.
Sobbalzò quando sentì un tonfo sordo e quando aprì gli occhi Eita lo salutava agitando una mano, le guance gonfie per mantenere il respiro. Per un attimo, Kenjirou fu tentato dall'afferrarlo e trattenerlo sott'acqua fino farlo soffocare, liberandosi quindi della sua guardia personale. In quel caso, sarebbe tranquillamente potuto tornare in mare e andarsene da lì. Poi, invece, Semi lo afferrò per una mano e tornò in superficie, tirando un profondo respiro per riprendersi quell'aria che si era auto sottratto.
«Vieni. Voglio farti vedere una cosa.» Nuotò fino alla riva ed uscì dall'acqua. Kenjirou lo osservò mentre si fermava alla base di un albero e tornava indietro con un grosso frutto verdognolo tra le mani. Il cuore del castano si fermò quando lo vide spezzarlo malamente in due e porgergliene un po'. «Questo è il frutto del citrus paradisi, il pompelmo. E' molto buono.»
Il castano rimasse immobile, congelato, mentre osservava quel frutto dalla buccia verdognola e il succo rossastro. Non lo prese nemmeno in mano e si mosse di un metro indietro, quasi avesse paura che anche solo respirandone l'aroma potesse succedergli qualcosa di brutto. Eita corrugò le sopracciglia. «Guarda che non sto mica cercando di avvelenarti.»
Kenjirou deglutì mentre l'odore forte lo colpiva in pieno come uno schiaffo in faccia. Sentì lo stomaco brontolare e strinse i pugni. Come poteva Eita non sapere? Non era poi lui l'esperto delle sirene?
«Shirabu? Tutto okay?» il biondo inclinò la testa di alto, confuso. «Che hai?»
Il castano prese un profondo respiro per calmarsi. «Non posso.»
Eita lo guardò confuso. «Co... Perché? Sei allergico?»
Kenjirou scosse la testa. «No, solo... Non posso.»
Puntò gli occhi in quelli marroni del biondo e deglutì. Eita si sedette a riva e non disse nulla, semplicemente prese a mangiare in silenzio. L'altro si stese sotto la superficie dell'acqua e per parecchi minuti nessuno dei due disse nulla, poi Eita puntò lo sguardo al cielo e di colpo esclamò: «Sai, credo che una delle mie bis-bis nonne fosse una sirena come te.»
Kenjirou sgranò gli occhi ma non si mosse. Non voleva dargli la soddisfazione di vederlo interessato. «Come fai a saperlo?»
«Quando ero piccolo mia nonna mi raccontava sempre tante storie su creature con una lunga coda che vivevano sul fondo del mare. Le descriveva talmente tanto nel dettaglio che mi sono sempre chiesto come facesse a sapere tutte quelle cose.» tirò un profondo respiro. «Quando è morta mi ha lasciato un piccolo scrigno e mi ha detto che avrei dovuto aprirlo solamente quando avessi compiuto tredici anni e da solo. Dentro c'erano tante scaglie colorate e una lettera vecchia e ingiallita. La calligrafia nera quasi non si leggeva.»
Kenjirou si puntellò sui gomiti e spostò lo sguardo sul biondo. «Cosa diceva?»
«Era stata scritta dal nonno di mia nonna. Raccontava di come alla morte della moglie quella si fosse risvegliata dopo poco e con una lunga coda dorata al posto delle gambe.» il castano deglutì, non sicuro di voler ascoltare il resto della storia. «Le scaglie dentro lo scrigno erano quelle della sua coda. Aveva appena assistito alla morte della donna che amava e quella si era risvegliata con una grossa coda... Si era risvegliata non umana. Lui non ci poteva credere e non voleva nemmeno. La accoltellò.»
Kenjirou sentì un rivolo di sudore scendergli lungo la tempia. «E poi?»
«La lettera è una dichiarazione d'amore e di scuse rivolta alla donna che aveva amato in vita. Solo dopo averla uccisa di nuovo si è reso conto dell'ovvietà della situazione e ha spogliato al sua coda delle scaglie per poterle conservare come un ricordo di lei. Ha messo tutto nello scrigno e lo ha consegnato a mia nonna raccomandandole di passarlo in eredità con attenzione perché conteneva una cosa molto preziosa, poi si è suicidato.»
«Non so se sia una cosa molto triste o molto romantica.» borbottò Shirabu, tornando a stendersi sotto il livello dell'acqua. Eita si alzò solo per andarsi a sedere vicino a lui.
«È l'unica cosa che non ho mai capito.» sentenziò. «Come può una sirena diventare umana?»
«La vera domanda è perché vorrebbe farlo.» sibilò in risposta il castano. Eita sobbalzò leggermente e Kenjirou sospirò. «Scusa.»
«Figurati.» borbottò l'altro sottovoce, troppo perso nei suoi pensieri per dar veramente conto al tono brusco che il castano aveva utilizzato. Rimasero in silenzio per un'altra manciata di minuti, prima che Kenjirou si decidesse a parlare.
«Il cibo degli umani.» Eita lo guardò improvvisamente attento. «È mangiando il cibo degli umani che diventiamo umani. In base alla quantità ingerita il tempo di trasformazione cambia.»
Eita sgranò gli occhi. «E c'è poi un modo per ritornare sirene? O dovete vivere per sempre umani?»
«Morire.» l'aria allegra di Semi scomparve all'istante e rimase interdetto per parecchi secondi.
«Mo... Morire?» domandò. Kenjirou annuì.
«Si. Morire.» si mise seduto e guardò Eita. «una volta morti si ritorna sirene, ma non si potrà più tornare umani, si perderà la laringe e se normalmente una sirena vive centinaia d'anni, la sua durata di vita si accorcerà a quella di un umano. Questo è il prezzo da pagare per diventare umani.»
«E... E c'è un modo per trasformare un umano in una sirena?» Eita sussurrò talmente piano che Kenjirou dovette tendere l'udito al massimo per sentirlo. Con un verso di scherno, tornò a stendersi sott'acqua.
«Certo che no.»
Il biondo si alzò e si allontanò senza dire nulla. Si lasciò cadere sulla spiaggia e fissò in silenzio l'orizzonte, ripensando a tutti i racconti di sua nonna e alla storia della sua ava, poi i suoi pensieri si focalizzarono su sua madre, malata in un letto e sulla soglia della morte. Chiuse gli occhi e si impose di non pensarci, perché quel ricordo era di molti anni addietro e mettersi a rimuginarci sopra ora non aveva senso. L'unica cosa a cui doveva pensare ora era salvare il loro capitano, perché era certo del fatto che Wakatoshi fosse là fuori da qualche parte e attendesse solo di essere ritrovato dal suo equipaggio. E se fosse stato prigioniero degli inglesi, beh... Eita si voltò e fissò Kenjirou. Se il loro capitano fosse stato in una segreta inglese, allora ben presto in quella segreta ci sarebbe finito Kenjirou.
Deglutì e si tornò a voltare avanti con il cuore pesante perché non voleva veramente fare del male al castano che si era solo ritrovato in un momento sbagliato nella situazione sbagliata. Non voleva che Kenjirou venisse ucciso com'era successo a sua nonna.
Improvvisamente, la consapevolezza di quello che gli aveva raccontato l'altro lo investì come un carro in corsa e scattò in piedi con gli occhi sgranati. Se quello che il castano gli aveva raccontato era vero, allora avrebbe avuto una possibilità di salvare sia il suo capitano che Kenjirou – sempre che lui fosse abbastanza intelligente da cavarsela. Se però il suo piano fosse fallito, Kenjirou sarebbe morto ugualmente. Se invece fosse riuscito, lo avrebbe odiato per l'eternità e di certo avrebbe girato il mondo intero pur di ritrovarlo e tagliargli la testa.
Eita scosse la testa e tornò da Kenjirou, sentendosi uno stupido per aver anche solo pensato di rendere il castano umano per salvargli la vita. «Forza, torniamo alla nave.»
Shirabu non oppose resistenza e lasciò che Eita lo sollevasse senza sforzi. Si voltò verso il mare e strinse le labbra mentre vedeva le sue ultime possibilità di fuga svanire nel nulla. Da quando si era arreso così?, si chiese. Da quando era diventato tanto accondiscendente da lasciar che gli altri decidessero per la sua vita? Gli umani, poi, gli esseri più mostruosi che Kenjirou conoscesse, e lui si stava facendo ammazzare da loro così come lo era stata l'ava di Eita. Non voleva morire. Voleva vivere ancora a lungo e non in una gabbia.
Il suo corpo si mosse da solo prima che potesse decidere cosa fare e tirò un pugno sotto al mento ad Eita. Quello, sorpreso, lo lasciò cadere a terra ed indietreggiò per mantenere l'equilibrio mentre si massaggiava la pelle dolorante.
«Che cazzo ti dice il cervello?!» sbottò, mentre Kenjirou strisciava a fatica verso l'acqua del mare. Un tentativo di fuga stupido, perché Eita rimase ad osservarlo allontanarsi di qualche metro prima di sospirare e raggiungerlo. Lo sollevò ignorando la coda che aveva preso a muoversi frenetica e se lo caricò in spalla, tenendolo ben saldo questa volta. Shirabu affondò il viso nella sua spalla, con le braccia tremanti per lo sforzo di trascinarsi dietro tutto il corpo per quella decina di metri, e si sentì sopraffatto dalla situazione.
«Non voglio...» mormorò, la voce improvvisamente incrinata in un sussurro e per un attimo temette che Eita non lo avesse nemmeno sentito, ma poi il biondo sospirò e come se stesse parlando ad un bambino piccolo domandò: «Che cosa non vuoi?»
Kenjirou strinse le labbra in una linea dura e questa volta parlò con più forza, la voce rotta da un piccolo singhiozzo. «Non voglio morire.»
Eita per poco non inciampò in una radice. Si fermò di botto e dovette tirare un profondo respiro prima di continuare a camminare per essere sicuro che le sue gambe non cedessero da un secondo all'altro. Perché glielo confessava così improvvisamente? Che Shirabu sapesse? Ma come? Lui, Hayato, Satori, Jin e Taichi erano stati molto attenti a parlare delle sorti del loro prigioniero – perché quello era Kenjirou, una creatura presa contro la sua volontà e segregata in una stiva ammuffita in attesa di essere consegnata ai suoi aguzzini – e prima di aprire il discorso si accertavano sempre di essere nell'ufficio di Jin, lontani da occhi ed orecchi indiscreti. Allora Kenjirou come faceva a sapere? O che in realtà non sapesse, che stesse solo facendo una considerazione, una rivelazione buttata lì in un momento di debolezza?
«Perché pensi di star per morire?» domandò Eita, ripercorrendo a ritroso la strada spianata all'andata. Kenjirou strinse tra le dita la maglia del maggiore e sentì gli occhi velarsi di lacrime non richieste.
«Mi state portando a morire.» mugugnò e una gocciolina salata gli rigò la guancia prima che potesse far altro. «Non voglio morire.»
Eita sentì il cuore stringersi in una morsa nel sentir la voce spezzata dall'emozione del castano. Un istinto primordiale gli sussurrò di correre in mare e scaraventarcelo dentro, ma combatté contro il senso di nausea che provava ogni volta che pensava allo scambio che stavano andando a fare e continuò a marciare imperterrito verso la loro nave.
«Non stai andando a morire.» mentì e sentì il sapore amaro delle bugie in bocca. La nausea si fece più forte. Si sentiva uno schifo, disgustato dalle sue scelte e dal destino crudele. Scavalcò un torrente e scostò una grossa foglia. Ma in fondo, rifletté, non erano poi loro che stavano intraprendendo quella strada? Erano loro che pur di salvare una persona probabilmente morta stavano mandando a morire un ragazzino che non poteva avere più di diciassette anni. Perché Kenjirou non poteva che avere quell'età, nonostante Eita sapesse bene che spesso le apparenze ingannano e le sirene vivono centinaia d'anni.
«Quanti anni hai?» domandò, di getto. Shirabu fece scattare la testa all'insù e si asciugò con due dita le guance bagnate.
«Cosa? Che c'entra?» corrugò le sopracciglia, confuso. Perché, tutto d'un tratto, a quello sconosciuto – il suo rapitore – interessava sapere la sua età? Che fosse una sorta di test, un'informazione importante per il quale magari avrebbero deciso di risparmiarlo o peggio, ucciderlo prima? «Che t'importa?»
Eita alzò le spalle. «Così, per sapere. Io ne ho diciassette. Il mio compleanno è a novembre.»
Kenjirou assottigliò lo sguardo e guardò le cicche bicolore del biondo con circospezione. «Cosa ci guadagno a dirtelo?»
«Nulla, ma non perdi nemmeno nulla. È solo una mia curiosità ed era per fare conversazione.» Kenjirou si domandò se stesse dicendo la verità, ma il suo tono non sembrava aver un'intonazione particolare, quindi si cercò di convincere del fatto che fosse sincero.
«Sedici.» esclamò. «Diciassette a maggio.»
«Oh, tra poco! Un mese e mezzo!» Eita gli lanciò un'occhiata allegra, ma il sorriso sparì velocemente dal suo volto nel rendersi conto che sicuramente Kenjirou non sarebbe più stato in vita nel giro di un mese e mezzo e la colpa sarebbe stata tutta sua. Eita non era un assassino, così come non lo era il resto dell'equipaggio. Certo, avevano spesso lottato per poter sopravvivere e avevano ucciso per poter scappare dalla marina inglese, ma non avevano mai privato una persona della vita per il semplice gusto di farlo o per ottenere qualcosa. Shirabu sarebbe stato il primo ed Eita si ritrovò a domandarsi se fosse il primo di una lunga serie, mentre risaliva sulla nave.
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