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Capitolo 3

Eita e Tsutomu arrivarono in città per pura fortuna. Dapprima incrociarono delle baracche malmesse sulla spiaggia e poi imboccarono un sentiero pieno di cartelli che li condusse in fertili campagne cosparse di abitazioni gremite di bambini e vecchi contadini. L'imponente città spuntò in tutta la sua magnificenza quando oltrepassarono un grosso capanno e raggiunsero la vetta di una collina boscosa. Poche centinaia di metri dinanzi a loro si estendevano imponenti delle grosse mura di pietra oltre cui si intravedevano torrette e acquedotti.
Le porta della città erano spalancate e se non fosse stato per le due guardie appostate all'ingresso – anche se intente in una contesissima partita a scacchi – Eita avrebbe pensato che il sistema di sicurezza del posto fosse piuttosto fallace. Le guardie lanciarono loro un'occhiata circospetta ma non dissero nulla riguardo alla sabbia incrostata tra i loro capelli e i vestiti fradici e sgualcinati.
Le vie del centro abitato erano larghe e costeggiate da alti edifici di più piani. Tutte le botteghe erano aperte e ognuna di esse aveva un differente tipo di prodotti, dalle verdure ai tappeti ai gioielli. Davanti ad una bottega che vendeva vasi si era formato un capannello di donne con pomposi vestiti colorati che schiamazzava allegramente commentando l'ottimo lavoro di manifattura di un giovanotto dall'aria signorile che poco vicino sedeva con aria arrogante su una sedia scassata. Eita desiderò impellentemente che una di quelle gambe di legno si spezzasse e che quel signorotto con l'aria tronfia e i vestiti pregiati finisse tra la polvere.
Un gruppo di bambini superò il biondo e Tsutomu mentre rincorrevano un pallone di pelle tutto rattoppato e un gatto attraversò loro la strada, miagolando e strusciando il muso sulle loro caviglie in cerca d'affetto. Dopo aver dato due grattatine dietro le orecchie al felino Tsutomu affiancò nuovamente Eita che, nel frattempo, si era distanziato di qualche metro.
«Cosa stai cercando, senpai?» domandò d'un tratto il corvino mentre sorpassavano una grossa fontana che spruzzava acqua dalla groppa di un cavallo imbizzarrito.
«Voglio andare al porto.» rispose Eita senza esitazione. Per un attimo, Tsutomu temette che il maggiore avesse battuto la testa su uno scoglio mentre la tempesta lo trascinava a riva.
«Senpai, intendi... Intendi il porto porto?» domandò insicuro, sperando di essersi sbagliato nell'udire. Eita, purtroppo per lui, annuì.
«Sì.»
«Semi-san, sai che... Sai che il porto pullula di guardie armate e parecchio reali, vero?» Tsutomu si fermò e Semi fece lo stesso, voltandosi verso di lui. «Insomma, non saranno stati così idioti da... Insomma, da andare ad ormeggiare la nave lì, vero?»
Eita strinse le labbra sperando che il corvino avesse ragione. Se avessero trovato la nave al porto allora avrebbero trovato i loro compagni in prigione. Dietro le sbarre. E presto li avrebbero anche raggiunti.
«Muoviamoci.»
Raggiunsero l'area portuale dopo una buona ventina di minuti, non appena ebbero oltrepassato la pizza della chiesa, troppo gremita di persone per far sì che qualcuna delle guardie inglesi vestite di rosso che erano di guardia davanti al portone del duomo cristiano potesse notarli. Il molo si estendeva per duecento metri buoni e lunghe banchine con affianco ancorate navi di tutte le grandezze si allungavano come braccia bisognose nel mare. Al fianco della passerella di legno e sopra i bracci di legno si trovavano molte botteghe con esposti pesci d'ogni grandezza e dimensione che emanavano un odore acre e di marcio – sicuramente merce del giorno prima. Molti ormeggi erano vuoti e molte chiatte si stavano dirigendo verso il mare aperto alla ricerca di prede o di calma dal fitto vociare delle comare nonostante fosse ormai tardo pomeriggio.
«Non ci sono. Non vedo la nave.» mormorò Eita sottovoce, tirando un sospiro di sollievo. Tsutomu si coprì la bocca con una mano mentre passavano di fianco ad un cesto di pesci particolarmente puzzolenti e il biondo gli lanciò un'occhiata preoccupata.
«Credo di star per vomitare.» borbottò il corvino. Il suo senpai fece una smorfia e indicò il mare.
«Se devi vomitare fallo in acqua.»
Tsutomu non se lo fece ripetere due volte e si piegò sulla superficie azzurra, buttando fuori i succhi gastrici. Se prima mentre attraversavano le campagne rigogliose di frutti e verdure aveva pensato di avere fame ora il suo stomaco si era chiuso in una morsa e il solo pensiero di mettere qualcosa sotto i denti gli dava ancora di più il voltastomaco.
Eita abbassò di scatto lo sguardo e diede le spalle alle bancarelle mentre due guardie rosse li superavano chiacchierando allegramente tra loro. Un rivolo di sudore gli imperlò la fronte nel sentire le spade dei due militari chiazzare tra loro con un suono acuto.
Erano entrati in conflitto con l'armata reale inglese all'incirca un anno prima, dopo esser stati ingiustamente accusati di frode e di contrabbando da un mercante arabo. Il tizio, un vecchio ubriacone sempre in cerca di una donna nuova e molto più giovane di lui, era stato beccato dalle autorità britanniche durante un contrabbando d'oppio e aveva declinato ogni accusa dando la colpa a loro che si erano ritrovati al posto sbagliato nel momento sbagliato. Era seguito un processo in cui erano stati dichiarati colpevoli anche di una serie di reati minori dal resto dell'equipaggio dell'uomo, quali stupro, omicidio, estorsione e furto. Era poi entrato in aula un nobile a loro sconosciuto in combutta con il mercante – sicuramente il tizio a cui avrebbe dovuto essere destinato l'oppio – che li aveva accusati del rapimento della figlia minore. La parola dei pirati di piccolo calibro non aveva avuto voce in capitolo contro quella dell'aristocratico locale ed erano stati condannati a morte.
Ingiustamente accusati d'atti osceni, l'unica vera effrazione della legge che commisero fu quella di salvare le loro vite ed evadere durante la notte di prigione. Si erano quindi ritrovati immischiati in uno scontro a fuoco armato con la milizia inglese e durante la fuga il loro capitano era stato spinto in mare dall'impatto di una palla di cannone che aveva colpito la poppa. Nessuno sapeva che fine avesse fatto, ma sia Eita che Satori erano fermamente convinti del fatto che fosse ancora vivo, anche se rinchiuso in una squallida prigione a morire di fame. Oramai tutti gli altri, Tsutomu compreso, avevano perso le speranze di ritrovarlo, ma nessuno era riuscito a far cambiare idea ai loro senpai e la questione era stata dichiarata un argomento tabù senza che nessuno lo annunciasse. Semplicemente, tutti avevano capito che sarebbe stato meglio non parlarne affatto ora che tutti i loro volti era diventati disegni stilizzati su cartelli che recitavano al scritta CRIMINALI e RICERCATI.
Tsutomu si alzò dopo essersi sciacquato il viso con l'acqua salata e constatò: «Si sta facendo tardi.»
Eita annuì distrattamente, con lo sguardo perso vero l'orizzonte. «Lo so. Andiamo.»
Tsutomu non gli ricordò che non potevano fermarsi a dormire in una locanda, soprattutto in un'isola sotto l'influenza britannica del nuovo continente. Si limitò a seguire il biondo fuori dal porto e di nuovo nelle vie affollate della grossa città. Questa volta non costeggiarono il mare nelle vie principali, ma imboccarono stretti vicoletti bui e pieni di pozzanghere, diretti verso l'interno dell'isola e la periferia del centro abitato.
«Dove hai intenzione di dormire?» si decise finalmente a chiedere Tsutomu dopo che ebbero superato l'ennesimo vicolo poco trafficato ed ebbero abbassato lo sguardo mentre superavano un altro gruppo di guardie.
Eita non rispose subito. Mantenne il silenzio fino a quando non sbucarono sull'argine di un fiume in piena che scorreva lungo la città e si diramava in un piccolo delta di canali secondari. Si fermò di fronte ad un largo ponte poco illuminato e si guardò intorno, costatando che no, lì, nella periferia più estrema della città e al fianco delle mura, nessuna guardia avrebbe potuto notarli. «Qui.»
Tsutomu guardò prima il ponte e poi Eita, sbattendo più volte le palpebre. La possibilità che il suo senpai avesse veramente battuto la testa gli balenò in testa ancora una volta. «Q... Qui?»
Eita indicò il largo lembo di terra brulla sotto al ponte che si intravedeva. «Sì, qui. Nessuno ci troverà. Se non ti piace puoi anche andare a bussare in qualche casa e sperare che non ti riconoscano e che siano così gentili da ospitarti per la notte e da darti un pasto caldo.»
Lo stomaco di Tsutomu brontolò e lui abbassò lo sguardo, imbarazzato. Ora che anche parte dei succhi gastrici lo avevano abbandonato e si erano allontanati dal porto puzzolente la fame era ritornata più impellente di prima.
«D'accordo.» borbottò. «Accampiamoci sotto al ponte.»
 
Kenjirou non si era accorto di essersi addormentato e nemmeno di esser stato trasportato dalla vasca da bagno ad una vasca vera e propria. Si svegliò al buio e accasciato sul fondo della grossa piscina di due metri per lato e uno e mezzo di altezza che Kai, Reon e Yuu avevano costruito sotto le direttive di Jin e poi riempito con l'acqua salata.
Per un attimo la speranza di esser stato ributtato in mare lo invase. Scattò a sedere e si guardò intorno fremendo d'eccitazione, ma quando poi scattò verso l'alto la sua testa colpì qualcosa di duro e si tornò ad accasciare sul fondo della sua gabbia personale, improvvisamente e nuovamente stordito. Strinse le palpebre e quindi la testa tra le mani, cercando di far passare al più presto quelle fitte doloranti.
Quando finalmente sentì che il dolore accennava a diminuire si concesse si tornare verso l'alto e tastare con le mani ciò che aveva attorno, rendendosi ben presto conto del fatto di esser stato chiuso in una cassa di legno.
«Infidi stronzi!» sbatte un pugno sulla parete di legno e strinse i denti, raggomitolandosi in un angolo e deglutendo. Sentì il proprio stomaco gorgogliare e represse l'istinto di chiamare qualcuno. Avrebbe preferito morire di fame piuttosto che chiedere qualche corallo o qualche alga e di certo non si sarebbe abbassato a chiedere il cibo degli umani.
Lo avevano sempre messo in guardia su molte cose riguardando il popolo terrestre: erano creature egoiste ed infide, giocavano sporco e l'unica cosa a cui agognavano erano soldi, fama e potere. Non avevano un briciolo di autocontrollo e se ne saltavano sempre fuori con certe invenzioni strambe che stavano man mano inquinando l'ambiente circostante.
Kenjirou era nato nelle profondità marine dell'oceano pacifico e la sua famiglia aveva sempre vissuto in una sorta di lusso privato: avevano una grotta spaziosa, la barriera corallina vicino e il posto dove vivevano era infognato in una profonda valle, al sicuro da squali e creature carnivore che avrebbero potuto nuocere alla loro tranquillità. Sin dai suoi primissimi anni di vita c'era una cosa che gli era sempre stata ripetuta: non avvicinarsi agli esseri umani. Le creature della superficie erano esseri spregevoli che se lo avessero trovato gli avrebbero fatto patire le pene dell'inferno. Avrebbero dapprima staccato ad una ad una le sue squame per farci intricati gioielli, poi avrebbero usato i suoi capelli come resistenti fili per altri inquinanti macchinari e infine lo avrebbero aperto in due per vendere le sue carni a prezzi altissimi e usare i suoi organi per tenere in vita altri esseri umani. Forse era proprio il fatto che tra le varie minacce ci fosse stato un accenno ad utilizzare i suoi organi per tenere in vita altri esseri viventi che lo aveva convinto a prendere elevate misure di precauzione dagli esseri umani.
Quando aveva scoperto che si sarebbe potuto trasformare in uno degli esseri che più odiava, ciò era con il tempo diventato una delle sue più grandi paure e mentre si stringeva su se stesso dentro quella gabbia riempita d'acqua sentendo il suo stomaco brontolare la paura e il terrore lo invasero. Non voleva diventare un essere umano. Non voleva fare del male agli altri. Non voleva che la sua vita dipendesse da pezzi di carta e monete colorate. Non voleva rischiare di morire ogni volta che infilava la testa sott'acqua. Non voleva diventare un assassino. Tuttavia non voleva nemmeno morire di fame rinchiuso da dei pirati in una cassa di legno. Aveva ancora tante cose da fare. Voleva abbracciare ancora una volta la sua famiglia, voleva rincorrere i delfini ancora una volta insieme a Yuuji e la sua combriccola scatenata, voleva partire ed esplorare i fondali marini del pacifico in lungo e in largo fino a quando non fosse stato vecchio e a quel punto sarebbe tornato a casa sua, con la sua famiglia e magari una moglie e dei figli.
Strinse la coda al petto e deglutì, gli occhi spalancati dal terrore. Non voleva morire. Doveva fare ancora tante cose. Doveva ancora innamorarsi e provare tutte quelle emozioni che gli descrivevano i suoi amici. Non voleva.
Il coperchio della cassa venne sollevato e spostato e la luce artificiale filtrò dall'alto, accecando Kenjirou che chiuse di scatto gli occhi per ripararsi. Sbatté più volte le palpebre per abituarsi a quella vista e non appena si rese conto del fatto che non c'era più un coperchio a tenerlo prigioniero scattò verso l'alto ed emerse schizzando acqua da tutte le parti. Jin e Reon fecero in automatico un passo indietro per evitare gli schizzi.
Kenjirou si guardò intorno e stabilì di trovarsi nel primo piano della sottocoperta perché di fianco alla vasca si trovava una scalinata di legno che conduceva ad una botola da cui si vedeva il cielo stellato. Il castano rimase per qualche secondo ammaliato alla vista delle stelle e non sentì Jin chiamarlo. Fissò gli astri luminosi che amava così tanto vedere durante la notte, nascondendo ai propri genitori il fatto che se ne andasse da solo in superficie al buio ad orari improponibili.
«Shirabu?» Kenjirou spostò lo sguardo e guardò il comandante. Era appoggiato alla vasca con gli avambracci e gli sorrideva cordialmente. «Ecco, scusa se ti abbiamo chiuso dentro. Abbiamo dovuto sistemare un po' la stiva e siccome si è sollevata molta polvere non volevamo contaminare l'acqua.»
Kenjirou lo guardò sbattendo più volte le palpebre e per un attimo fu anche tentato dal credergli, poi si schiaffeggiò mentalmente anche solo per averlo pensato e la sua espressione tornò ostile. Jin deglutì ma non si allontanò dalla vasca.
«Siamo venuti a chiederti se hai fame. E... Uhm, ecco...» sembrava imbarazzato. «L'unico a sapere qualcosa di concreto su voi, ehm... Sirene, giusto? Ecco, quello è Semi e lui ora non c'è, quindi... Non sappiamo cosa tu possa o voglia mangiare...»
Per la seconda volta, Kenjirou rimase interdetto. Quegli umani stavano cercando di... Aiutarlo? No, scosse la testa mentalmente, di certo volevano che si ingozzasse per poi aver più carne da vendere a caro prezzo. Incrociò le braccia al petto e con l'espressione più sprezzante che riuscì a trovare sibilò acido, dando le spalle ai due: «Non ho bisogno del vostro aiuto!»
Nella stiva regnò il silenzio per una buona decina di secondi, poi Jin sospirò e si allontanò dalla vasca di legno. «Come ti pare. Se cambi idea basta che gridi. Ti lasciamo la lanterna accesa.»
Appoggiò la lanterna accesa su un tavolo e sparì oltre una delle porte che si trovavano nel lungo corridoio in fondo alla stiva. Kenjirou fissò con astio la luce e si accertò di soffiare per spegnere il fuoco prima di scaraventarla per terra e mandare il vetro in frantumi.

Nota Autrice:
Io🤝🏻pubblicare il capitolo prima dell'interrogazione di filosofia. Speriamo in bene
Eevee

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