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2.

What a mess, maid's gonna fix this later



1 Dicembre 2020


Il vino scendeva lento e freddo nel calice, i capelli che fino a poco tempo prima cadevano sul gancio delle reggiseno erano stati raccolti in una coda in modo da non rovinare la piega e il reggiseno stava in qualche angolo del bagno dove la vasca l'aveva cullata per quasi due ore.

Quando la pelle si era raggrinzita, si era decisa ad uscire, bagnata e nuda, aveva riempito d'acqua il pavimento del bagno ma non se ne curava, qualche donna delle pulizie avrebbe ripulito al suo posto il giorno dopo e lei avrebbe usato il secondo bagno per prepararsi.

Si era asciutta nel morbido asciugamano pregiato che profumava di lavanda e poi, senza che ancora avesse indossato alcun vestito, si era posta davanti alla vetrata del suo salotto che le permetteva di guardare su tutta Manhattan, forse tutta New York.

Qualcuno avrebbe potuto guardarla in quel modo, come mamma l'aveva fatta, ma lei si sentiva così bene mentre il vino freddo scorreva nella sua gola e l'aria gelida si faceva strada sulla sua pelle.

Isolde, quando si era trasferita a New York, aveva preteso dal padre uno degli attici più belli della città ed era stata così dettagliata che Tristan ne prese uno totalmente nuovo e assunse una squadra di architetti e arredatori per regalare a sua figlia la miglior dimora possibile.

Il nome era stato scelto due anni dopo, quando Chris le aveva chiesto di sposarla e infatti quell'attico si chiamava Halo Stone ed era lo stesso nome dell'anello Tiffany con cui l'uomo le aveva fatto la proposta.

Era innegabile quanto gusto aveva avuto e quello era l'unico ricordo del matrimonio e di lui che, per ovvie ragioni, aveva tenuto con sé.

Non era il valore monetario il motivo per cui era ancora custodito in cassaforte, Isolde aveva gioielli molto più costosi -aveva un tennis da un milione di dollari- ma quell'anello non era solo costoso, era proprio bello, fine ed elegante e Chris le aveva detto che lo aveva comprato pensando a lei, quello era il modo in cui la vedeva.

Isolde si era sentita al settimo cielo. Davvero Chris la amava così tanto? La vedeva così bella?

Insomma, abbiamo già detto che quei due si erano amati davvero molto.

La donna continuava a rimuginare su quel momento e si alzò dal divano in pelle color panna solo per recarsi nella sua cabina armadio dove, dietro alla sezione di abiti Dior, era nascosta la sua cassaforte. Lì prese il cofanetto color Tiffany e indossò l'anello.

Nella stessa scatola era tenuta la fede nuziale e la guardò per qualche istante, come se sentisse la necessità di indossarla di nuovo. Resistette, mise l'anello con il diamante a forma di cuore sul suo indice sinistro così da non dargli lo stesso valore che l'anulare sinistro poteva dargli, e lo mantenne lì.

Lo tenne mentre si rivestiva.

Lo tenne mentre mangiava un pezzo di filetto che la sua governante le doveva aver lasciato pronto.

Lo tenne mentre guardava le repliche di How I Met Your Mother.

E dormì continuando ad indossarlo.

Quando l'odiosa sveglia risuonò per la sua camera da letto, Isolde aprì lentamente gli occhi e scostò di poco il piumone mentre si stropicciava il viso.

Ormai non erano più i raggi del sole ad invadere la stanza, dicembre era iniziato quello stesso giorno e le aveva dato un senso di malinconia.

In realtà erano anni che Isolde era malinconica, l'arrivo di dicembre aveva solo acuito il sentimento.

Isolde a ventidue anni aveva adorato laurearsi in ingegneria biomedica, aveva adorato fare tirocinio nella compagnia che suo nonno aveva fondato e l'aveva fatta nascere così benestante, aveva adorato la sua famiglia con cui viveva nella grande villa Howard, aveva adorato viaggiare per il mondo, aveva adorato conoscere Chris dieci anni prima, trasferirsi a Los Angeles da lui e sposarlo. Aveva persino adorato tornare a New York perché tanto lui aveva detto che l'avrebbe seguita e se era con Chris avrebbe potuto vivere anche in Antartide.

Insomma la sua vita dai venti ai trent'anni non aveva avuto un singolo intoppo, era andata meglio di come poteva andare, faceva il lavoro dei suoi sogni ma suo padre se ne prendeva le responsabilità lasciandole la parte più bella, quella vera.

Isolde di quello in cui si era laureata, del lavoro dei suoi sogni, faceva ben poco e ormai si ritrovava a fare solo triste lavoro di amministrazione da presidente quale era.

Diciamo che si sentiva come se nel giro di dieci anni avesse mandato tutto all'aria nonostante fosse ancora giovane e il suo conto fosse in costante aumento.

Isolde era passata dalla calda Los Angeles alla fredda e frenetica New York, era passata da costruire protesi e vedere il sorriso dei pazienti a stare chiusa otto ore in un ufficio ed essere sempre sommersa dal lavoro, era passata dal tornare a casa dai suoi e dalle sue tre sorelle fino a sentirle una volta al mese –o forse più, Dio non ricordava nemmeno l'ultima volta che aveva sentito sua sorella Adele-.

Era passata dal viaggiare a non farlo per due anni, da fare festa con le amiche a non averne, da tornare a casa e fare l'amore a tornare e trovare la casa spenta, silenziosa ed esattamente come l'aveva lasciata la mattina, al massimo più pulita grazie a quella donna delle pulizie.

La sue governante adesso doveva chiamarsi Candace, non lo sapeva, le cambiava ogni mese per non rischiare che scoprissero posti importanti dato che lavoravano quando lei non era in casa, Isolde non si fidava neanche delle sue sorelle quando indossavano i suoi pregiati abiti, figurarsi se avesse tenuto un'estranea fissa in casa sua.

Comunque il suo IPhone segnava le sette quando si alzò dal letto e andò nel suo amato bagno, non si ricordò di quello che aveva combinato la sera prima ed è per questo che scivolò e cadde col culo sul marmo bagnato.

<<Che cazzo di casino. E che buongiorno del cazzo.>> Parlò a se stessa e storse il muso quando si rese conto che avrebbe dovuto usare l'altro bagno. Era sempre bellissimo, però era più per gli ospiti e non lo sentiva personale quanto l'altro.

Si preparò in fretta, forse mezz'ora e chiamò l'ascensore dove il ragioniere del secondo piano aveva prenotato.

<<Buongiorno.>> Salutò lui. Lei lo guardò da dietro gli occhiali da sole –li portava sempre, anche se non c'era alcun raggio di luce nel cielo, erano uno status- e ci mise qualche momento per decidere di essere educata e ricambiare.

Le porte si aprirono e salutò persino il portiere, seppure velocemente, per andare in garage e prendere la sua Rolls Royce, in quel momento si buttò nel traffico di Manhattan.

L'IPhone segnava che Thomas Jewith, un ingegnere che lavorava per lei, la stava chiamando e rispose senza mettere il vivavoce tanto il Bluetooth lo aveva connesso prima.

<<Isolde.>>

<<Thomas, che c'è?>>

<<Non c'è la tua fottuta segretaria qui e una mandria di ragazzini vuole entrare negli uffici dicendo di aver un appuntamento con te.>>

<<Ah sì, devo fare i colloqui per un nuovo stagista, ho licenziato Maggie.>>

<<Perché? Era brava.>>

<<Ti devo delle spiegazioni? Davvero Thomas?>>

<<Senti non me ne frega un cazzo, dovevi avvisarci, le receptionist non sanno che fare.>>

<<Trovate un modo, non voglio casino al diciottesimo piano.>>

<<C'è già il casino al diciottesimo piano.>>

<<Non entro fino a quando non mi dite che avete risolto.>>

<<Si risolverà solo quando farai questi cazzo di colloqui quindi muoviti, ne sono tanti.>>

Isolde sbuffò e chiuse senza rispondere, odiava fare i colloqui e quasi voleva richiamare Maggie –che poi tanto male non era- ma mica si poteva rimangiare la parola, ormai era una questione di orgoglio.

Avrebbe comunque messo una buona parola in qualche altra azienda dove Maggie avrebbe fatto richiesta perché comunque il suo lavoro l'aveva fatto, anche discretamente.

Parcheggiò l'auto al piano zero e portò gli occhiali da sole sul capo. Lisciò il suo tailleur Dior lilla ed entro negli uffici.

<<Finalmente! Vuoi una mano?>> Thomas le andò incontro e lei annuì debolmente, lui aveva un caffè in mano e glielo porse, era per questo che non gli aveva ancora sbraitato contro.

Il motivo per il quale lui aveva tutta questa confidenza con lei era che avevano frequentato le scuole superiori ed il college insieme in Florida, dove Isolde aveva vissuto con la sua famiglia. Fu allora che diventò uno dei suoi amici più stretti, forse ormai era l'unico.

<<Io non posso trattenermi oltre l'orario come dovrai fare tu, Savannah a casa ha bisogno di me.>> Savannah era la moglie di Thomas, incinta di otto mesi di una bambina. Si erano conosciuti quando lui era andato a fare volontariato in Guinea e l'aveva portata negli Stati Uniti, era stato un colpo di fulmine.

Savannah era una vera e propria bellezza esotica, una Venere Nera ma non le aveva mai fatto complimenti, Isolde era molto narcisista, soprattutto sul suo aspetto fisico e non si sentiva seconda a nessuno.

<<Quando nascerà?>>

<<Tra qualche settimana ti abbandonerò.>> Isolde ruotò gli occhi, non tanto per l'assenza del ragazzo quanto per il fatto che sarebbe andato in paternità e avrebbe dovuto assumere anche lì un sostituto.

Ci avrebbe dovuto pensare bene perché Thomas lavorava a stretto contatto con lei e così avrebbe fatto anche l'idiota che ci sarebbe stato al suo posto.

Le veniva già di mettersi le mani nei capelli ed iniziare a sbraitare ma si limitò semplicemente ad accendersi una sigaretta per i corridoi pieni del diciottesimo piano.

<<Non puoi fumare qui.>>

<<Faccio il cazzo che voglio.>> Rispose all'amico.

<<Ma aspetta.>> Le prese la mano tra le sue mani e la rigirò guardandola attentamente, lo fece anche Isolde e- oh merda, si era dimenticata di togliere l'anelo quella mattina e infatti Thomas la guardava con occhi strani come se volesse capire cosa celavano.

<<Perché porti l'anello di fidanzamento?>>

<<L'ho messo ieri, ripensavo a quanto fosse bello e ho dimenticato di toglierlo, tutto qui.>>

<<Hai ripensato al tuo anello di fidanzamento? Al tuo matrimonio? Allora credo di dover ringraziare tu non sia sbronza da fare schifo.>>

Che era in effetti ciò che Isolde faceva più spesso quando si rendeva conto che la sua vita privata stava andando allo sfascio, beveva fino a dimenticare persino quante dita aveva nella mano. Comunque ignorò il commento amaro dell'uomo e si rivolse alla fila di candidati.

<<Vi avverto, i colloqui si terranno solo oggi quindi tutti quelli che non ascolterò possono mandare curriculum altrove. Non conosco ancora il vostro ordine e vi chiamerà il dottor Jewith, siate ordinati e cercate di non farmi venire una cazzo di emicrania, grazie a tutti.>>

Doveva farsi riconoscere, doveva far rendere subito conto a quegli stronzetti cosa li aspettava lavorando con lei, se avessero rinunciato ancor prima di entrare le avrebbero risparmiato un bel po' di lavoro quel giorno.

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