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-Non ci pensare minimamente. Sappiamo entrambi come è andata a finire l'ultima volta.- replicò stizzito Eren, la busta della spesa fra le gambe ed il podice appoggiato alla spalliera della logora panchina di legno, il puzzo di urina dei cani che gli pungeva le narici ed il motorino verde oliva agonizzante al suolo, abbandonato su quel marciapiede da quando aveva memoria.

Sentirsi a casa, Eren avrebbe definito quella sensazione in tre scarne parole: grigio, miseria e fatica. E sí, anche il fetore  emanato dal legno della panchina intriso di urina.

-Dai, fra'. L'ultima volta è stato un mio errore, però siamo stati graziati dalla polizia che ci ha rilasciati subito!-

Il castano guardò di sottecchi l'amico seduto al suo fianco, un'occhiataccia che fu tutto tranne che eloquente, visto che Connie Springer era testardo come un asino, infatti gli rivolse un sorriso di supplica in rimando; perché ancora sperava che andando a fare i grandi "colpi", come li definiva lui, nelle case di francesi arricchiti nel pieno centro di Parigi, fosse la svolta della vita.
Poi, però, comparivano i soliti ostacoli a cui Connie non badava minimamente, a partire dalle videocamere di sorveglianza - avete mai visto un appartamento di quattrocento metri quadrati lasciato incustodito? -, fino all'intralcio maggiore, su cui il ragazzo pareva sorvolare ogni volta: nessuno di loro era una spia russa, né tantomeno un ladro con i fiocchi, con le mani guantate ed i piedi di velluto.
Già erano stati segnalati due volte dalla polizia locale, ed erano stati avvisati che alla terza sarebbero stati gettati in prigione senza se e senza ma.

E Connie era lí, per l'ennesima volta a ripetere che quella fosse l'occasione giusta per salvare la pelle al terzetto; ovviamente, notando lo scetticismo sia di Eren, che di Jean - il che lo sorprendeva, visto quanto lo assecondasse normalmente -, aveva iniziato ad elencare tutti i vantaggi che quella rapina infallibile avrebbe fruttato loro.

-Senti amico, due volte in gabbia ci bastano e avanzano. Se mia mamma venisse a sapere che ho trascorso un'altra notte in cella per una bravata del cazzo, mi asfalterebbe, letteralmente.- lo ammonì Jean amareggiato, una mano sospesa a mezz'aria per enfatizzare il concetto. 

L'altro sbuffò, tediato dalla sfiducia che i suoi compagni di infanzia dimostravano nei suoi confronti.
-E' il colpo del secolo e ce lo stiamo facendo sfuggire così, assurdo.-

Prese il cellulare beccato agli angoli fra le mani, ed iniziò a digitare freneticamente qualcosa sullo schermo spaccato, catturando l'attenzione dei due membri della banda.

-Che fai?- domandò Eren, lasciando la busta sottile della spesa sulla panchina e facendo scontrare le spalle, avvicinandosi al volto di Connie per osservare ciò che stava scrivendo.

-Ah, ora ti interessa? Sto ovviamente dicendo a Reiner di togliere mano dalla questione.-

-Reiner? Quel Reiner? Reiner Braun?- squittì euforico Jean, il casco che oscillava in aria seguendo i gesti pilotati dall'eccitazione. 

Eren roteò gli occhi al cielo, scuotendo forte la testa in segno di diniego.
-Non iniziare, Jean. Quello è un-

-Mago della truffa!- esclamò il biondo con l'indice puntato al cielo, artigliando poi le spalle di Connie e scuotendolo con insistenza, un sorriso che gli lambiva il volto da parte a parte ed il capo calvo dell'altro che oscillava come un bambolotto.

-Andiamo, Jaeger!-
Ed ecco che iniziava ad appellarsi a lui con il cognome, una vecchia abitudine che manifestava la serietà con cui stava prendendo in considerazione quella missione suicida.

Vedendo che il compagno di scorribande fosse ricalcitrante all'idea, mentre afferrava la busta bianca e si issava in piedi sulla panchina per saltare e dirigersi verso casa, Jean gli posò una mano sul petto aperta a ventaglio, assicurandosi di convincerlo prima di lasciare che si allontanasse ed assottigliando gli occhi in uno sguardo malizioso ed astuto - anche se non sortì alcun tipo di effetto su Eren, se non irritarlo maggiormente.

Di certo non poteva permettersi di rischiare tanto, non dopo ciò che era accaduto nei mesi precedenti.

Non aveva più la voglia, né la forza, di tornare a casa stanco per la notte trascorsa insonne in cella, insozzato e con l'aria colpevole che gli gravava sulle spalle, mentre sua madre lo scrutava con la delusione nelle brillanti iridi ambrate e le braccia strette al petto, e la piccola Mikasa gli correva incontro per abbracciarlo, ignorando per l'ennesima volta la ragione per cui non aveva dormito con loro in nome di un affetto fraterno che avrebbe valicato ogni problematica.

Ne aveva abbastanza di quegli scenari pietosi da scadenti film polizieschi di cui lui era protagonista, affiancato da due individui dai quali si lasciava puntualmente persuadere, vaneggiando di ottenere i soldi facili, improvvisandosi ladro e rispecchiando in tutto e per tutto l'etichetta che veniva affibbiata a tipi come loro, che vivevano nella sudicia periferia parigina.

-Non se ne parla.- asserì mortalmente serio, scendendo dalla panchina con un balzo ed incamminandosi verso l'appartamento.

Jean, alle sue spalle, spalancò le braccia, esterrefatto per quella dichiarazione, mentre Connie scuoteva la testa contrariato, come se avesse ricevuto il peggiore dei torti dal migliore amico.

-Te ne pentirai!-

-Dimmelo da dietro le sbarre!- 

Te ne pentirai, gli aveva ribadito Jean nel corso delle settimane, come un maledetto disco rotto e la testina fuori giro.
Certo, certo che se ne stava pentendo.

Connie incespicò nei suoi stessi piedi mentre salivano silenziosamente, provocando una lunga eco che si amplificó nella tromba delle scale di marmo, lustrate alla perfezione e di una tonalità talmente bianca da risultare accecante. 

-Stai attento, cazzo!- ringhiò gutturalmente Eren, la sudorazione in aumento che gli incollava la maglietta di cotone a schiena e ascelle e le pupille che ghiacciavano Connie sul posto, che annuì piano in rimando.

Ovviamente Jean, dopo averlo tartassato ogni singolo giorno a seguito della proposta come il più fastidioso dei tarli, aveva gentilmente stabilito di fare da vedetta sotto il palazzo nell' arrugginita Punto di sua madre, grondando altruismo dal sorriso sfacciato che aveva rivolto ai due nell'auto prima di gettarli in trincea.

Strinse le bretelle saldamente, come se fossero l'unico appiglio rimasto per non lasciarsi prendere dal panico più assoluto, e sgattaiolò con il fiato sospeso ed i sensi in all'erta all'ultimo piano, mentre Eren si domandava come diamine avrebbero fatto a trasportare silenziosamente il bottino per ben sei rampe di scale.

Non ebbe il tempo di meditare oltre su quel pensiero, che si ritrovò di fronte alla porta d'ebano blindata; si voltò lentamente sollevando il mento ed assottigliando gli occhi, puntando l'angolo opposto del soffitto su cui era affissata una telecamerina bianca, piccola come una mosca.

Artigliò con il palmo tremante il passamontagna, tirandolo verso il basso per assicurarsi che il suo volto non fosse visibile, il cuore che sbatteva contro la gabbia toracica ed il respiro affannoso. 

-Tu dici che Reiner è riuscito a disattivare le telecamere e a sbloccare la porta?- gli chiese con voce tremula Connie, le lacrime agli occhi per la gravità di quella follia di cui si stava rendendo conto solo in quel momento. 

Il castano ingoiò a vuoto un paio di volte, nel vano tentativo di inumidire la gola asciutta ed umettare le labbra secche per la tensione pungente.

-Spero per quel figlio di puttana di sí, sennò si dimenticherà anche il suo nome quando saremo fuori di prigione.-

La risposta di certo non rincuorò Connie, il quale ingoiò a sua volta rumorosamente, mentre l'altro afferrava il gelido pomello di ottone con la mano guantata ed il respiro in sospensione, le iridi ristrette ed i polmoni paralizzati.

Roteò lentamente il polso e nella testa si figurò tutto ciò che sarebbe potuto accadere se fosse finita nel peggiore dei modi; e, proprio mentre la sua mente stava delirando in dimensioni inesplorate, un rumore sordo gli esplose nel cervello come uno sparo, rimanendo impietrito in quella posizione anomala.

-Fra', ci sei? Si è aperta!-

Eren impiegò diversi secondi per metabolizzare ciò che era accaduto; forse per mera fortuna, o forse perché veramente quello si sarebbe rivelato il colpo della storia, il piano stava realmente funzionando.

Spalancò la porta e la superò, e fin da subito adocchiò il primo oggetto da nascondere nello zaino scuro: un paio di AirPods gelosamente custodite nel contenitore di plastica trasparente ed un orologio placcato d'argento su un mobiletto di vetro ricurvo lí vicino.

-Fai veloce.- ammonì Connie, senza voltarsi per assicurarsi che avesse ben recepito ciò che gli aveva suggerito, visto la trepidazione di cui era ebbro l'altro.

Ma non poteva di certo denigrarlo per quello, visto che Eren non era molto lontano da come si sentisse l'amico: la testa gli vorticava incontrollatamente mentre percorreva il lindo corridoio ad ampie falcate, la sensazione di essere scrutato dagli occhi delle persone ritratte nei quadri che lo stava facendo boccheggiare, preda dell'ansia più feroce.

Non poteva farsi venire un attacco di panico in quel momento, non si sarebbe mai perdonato un ipotetico fallimento di quella missione per colpa dell'ansia: doveva assumersi le responsabilità che avrebbe comportato quel gesto, nel bene o nel male. 

Così, soffocato dall'angoscia e con la mente annegata in un profondo stato confusionale, continuava a camminare per le stanze, inserendo nello zaino tutto ciò che avrebbe potuto fruttargli qualcosa alla vendita del mercato nero.

E nell'istante in cui, giunto nella camera della presunta figlia di quei arricchiti commercianti, afferrò una graziosa bambola dai capelli rossi di silicone per regalarla a Mikasa - tanto la sua assenza non avrebbe di certo intristito la bambina, vista la quantità immane di giocattoli presente nella cameretta rosa -, sentì il lontano suono di una sirena accrescere di pari passo all'aumentare del panico nel suo corpo.

Così lasciò il balocco e si catapultò fuori dalla camera, cercando di compiere a ritroso le sale che aveva attraversato, nel vano tentativo di ritrovare il corridoio contornato da quadri in prossimità dell'ingresso; ma ogni stanza sembrava essere identica alle altre, un labirinto senza fine di cui Eren, che si faceva luce solo con il flebile raggio pallido emesso dalla torcia, non riusciva a risalire all'uscita, l'aria che non fluiva nei polmoni contratti e le lacrime agli occhi per il terrore.

Poi, un oggetto indistinguibile lo colpì secco e deciso alla nuca, arrestando la sua corsa per sempre.

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