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Capitolo 1

Aprì gli occhi. La luce, quasi accecante, glieli fece socchiudere per potersi abituare ad essa. Si portò una mano alla testa colta improvvisamente da una forte emicrania. Le faceva male la schiena, come se avesse dormito in una posizione scomoda per molto tempo. Tentò di alzarzi, ma si sentiva quasi bloccata. Provò a muovere le gambe: prima i piedi, poi piegò le ginocchia. Riusciva a muoversi quasi liberamente. Si guardò attorno spaventata. La stanza era bianca, immacolata, la luce rimbalzava su ogni parete, e così si intensificava, ma ormai i suoi occhi si era abituati ad essa.
Girò lentamente la testa - per paura che le venisse male anche al collo - prima a destra, poi a sinistra.
Ciascun lato della stanza era privo di ogni tipo di decorazione. Non riusciva a vedere dietro di sé ma suppose che anche quel lato fosse identico agli altri. Provò di nuovo ad alzarsi, provocando uno schiocco alla schiena indolenzita. Gemette infastidita, e con un ultimo sforzo riuscì ad alzarsi.
Si guardò di nuovo intorno. Notò che era seduta su una specie di lettino (bianco anch'esso), senza cuscino coperte o materasso. Il che non la sorprese visto il mal di schiena.
La luce proveniva da una lampadina situata sopra la sua testa. Si sgranchì le gambe.
Che posto era quello?
Una dolorosa fitta attraversò la sua testa. Le sembrava che stesse per scoppiare.
Strinse i denti e si alzò.
Quando cercò di fare un passo la gamba la soresse a malapena. Un passo alla volta, si disse. Si appoggiò al lettino, e dopo un paio di tentativi camminava perfettamente. Girò su se stessa per osservare meglio la stanza quadrata in cui era rinchiusa, poi si diresse verso la porta. Guardò dal vetro opaco. Fuori tutto era nero e grigio, in netto contrasto con la stanzina dove si trovava. Provò ad abbassare la maniglia ma, quando fece per afferrarla, si accorse che non c'era niente. La porta si apriva solo da fuori. Sbuffò per poi accovacciarsi accanto alla porta per riflettere un attimo.
Rifletti, rifletti...
Poi si accorse di non ricordarsi assolutamente niente. Il vuoto totale.
Come si chiamava? Quanti anni aveva?
Da dove veniva? Perché era lì?
Il panico ebbe la meglio su di lei e, prendendosi la testa fra le mani, urlò. La sua voce tremava, e si poteva chiaramente avvertire la sua paura trapelare dal suo tono.
Respirò ed espirò a lungo fino a calmarsi. Voleva uscire e di certo piangersi addosso non sarebbe servito a niente. Scattò in piedi, con il battito che aumentava ad ogni passo. Iniziò ad urlare e a battere la mano sul vetro nella speranza di essere sentita o vista da qualcuno.
«Fatemi uscire!» si sorprese di quanto acuta risultò la sua voce.
«Vi prego!»Provò di nuovo dopo qualche secondo di silenzio.
«Ehi!»gridò più forte.
Il risultato non variò. Il silenzio che avvolgeva la stanza rimase invariato.
Si accasciò a terra e chiuse gli occhi. Perché nessuno veniva ad aiutarla?
Quel bianco le stava dando alla testa.
Non si ricordava niente di sé, ed era chiusa in una stanza senza cibo, ne acqua. La testa le faceva ancora male.
Cosa avrebbe fatto?
Sospirò. «C'è nessuno?» sussurrò appena.
Ma la risposta era chiara: era sola.
Tenne gli occhi chiusi per altri dieci minuti, stringendo i denti ad ogni fitta, cercando la posizione meno dolorosa per la sua povera schiena, combattendo contro la paura, la fame e la sete. Stringeva in un pugno la sua maglietta verde.
All'undicesimo minuto si addormentò.
Quando si svegliò non sapeva quanto tempo fosse passato da quando si era addormentata, un'ora? Due? Non le importava più di tanto. La prima cosa di cui si accorse era che l'emicrania era passata, ma in compenso i crampi erano aumentati e le stavano mangiando lo stomaco. Aveva fame.
Si strusciò gli occhi con il dorso della mano e sbadigliò. La prima cosa che fece fu quella di guardare se qualcosa fosse cambiato, e se magari le avessero portato del cibo.
Ma quello che trovò fu niente: niente di niente.
«Cazzo.»mormorò frustrata. L'avrebbero lasciata morire di fame? Era quello il loro piano? Quanto tempo sarebbe dovuta stare là dentro?
Si annoiava. Sorrise appena.
Quello era l'ultimo dei suoi pensieri.
Ora doveva uscire e procurarsi qualcosa da mangiare. Non doveva pensare al cibo, o avrebbe avuto più fame. Aveva anche sete e quello era un problema maggiore. Come avrebbe fatto senza acqua? Respirò per cercare di mantenere la calma. Sarebbe uscita da lì, e lo avrebbe fatto viva. Se lo sentiva.
Decise di alzarsi. Non sarebbe uscita da quella trappola stando a sedere. Appoggiò la mano destra sul muro e iniziò a camminare per il perimetro della stanza, nella speranza di trovare qualcosa. Ma la superficie era piatta, nessuno rientranza e nessun rilievo. Si rimise a sedere, sbuffò, poi si portò le ginocchia al petto e ci appoggiò la testa.
«Ci dev'essere un modo.»mormorò. «Ma quale?»
Stese le gambe e iniziò a battere, piano, la testa contro il muro, quasi a voler tirare qualche idea dal suo cervello. Si fermò, con le mani si diede una spinta per poter tirarsi su. Si diresse verso il lettino e ci si mise a sedere, dondolando leggermente le gambe. Smise. Andò verso la porta, la osservò per qualche secondo, incrociò le braccia al petto. Strizzò gli occhi, corrugò la fronte. Era arrabbiata, frustrata e voleva andarsene. Tirò un calcio alla porta, usando tutta la forza che aveva. Fu un atto quasi istintivo.
«Fatemi uscire brutti idioti!» Gridò tirando un altro calcio. Urlò colma di rabbia, si mise le mani nei capelli e s'accasciò a terra.
Si mise a contare, mentre il piede le pulsava per la botta.
Non sapeva cosa avrebbe fatto, se da lì a qualche minuto sarebbe uscita, se sarebbe rimasta lì giorni, oppure se sarebbe sopravvissuta.
Avrebbe potuto anche perdere il senno, isolata da tutto e tutti.
Uno, due, tre...
Arrivò a sessanta e con le dita prese il conto. Un minuto.
Ricominciò da capo: uno, due, tre, quattro... Due dita alzate.
Continuò finché non ebbe tutte le dita di entrambe le mani alzate. Dieci minuti. A lei sembravano trenta. Abbassò tutte le dita e riattaccò da capo.
«Uno!»Disse ad alta voce, per sentire qualcosa, perché le sue orecchie non potevano più sopportare quel silenzio.
Il silenzio faceva più rumore della sua voce. Quando arrivò a 1268, qualcosa cambiò. La lampadina che si trovava sul lettino iniziò a illuminarsi ad intermittenza, prima lentamente poi sempre più forte, finché non si spense. Non riusciva a vedere niente, abituata alla luce di prima. Si mise carponi e gattonò fino a un qualsiasi lato della piccola stanza quadrata.
Si sdraiò per terra e chiuse gli occhi. Non sapeva che ora fosse, ma qualcosa le diceva che era ora di dormire.
Aveva bisogno di dormire comunque e senza quella stupida luce sarebbe stato più facile.
Il suo stomaco brontolò, si portò la mano sulla pancia con una smorfia sul viso.
Aveva la bocca asciutta, doveva trovare dell'acqua o non ce l'avrebbe mai fatta.
Strizzò più forte gli occhi e si costrinse a scacciare quei pensieri.
Era lì da non più di cinque ore. Doveva resistere.
Dormi, dormi, dormi, pensava girandosi sul pavimento per cercare una posizione comoda. Poi si addormentò, sussurando un ultimo: Dormi.

Il pomeriggio del giorno seguente, la porta si aprì.

Quando accadde era in uno stato di dormiveglia profondo. Teneva lo zigomo schiacciato contro il gelido pavimento, i capelli di una pazza e la saliva che le colava dalla bocca. Si asciugò disgustata con la manica della maglietta. Le dava abbastanza noia, ma non aveva fazzoletti o quant'altro. Sentì delle voci, ma pensò che fosse la sua immaginazione.
Forse stava veramente impazzendo.
Tenne gli occhi chiusi, sperando di dormire ancora, o di restare in quello stato di coscienza - incoscienza un altro poco, così da far passare il tempo più in fretta.
Le voci si intensificavano, seguite dal rumore passi.
Le ignorò, finché esse erano così vicine da permetterle di capire che erano vere e non frutto della sua mente. Non si alzò. Preferì, aspettare, non aveva più voglia di gridare o di tirare calci.
Distinse due voci: la prima era seria, ma allo stesso tempo spensierata, sembrava che fosse un ragazzino a parlare. La seconda era più roca, un adulto magari?
Aprì un occhio, e ascoltò la loro conversazione. Cercò di cogliere più informazioni possibili dalle poche parole che riusciva a comprendere.
«Stanno.. controlli... frequenti... non vogliamo morti» disse la prima voce con fare rassegnato. La seconda voce aspettò qualche secondo prima di parlare, come se stesse pensando a come rispondere.
«Dovrebbe impiantare... dispositivi... per cibo...» disse infine.
Più le voci si avvicinavano più lei distingueva  quello che dicevano.
«Non ho molta voglia di andare ogni tre giorni in questa parte fuori dall'orario di accensione della luci.»
La prima voce rise.«Non avrai mica paura? Grande e grosso come sei?»Lo schernì.
Ormai erano giunti davanti alla porta, riusciva a sentirli chiaramente, come se fossero lì accanto a lei.
Era finito l'isolamento?
Finalmente sarebbe uscita.
Avrebbe mangiato e bevuto.
La cosa le risultava allettante.
Riuscì a svegliarsi da quello stato di dormiveglia e si mise all'erta. Occhi chiusi e al momento giusto sarebbe scappata.
Al momento giusto.
La prima voce parlò: «Secondo te ci sarà qualcun'altro là dentro?» chiese alla seconda voce.
«Spero di no.» disse con far ovvio.
Tanto meglio così, me ne andrò in ogni caso, pensò.
Sentì un piccolo 'click', segno che la porta era stata aperta.
Sentì uno sbuffo seguito da: «Ryan c'è una nuova ragazza.»
Ryan, che doveva essere la seconda voce, rispose con: «Vuoi una mano?»
Sentì i passi della prima voce avvicinarsi a lei, poteva chiaramente sentirlo accanto a lei. Usò tutta la sua rimanente energia per non farsi scoprire.
«No, non serve. Sta.. sta dormendo.»Affermò prima di allontanarsi da lei.
«Chiamo James.» disse a Ryan.
«Jonas!» esclamò questo. «Ma sei scemo o cosa? James ci fa fuori se lo disturbiamo ancora.»
Decise di aprire un occhio per analizzare la scena: Ryan e Jonas si trovavano entrambi a lato del lettino e discutevano su cosa fare e cosa non fare.
Il momento giusto, pensò.
Partì all'azione.
Aprì entrambi gli occhi, si mise a carponi e con le mani si diede una spinta per poter tirarsi sù.
Si diresse verso la porta, i due la guardarono stupiti e iniziò a correre fuori da quella stanza.
«Fermati ragazzina!» Gridò Jonas, ma lei non si fermò anzi, aumentò la velocità. Poi rallentò di colpo.
Lo scenario che si trovò davanti era indescrivibile: ragazzi di tutte le età comprese tra i dodici ed i venti anni andavano in qua e là con strane ceste metalliche in mano. Non riuscì a distinguere bene cosa ci fosse dentro, ma rifletteva la luce.
Si fermò, ansimando, con occhi sgranati, fece qualche respiro profondo per poter riprendere fiato. Il soffitto era alto almeno una quindicina di metri, con grosse travi di metallo che lo tenevano su. Ad ogni lato si trovavano dei grossi numeri che andavano dall'uno al cinque. Accanto ai numeri c'erano delle grandi entrate dalle quali uscivano ragazzi e ragazze. Il numero uno e due erano a sinistra. Il tre e quattro a destra. Il numero cinque era l'unica dalla quale non usciva nessuno. Situata in fondo alla grande stanza nera e grigia, a differenza delle altre, aveva la porta ed era chiusa.
Si sentì afferrare per un braccio, cercò di liberarsi dalla presa, ma inutilmente. Ryan la teneva stretta per impedirle un'altra fuga.
«Lasciatemi stare!» Urlò questa dimenandosi. Intanto Jonas li aveva raggiunti con passo veloce e deciso. In mano teneva una cartellina giallo spento, che prima non aveva. Quando arrivò si mise davanti a lei.
Corrugò la fronte assottigliando gli occhi marroni.
«Quanto tempo sei stata là dentro?»
Non rispose. Alzò la testa per fissarlo negli occhi. Ma lui non distoglieva lo sguardo e deciso ricambiava con ostilità.
«Guarda che ti stai danneggiando da sola» le fece notare distogliendo lo sguardo.
Lo guardò male, poi rispose. «Un giorno, circa.» Disse e Jonas sgranò per un attimo gli occhi, come se fosse sopreso.
«Immagino che tu abbia fame. Dovremmo avere qualche capo di biancheria e qualche maglietta pulita di là.» Jonas fece retro front e s'incamminò per il corridoio da dove lei era venuta. Ryan la strattonò per farla andare dietro di lui. Li seguì con malavoglia.
Che posto era quello?
Si guardò attorno spaventata e curiosa allo stesso tempo.
Che ci facevano così tanti adolescenti in un posto solo?
Passarono proprio in quel momento davanti alla porta della stanza dov'era rinchiusa fino a pochi minuti fa. Dalla parte opposta, un grande corridoio si allungava fino ad un'altra ala dell'edificio. Il corridoio era completamente buio e, da quel poco che riusciva a vedere, c'erano delle lampade, l'unico problema era che  erano tutte quante spente. Le vennero i brividi. Jonas camminava più di mezzo metro avanti a lei. Non gli piaceva quel tizio. Era troppo rigido e distaccato.
Jonas era più alto di lei di un poco, era magro e bilanciato. Aveva i capelli biondi e arruffati e poteva avere si e no diciassette anni. Indossava dei normalissimi jeans neri e una maglietta, anch'essa nera, con sopra riportate delle scritte. Mavis non era riuscita a distinguerle bene. Non poteva dire se era più grande o più piccolo di lei, non si ricordava la sua età.
Fece una smorfia.
La irritava non sapere niente di sé.
Ryan era molto più grande di Jonas, aveva forse diciannove anni, ed era molto più alto di entrambi, era robusto, e avevi i capelli neri coperti da un cappello di lana blu. La teneva ancora per il braccio, e le dava fastidio.
«Perché non mi ricordo più niente?» chiese. Jonas non si voltò nemmeno, continuò a camminare. Ryan la guardò compassionevole.
«È normale.»rispose guardando la cartellina gialla. Non voleva parlare, era abbastanza ovvio. Aspettò qualche altro secondo.
«Come mi chiamo?» Insisté lei. Jonas chiuse la cartellina.
«Com'è che ora parli così tanto?» Sbottò voltandosi.
Lo ignorò. «Perché sono qui?»
Quest'ultimo si voltò di nuovo e si rimise a camminare.
«Per lavorare.» Disse con far ovvio dopo qualche secondo.
Per lavorare? Perché così tanti adolescenti erano lì per lavorare? Non si chiamava sfruttamento minorile?
«E per lavorare devo perdere la memoria?» sentenziò questa.
Jonas non le rispose.
Ryan si girò verso di lei. «Sì.» disse «È necessario. Ci siamo passati tutti.»
Lei restò in silenzio, e di certo a Jonas non sarebbe dispiaciuto, non era un tipo molto socievole.
Quel corridoio sembrava non finire mai, e non poteva far a meno di pensare a dove la stessero portando, finché Jonas non si fermò. Si trovavano in una stanza simile a quella precedente, ma un po' più piccola. Non c'era nessuno in quella stanza apparte loro. Sui lati della stanza c'erano sempre quei grossi numeri con accanto delle porte a doppia anta. Tutte le porte erano chiuse. La stanza era dello stesso colore dell'altra; nera e grigia. È tutto così monotono, pensò guardandosi intorno.
«Cosa sono quei numeri?» domandò rivolgendosi a Ryan.
Lui si voltò verso di lei.
«Quelle sono le Sezioni. Ogni cosa qua si basa sulle Sezioni. Di là,» indicò dietro di loro. «si trova la Zona Lavorativa. Mentre questa è la Zona Ricreativa, per così dire.»
Ryan le lasciò il braccio. Era sollevata, stava iniziando a farle male. Sorrise appena.
«Che nomi di merda.» Mormorò.
«Lo so, ma quando siamo arrivati era già tutto così, nomi inclusi.» ribatté lui.
Jonas non aveva ancora detto niente.
Era a circa a due metri da loro e leggeva quella sospetta cartellina color senape. Fece cenno a Ryan di venire da lui, gli disse qualcosa e Ryan fece spallucce scuotendo la testa.
«Vieni qui.» le ordinò mentre studiava minuziosamente la cartellina. Percorse quei due metri che la separavano dai due e si mise al fianco di Jonas guardando con la coda dell'occhio la cartella.
Jonas la chiuse in fretta, rivolse la sua attenzione a lei e disse: «Sezione 5, prima porta a destra, tredicesimo letto a sinistra.» Poi le diede la cartellina. Alzò lo sguardo verso di lui.
«Cos'è la Sezione 5?» Jonas sbuffò.
«Quante domande che fai.» Fece una pausa. «Se hai bisogno, Sezione 1.»
Detto ciò si allontanò insieme a Ryan.
E lei era di nuovo sola.
Non sapeva cosa fare.
Si guardò attorno spaesata. Il suo sguardo cadde sul grande numero 5 accanto alla sua rispettiva porta. Fece un passo, muovendosi il più lentamente possibile. Ne fece un altro, poi un altro. Più si avvicinava più le saliva l'ansia. Mentre camminava le venne in mente una cosa: non le avevano detto il suo nome. Un passo. Forse avrebbe dovuto sceglierlo lei. Come si sarebbe potuta chiamare? Non ne aveva idea.
Si portò la cartellina stretta al petto. Doveva essere importante se Jonas non le aveva permesso di guardarla ma, allo stesso tempo, la incuriosiva il fatto che gliel'avesse consegnata. Poteva leggerla? Non ora, si disse.
Dopo circa venti passi si trovò di fronte alla porta a due ante della Sezione 5, afferrò la maniglia e l'abbassò, aprendola intimorita.
La stanza all'interno era esattamente uguale a il resto dell'edificio. Era quasi rettangolare, aveva sempre le stesse tonalità spente ma, in confronto, erano quasi più vive, grazie ai letti e agli oggetti personali poggiati sopra essi. Ce n'erano almeno una quindicina per ogni lato della stanza. La testa dei letti era appoggiata al muro, mentre ai piedi dei letti c'erano dei piccoli bauli con dei numeri. Le lenzuola erano tutte blu scuro, cuscino compreso. Tra il settimo e l'ottavo individuò un'anomalia. Una targha dorata, con sopra scritto tutto a caratteri maiuscoli:

"PER UNA SOCIETÀ MIGLIORE"

Sotto la scritta stava uno strano simbolo composto da un due triangoli intrecciati tra di loro. Mavis lo squadrò qualche istante prima di volgere lo sguardo altrove. Non trovando nulla d'interessante decise di tornare ad esaminare la targhetta.
Camminò per qualche metro e giunse davanti alla targa, la sfiorò con i polpastrelli della mano destra, poi continuò ad andare avanti cercando con lo sguardo il numero tredici su un baule. Strinse la presa sulla cartellina, sospirando. Trovò subito il suo letto. Era uno dei pochi con le lenzuola intatte. Si mise a sedere guardandosi di nuovo intorno.
Posò la cartellina sul letto, e si alzò.
Si mise in ginocchio davanti al suo baule, lo aprì e si sorprese di trovarci dentro dei vestiti puliti, della biancheria e delle scarpe. I pantaloni erano quasi tutti neri o grigi scuri, mentre le magliette erano di molti colori differenti, ma c'era una cosa che le accomunava; la stessa identica scritta stampata sopra.
A sinistra, sul cuore, si trovava il numero tredici scritto con numeri romani, a destra invece la lettera S con accanto il numero cinque.
Suppose che si trattasse di una sorta di metodo identificativo.
Li prese e li poggiò sul letto.
Si diresse verso gli altri letti. Alcuni erano nel disordine totale, vestiti per terra, scarpe sparse qua e là, le coperte per terra. Al contrario alcuni erano molto ordinati.
«Hei, tu! Che stai facendo?»la riproverò una voce femminile. Si voltò in fretta verso l'origine della voce. Chi parlava era una ragazza bionda, con degli occhiali da vista di media grandezza. Aveva circa sedici anni. Come altezza si poteva dire che era nella norma. La maglietta bianca riportava le seguenti scritte: S.5 a destra e XI a sinistra.
Teneva le mani nelle tasche dei jeans e aspettava impaziente la sua risposta.
«Ehm.. io.. io..»si allontanò velocemente dal letto su cui stava curiosando.
«Sei nuova?» le chiese.
«Si.» deglutì fissando la ragazza che la guardava.
«Nome?» le domandò togliendo le mani dalle tasche e mettendole conserte.
«Non lo so.»
L'altra la guardò sbieca.
«Non hai letto la cartella?»
Scosse la testa. «No, non ancora, è lì.» indicò il suo letto.
La ragazza andò verso di lei e si fermò a mezzo metro di distanza.
«Dovresti,» disse «là dentro c'è scritto chi sei. Comunque io sono Emilie.» le porse la mano. Lei esitante la strinse annuendo.
«Bene» disse compiaciuta Emilie. «Ora è meglio che vada.»
Si diresse verso la porta. Prima di uscire si voltò verso di lei, esitò per un momento e disse:
«Ah, benvenuta nella Sezione 5.» poi uscì dalla stanza, sorridendo.
Guardò immediatamente verso la cartellina senape che stava sul suo letto.
C'era veramente scritto chi era?
Si avvicinò, all'inizio esitante, poi più decisa verso il tredicesimo letto. Afferrò la cartellina, e si mise a sedere, la aprì e stranamente sicura di sé, decise di scoprire chi era.
In alto a sinistra c'era la sua foto. Aveva un'espressione dura e strafottente. I capelli mori erano in ordine e gli stessi vestiti che indossava in quel momento. Sorrideva scherna guardando dritto nell'obbiettivo, teneva in mano un cartello nero, e sopra a caratteri bianchi la scritta:
"N°0152831".
Nient'altro. Decise di lasciar perdere la foto e di passare al testo.

Nome: Mavis ***********
Anni: 17
Altezza: 1.73
Sezione: 5
Postazione n° 13
Crimine: Hacker Informatico

Chiuse gli occhi sorridendo.
Mavis; il suo nome era Mavis.
Le piaceva, era un bel nome.
Aveva diciassette anni. Wow, diciassette, pensò. Si alzò e uscì dalla stanza lasciando la cartellina dentro il suo baule.
Prima di uscire, decise di lavarsi velocemente mettendosi dei vestiti puliti che aveva trovato nel suo baule.
Dopodiché percorse a ritroso il corridoio che aveva attraversato in precedenza lanciando un'occhiata colma di disprezzo alla stanzina bianca e poi al corridoio. Il solo pensiero di doverci passare davanti tutti i giorni le fece venire i brividi. Li sorpassò entrambi aumentando la velocità dei suoi passi e rallentando una volta sorpassata. Giunse nella Zona Lavorativa e guardò con attenzione una ragazzino di circa quattordici anni passarle accanto con in mano una di quelle strane ceste metalliche. Dentro c'erano dei vestiti.
Vestiti?
Era sempre più convinta che quello fosse sfruttamento minorile.
Sorpassò le Sezioni 1, 2, 3, 4, si fermò davanti alla porta chiusa con il grande numero 5 a fianco. Prese un gran respiro e l'aprì.
Innanzi tutto la stanza era bianca. Il che la sorprese, ma non quanto i ragazzi che stavano dietro allo schermo di un computer. Erano presenti si e no quattro ragazze inclusa lei, il resto erano tutti maschi. C'erano circa quindici computer, e ognuno di essi aveva un numero per essere identificato. Al computer numero sei c'era un gruppo di ragazzi che ridevano. Al centro c'era un ragazzo che digitava sul computer. Identificò Emilie in mezzo al gruppo di ragazzi. Si sentiva stranamente estranea in mezzo a tutte quelle facce a lei sconosciute. Fece qualche passo nella sua direzione, finché non si ritrovò davanti a loro. Alzarono tutti lo sguardo verso di lei. Mavis deglutì.
«Ehi.» Disse sorpresa Emilie.«Che ci fai qui?» Mormorò con tono lievemente infastidito.
Mavis si sentì offesa.
«Non so dove sono e.. conosco solo te..»rispose chinando la testa.
«Gente!» gridò Emilie, Mavis sentì qualcuno ridacchiare.«Lei è...» poi si fermò «letta la cartella?»
Mavis annuì.«Mi chiamo Mavis.» Emilie sorrise soddisfatta.
«Bene, lei è Mavis! Nuova recluta della Sezione 5!» Poi rivolta a Mavis disse:
«Vieni qua.» tornando poi a fissare il monitor. Mavis si avvicinò titubante. Si mise affianco a Emilie e guardò lo schermo.
«Siamo riusciti a connetterci ad una rete internet ignota, passando per un server.» disse soddisfatta.
Mavis storse il naso. «Ma questa connessione è vecchia.» Mormorò attirando l'attenzione degli altri ragazzi.
«Cosa?» chiese un ragazzo guardandola.
«Questa connessione è vecchia.» ripeté con un tono più alto.
«Non riusciamo ad entrare in altri server. Sono bravi.» disse un ragazzo con un paio d'occhiali enormi.
«Chi?»Chiese Mavis non capendo.
«Gli idioti che ci hanno rinchiusi qui.» le rispose.
Mavis si sentì improvvisamente claustrofobica, la vista dei computer, e il fatto che li conosceva così bene la fece sentire in un'area familiare. Ma poi si ricordò dov'era, dove era costretta a stare e voleva gridare. Mandare a quel paese quelle persone.
Si sentì smarrita.
Poi un gran fracasso, una sirena assordante, i computer si spensero, le luci divvennero meno forti.
Era come se la Sezione 5 si fosse spenta.














Nota autrice

Ecco il primo capitolo! Spero vi piaccia, nel secondo le cose inizieranno a farsi più interessanti ;)

Intanto vi chiedo di votare e commentare con le vostre opinioni a presto!

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