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Epilogo - Bastardo

Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?

[Giacomo Leopardi, Canto notturno
di un pastore errante dell'Asia]



Nonostante agli Argentsang piacesse sentirsi lodare per il loro sangue francese puro come l'acqua del canale Princewater, mai uno di loro aveva osato rinnegare le proprie origini scandinave. E così se aveste varcato il cancello di casa Argentsang, l'imponente magione che dominava il colle Thrushcross appena fuori dal confine nordorientale di Alicante, avreste visto appesi al porticato tre amuleti di buona sorte, una grossa claymore scolpita nel vecchio e massiccio legno della porta, un elmo vichingo infisso nella parete esterna tra il primo e il secondo piano e, alla vostra destra, una pianta di gigli sempre rigogliosi e profumati dietro il vetro di una finestra. Se poi foste entrati, supponendo che la famiglia avesse avuto il buon cuore di farvi entrare – cosa abbastanza rara, specie in quel periodo e ancor di più in quel momento nello specifico – l'interno vi sarebbe però apparso come quello di qualsiasi altra dimora lì a Idris, con l'unica differenza, com'è ovvio, dei suoi occupanti.

Vi avrebbe accolto René Argentsang, gioviale uomo nel fiore degli anni, sposato con una donna che sapeva di non meritarlo; alle sue spalle avreste scorto suo fratello Jérémy, sposato invece con una donna che sapeva di non meritare. René vi avrebbe condotto in cucina per offrirvi un drink e un piattino di macarons, gli ultimi rimasti, vecchi e stantii, e con una certa probabilità lì avreste incrociato sua cognata, Euphrasie Argentsang nata Dieudonné, che non avrebbe avuto le mani infilate nell'impasto dei croissant da preparare per la mattina successiva, perché la mattina successiva in quella casa non ci sarebbe stato più nessuno. Spostandovi verso il salotto, posto che aveste avuto voglia non di rilassarvi sui comodissimi divani ad angolo in pelle ma piuttosto di ammirarli, avreste trovato la scura Candice Saintcroix in Argentsang, detta L'Avvoltoio, a intrattenervi, tra la chiusura di uno scatolone e l'apertura di un altro, in civettuole chiacchiere da salone di bellezza, con l'attraente figlia Corinne a farle compagnia come di norma. Scostato, in disparte, sprofondato nella poltrona seminascosta dal leggero tendaggio in organza e con il naso infilato tra le pagine di un tomo di anatomia, avreste intravisto il ricordo di Francis Argentsang, la cui forma in carne e ossa era ora segregata dietro le sbarre di una prigione forse troppo poco severa.

E infine, se aveste avuto il coraggio di lasciare quella tanto idilliaca quanto fasulla immagine di quieta rassegnazione al futuro e vi foste addentrati nel cupo mondo della zona notte, al di sopra della maestosa scalinata dai gradini in marmo, il vostro sguardo sarebbe stato attirato da una stanza in particolare, l'unica con la porta chiusa, con una runa di sicurezza tracciata dall'Inquisitore sulla serratura, e l'unica a ospitare una persona, in quel momento. Qualora aveste scoperto ancora un briciolo di audacia, nei recessi della vostra anima, e aveste fatto cigolare i cardini nel modo più silenzioso possibile per evitare di farvi sentire, avreste avuto il piacere di incontrare Jean, il più promettente rampollo degli Argentsang, sebbene non una singola goccia di sangue Argentsang scorresse nelle sue vene: era un figlio bastardo, il giovane e triste Jean, e come tutti i figli bastardi era amato e odiato.

Così come al tempo in cui si ambienta la storia che vi ho raccontato, per come si sono svolti i fatti nella realtà di quest'universo e non per come si sono svolti nella fantasia di chi è venuto prima di me, Jean Argentsang stava dormendo.

Così come al tempo in cui si ambienta la storia che vi ho raccontato, narrata dalla mia lingua e non dalle lingue dei tanti che volevano male a lui e a Mattia Nardone e a Lorianne Herondale e a chi questi eventi li ha vissuti, Jean Argentsang stava sognando.

~ • ~

Sognava.

Era il suo miglior incubo. Il suo miglior sogno.

Era tutto manette allentate e promesse mantenute e bicchieri d'acqua fresca e una doccia calda e il sorriso compiaciuto di Mattia Nardone. E c'era Daniel Cartwright che sembrava aver voglia di morire, e Lorianne che pareva voler fare lo stesso, e René, René, René che l'aveva abbracciato come se fosse stato davvero suo figlio.

Il sogno cambiava e ciak, ciak, ciak, facevano le sue scarpe dalla suola in gomma tra le pozzanghere di neve sciolta sul sentiero.

La fibbia della cintura gli spingeva il bottone dei pantaloni contro l'addome, ma non si arrischiava a togliere le mani dalle tasche foderate di pelliccia del giaccone per allentarsela e il dolore non gli importava, non in quel momento, non quando nei mesi passati aveva sopportato di peggio. Nel sogno erano le diciotto del due gennaio e la luce era scarsa, eppure Jean, abituato all'oscurità della cella, ci vedeva benissimo.

In pochi sapevano che quella sera sarebbe uscito di prigione. La sua famiglia, le guardie che avevano ricevuto l'ordine di sorvegliarlo, il Console, l'Inquisitore, il Ministro e Mattia Nardone. Mattia non era a Idris, però: era tornato in Italia per le vacanze di Natale e Jean l'avrebbe incontrato soltanto la mattina seguente. Al suo posto c'era Lorianne.

Lorianne. Jean teneva la testa bassa per ripararsi dalle prime gocce di pioggia ed evitare di farsi riconoscere, ma riusciva comunque a sentirsi addosso lo sguardo di fuoco della ragazza. Anche lei, vestita di nero da capo a piedi, si confondeva con le ombre: doveva aver avuto la stessa sua intenzione di non farsi vedere.

No, non le voleva più bene.

L'aveva amata? Sì. Ne era sicuro.

Svoltò l'angolo e si fermò di fronte a una porta chiusa. La casa era illuminata soltanto da fioche lampade di stregaluce; le tende alle finestre erano tirate. Bussò e gli aprì René, che lo tirò oltre la soglia strattonandolo per un braccio prima di gettarglisi al collo e stringerlo a sé come desiderava fare da mesi. 

Jean rimase fermo. Non provava quella sensazione da un tempo troppo lungo perché potesse ricordarsi come reagire.

Non appena René lo lasciò si tolse scarpe e cappotto e si avviò su per la scalinata. Il Jean che stava dormendo vide il Jean del sogno spogliarsi, entrare nel bagno, infilarsi sotto il getto bollente della doccia e restarci per quelli che avrebbero potuto essere dieci o trenta minuti. Il Jean del sogno poi si rivestì, andò in camera sua, che in precedenza Doriemne aveva provveduto a riassettare dopo settimane e settimane di inutilizzo, e si buttò sul letto. Solo lì, sdraiato sul materasso morbido, riuscì a realizzarlo: era libero.

Sì, era libero, libero dalla prigione, libero dai maltrattamenti dei suoi carcerieri, libero dal giogo dei suoi pensieri. Sarebbe stato legato a Mattia Nardone, certo, ma essere legato a Mattia Nardone per lui era libertà.

Mattia l'avrebbe portato con sé in Italia e lui avrebbe fatto ciò che doveva fare. Il tempo, poi, avrebbe portato i frutti.

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