Capitolo 32
Non era stato semplice metabolizzare quello che Donovan le aveva rivelato. Dopo che l'aveva riaccompagnata, si era immediatamente infilata al letto, senza nemmeno farsi la doccia e si era lasciata andare ad un pianto liberatorio.
La Scozia.
E chi sa che paese è la Scozia.
Cercava di immaginarselo, seguendo il racconto degli altri, con i suoi laghi, il suo perenne cielo grigio, chiuso, immerso in un paesaggio verde vivo, disseminato di castelli e torrette sgretolatesi su loro stesse a causa del tempo.
Ma più ci pensava e più sapeva che New York, e tutto quello che significava questa spasmodica e sporca città, le sarebbe mancata più di ogni altra cosa.
Però doveva andare avanti, non lasciarsi sopraffare dai mostri della nostalgia che veneravano la sua tenera e giovane carne.
Con solo tre ore di sonno alle spalle, si alzò e cominciò a prepararsi per andare a lavoro. E così per i successivi giorni. Dopo una settimana, Donovan si rifece vivo e puntuale come un orologio svizzero, gli inviò per posta quello che gli aveva promesso.
Un biglietto aereo solo andata per Edimburgo, un passaporto e poi un foglietto bianco in cui gli dava le direttive su cosa avrebbe dovuto fare una volta arrivata lì.
E a quel punto, il suo cuore si fece più piccolo e la speranza che si trattasse solo di un incubo, divenne invece insulsa realtà.
Ancora non si capacitava del perché il ragazzo la stesse aiutando a lasciare la città che non dorme mai. Non riusciva a capire per quale motivo stesse mettendo a rischio la propria copertura da agente federale, solo per salvare lei. Era una mossa avventata, se ne rendeva conto persino lei e aveva paura per quello che gli sarebbe successo, una volta che Sam ne fosse venuto a conoscenza. O lo stesso Alex. A quel punto non ci sarebbe stata più speranza di salvezza. E Donovan sarebbe diventato solo un mucchietto di ossa striminzite.
Quel lunedì mattina Hazel andò al lavoro con la consapevolezza che sarebbe stata l'ultima volta.
Il trillo della campanella che annunciava un nuovo cliente, le pareti bianche, i tavoli rossi, le poltrone bianche, il rumore della macchina del caffè, quella delle uova che friggono nella padella, i sorsi tirati su rumorosamente dai clienti da quelle tazze usurate dai lavaggi, il profumo del burro, i muffin la mattina e la torta al cioccolato; Hazel lo sapeva che quelle cose che aveva dato per scontato per tutto quel tempo e che per qualche motivo, forse per la noia della routine, aveva imparato ad odiare, le sarebbero mancate terribilmente. Ma si fece forza e arrivò la sera, salutò tutti con un affettuosità che strideva con quella sua fredda e distante normalità, tanto che se ne accorsero tutti. Quando uscì, con le lacrime agli occhi, si guardò intorno per l'ultima volta. Avrebbe mantenuto nel suo cuore perfino il numero esatto delle macchine parcheggiate lungo il viale. Stava per incamminarsi verso la fermata dell'autobus, quando qualcuno la strattonò per un braccio. Improvvisamente, con il cuore che batteva forte per la paura e gli occhi sgranati, si girò nella direzione dell'uomo con l'intenzione di piantargli una manata sul collo. Ma il gesto morì nell'aria, perché Alexander era di fronte a lei e aveva due occhi cerchiati da un alone nero, come di uno che non dorme da settimane.
─ Alex!
Ma quello se ne stette in silenzio, con la mascella contratta è uno sguardo freddo. Hazel ebbe la sensazione che qualcosa non andava. Se li sentiva i suoi occhi che premevano per lacerarla, per violarla, per divorarla tutta. Per questo cominciò a respirare più forte, mentre il gomito prendeva fuoco, tanta era la forza con la quale il ragazzo la stringeva.
─ Sali, ti riporto a casa.
E improvvisamente la lasciò andare, mentre quasi come un fantasma, si apprestava ad entrare in macchina.
Hazel fece lo stesso.
Nell'auto scese il gelo.
Entrambi se ne stavano per i fatti propri a guardare il paesaggio notturno, a partorire pensieri diversi, dissacranti, a rovinarsi il fegato e le budella, per qualcosa che era successo, che entrambi sapevano, ma che tacevano. Era quel tipo di verità che a lungo faceva fatica a starsene rintanata dentro, che spingeva odiosa per uscire allo scoperto e che era più esplosiva di una bomba artigianale disseminata per il deserto Afghano,
Arrivati sotto casa sua, Alexander parcheggiò l'auto e nello stesso momento scesero dalla vettura, per poi salire insieme in casa.
Nel momento in cui misero piede nel monolocale, Alex andò a sedersi sulla poltrona e senza nemmeno togliersi il cappotto, si accese silenzioso una sigaretta. Hazel invece rimase sulla soglia della porta, aspettando che lui gli ordinasse di fare una qualsiasi cosa. Quando l'uomo alzò gli occhi verso di lei, un' alone nero le fece accapponare la pelle. Tratteneva una rabbia, un fuoco represso. Aveva faticato a rimare calmo non appena l'aveva vista uscire da Diner, ma ora, conscio del fatto che erano soli, che c'erano solo loro due lì dentro, il fuoco stava per essere sprigionato.
─ Sai Haz, la prima volta che ti vidi provai un forte senso di pena, poi di schifo per me stesso e infine, inaspettatamente, nacque in me un senso atipico di protezione. Dovevo tenerti al sicuro, nonostante non ti conoscessi affatto ─ e poi si fermò, cercando lo sguardo della ragazza, che gli risultò essere persa. Sorrise appena e poi le intimò di sedersi vicino a lui.
Lei mosse pasticciona i piedi e poi si lasciò cadere sul divano. Anche lei, proprio come lui, aveva ancora la giacca infilata.
─ I tuoi occhi, i tuoi cazzo di occhi non mi giudicavano, non mi hanno mai giudicato, nemmeno quando ti ho raccontato la storia della mia vita, quando ti ho mostrato il mio lato peggiore, e poi anche quello migliore. Non mi hai giudicato nemmeno quando ti ho mostrato il mio curo, anche se poi te lo sei preso, e abbiamo fatto l'amore, ci siamo uccisi, ma ci siamo sempre ripresi; io e te ci siamo amati in un modo che gli altri non potranno mai capire.
Era arrabbiato, a stento frenava la febbrile ira che gli faceva sputacchiare le parole appena dette, immerse in un mare di veleno puro. Doveva far uscire fuori tutto quello che pensava di lei, di lui e di loro. Doveva farlo, prima di pentirsene, prima che fosse stato troppo tardi.
Hazel stava piangendo, si asciugava le lacrime e nemmeno se ne rendeva conto. In un posto molto recondito del suo io, lei sapeva cosa stava per accadere, del perché lui gli stava dicendo tutte quelle cose. Ma faceva finta di niente. Questo significava poter provare meno dolore.
─ Alex...
─ No! ─ e con uno scatto furente si mise in piedi, la sigaretta che cadde sul tappeto, i denti serrati, gli occhi che avevano perso l'abituale apatia, per lasciare spazio al rosso della collera.
Hazel non si mosse, non protestò nemmeno quando se lo ritrovò ad un palmo dal naso, quando la prese da un braccio e la trascinò fino in camera sua, buttandola poi sul letto.
Se lo ritrovò addosso, seduto sul suo bacino e con la pistola puntata sulla fronte, nello spazio tra gli occhi.
Hazel aveva smesso di piangere e lo guardava assorta, con il fiato corto, nemmeno avesse corso la maratona.
Alex spingeva la pistola sempre più affondo, cercando dentro di sé la forza di premerlo quel maledetto grilletto. Gli avevano intimato i russi di aggiustare le cose, di trovare un modo per farla stare zitta per sempre.
E quindi eccolo lì, con l'arma in mano, pronto a fare qualcosa di irrimediabile, qualcosa di cui sapeva, se ne sarebbe pentito per il resto della propria vita.
Alexander non aveva più rimorsi. Aveva imparato ad uccidere un corpo dopo un altro, senza metterci il cuore. Ma ora, piantare una pallottola nella testa della ragazza, avrebbe significato impegnare anche i sentimenti. Perché Alex l'amava come si ama l'arrivo della primavera, la brezza marina sulla pelle in inverno; come si ama contemplare il cielo sdraiata tra l'erba di un parco, con il vociare lontano dalle risate dei bambini che giocano e si divertono. Per Alex lei era tutto quello che di più bello c'era stato nella sua vita.
Dovette chiudere gli occhi, prendere un respiro profondo e cercare di rimanere fermo, immobile su quel caldo corpo, che lo aveva accolto nelle notti senza luna a rischiarare l'oscurità.
E voleva farlo, o se voleva premere quel maledetto grilletto. Ma ogni volta che ci provava la forza veniva meno. Per questo, tramortito, lanciò la pistola sul pavimento e si alzò irrequieto, stanco di tutto.
Si prese la testa tra le mani e strinse i capelli in un pugno. Stava impazzendo, lo sapeva molto bene.
Poi, i suoi occhi caddero sul corpo sinuoso e smunto di lei.
─ Ci ho provato, Dio se ci ho provato! Ma non ci riesco, non riesco a premere il grilletto e farla finita ─ e poi, continuando a camminare per la stanza, si fermò di fronte a lei, che nel frattempo si era messa a sedere, e gli puntò contro l'indice.
─ Sei una grandissima stronza! Mi hai fatto credere cose che non sono mai esistite...
─ Non è vero, quello che c'è stato tra me e te era tutto vero!
Alex proruppe con un grugnito animalesco e le fu di nuovo addosso, premendo il palmo della mano destra sulla sua bocca.
─ Stai zitta! Sei solo una puttana proprio come tutte le altre! Mi hai mentito e mi hai ferito! Avevo il diritto di sapere chi fossi veramente.
Hazel mugugnò qualcosa, ma si perse tra le piaghe della pelle di lui, che nel frattempo premeva con il corpo per fargli sempre più male. La biondina se lo sentiva addosso, insieme a tutto il risentimento e a quella collera che dall'interno lo stava distruggendo. E cercava di dimenarsi, ma era come combattere contro i mulini al vento. Aveva perfino smesso di piangere, i suoi occhi si erano come seccati, inariditi dal dolore. Quando l'uomo lasciò andare la mano, Hazel sentì che i suoi muscoli si erano rilassanti e allora poté, con tutta la forza che le era rimasta, toglierselo di dosso. Questa volta era lei che lo guardava da sotto le ciglia chiare.
─Vaffanculo, io non ti dovevo niente. Niente! Hai capito!
E si mossa svelta, prima che l'uomo se ne rendesse conto, a prendere la pistola che giaceva tra il tappeto cremisi e la finestra chiusa. Hazel se la portò di fronte gli occhi, proprio come aveva gli aveva insegnato l'istruttore al negozio delle armi. Si incamminò verso di lui molto lentamente e altrettanto pacatamente gli si fece di fronte.
Ora era lei, a puntare la pistola sulla sua di fronte.
Alex la guardava torvo, con la mascella contratta e una sicurezza tale, che fece tremare le mani di lei.
Da così vicino, Hazel vide il suo pomo d'Adamo fare su e giù quando deglutiva, le ciglia lunghe, il fiato caldo e il primo bottone della maglietta nera aperta.
Anche lei dovette deglutire. In quel momento si sentiva sotto pressione.
Da se stessa si aspettava qualcosa, i suoi familiari si aspettavano che lei facesse qualcosa dall'oltre tomba e pure il russo si aspettava da lei una mossa.
─ Fallo, avanti... ─ mormorò lui in un sospiro, mentre congiungeva le mani su quelle di lei, ─ avanti Haz, so che puoi farlo. Devi capire che uno dei due questa sera dovrà morire. Non c'è posto per entrambi qui!
Ma lei non ci riusciva. Era sul punto di farlo, così vicina a premerlo, ma rimaneva ferma, immobile su quella sorta di tasto nero.
─ Vaffanculo...─ mormorò poco convinta.
─ Avanti fallo! Pensa a quello che ti ho fatto, al male che ti abbiamo arrecato!
Fallo! ─ gli urlò lui, mentre spostava le mani sulle braccia e la scuoteva.
E poi anche Hazel urlò di rimando, e si avvertì nell'aria uno sparo.
Ma lei non era più su di lui. Aveva la morbida copertura del materasso a toccarle le spalle e un corpo caldo a ripararle la testa, le braccia, il bacino e il cuore.
Non stringeva più il freddo del calcio della pistola. Afferrava la stoffa ruvida di quello che sembrava essere un abito.
Nell'aria si avvertiva l'odore rude della polvere da sparò. Ed era buio. Ma si rese conto che non lo era davvero, che la luce artificiale della lampadina appiccicata sul soffitto era dolorosa per le iridi e che lei aveva chiuso gli occhi e che il corpo di chi l'aveva protetta se ne era andato. C'era un'altra voce nella stanza, un altro uomo che non conosceva.
Disgraziatamente alzò gli occhi e vide un corpo per terra. C'era un corpo nella sua stanza. Un corpo che puzzava di morto e stava sanguinando da un orecchio, con gli occhi marroni sbarrati, da chi è stato fulminato da un dolore lancinante e non ha potuto fare altro che starnazzare esangue sul pavimento.
Spaventata, ma impossessata di un coraggio che non le era mai appartenuto, scavalcò il morto e si diresse dove provenivano degli spari.
Lo stomaco era teso, come se stesse cercando di trattenere la bile che rischiava di risalire.
Ignara del pericolo che correva, varcò la soglia che dal corridoio la immetteva nel soggiorno con non curanza, alla mercé di tutti.
Era come se la vista le si fosse appannata e fosse invece l'istinto a guidarla.
Respirava male. Una mano invisibile le stava facendo pressione a ridosso dei polmoni.
E poi avvertì una voce. Qualcuno stava urlando il suo nome, lo percepiva appena, anche se ad ogni passo che lei compiva si faceva sempre più chiara.
Gli occhi corsero ad un punto preciso della casa, a dove giaceva il salotto ribaltato.
C'erano tanti fori sulla sua superficie.
Poi una mano strinse il suo polso sottile. Questa volta aveva gli occhi ben spalancati.
E c'era un ragazzo davanti a lei. Gli occhi celesti, i capelli biondi, il fisico asciutto.
Nella bianca mano destra quel ragazzo stava stringendo una pistola, una Beretta serie 92 A1 e che puntava la sua bocca dritta sulla sua testa.
Ironico come la vita le facesse provare per due volte consecutive la sensazione di essere in bilico tra la vita e la morte. Ed era soprattutto ironico il fatto che lei non provasse nessun sentimento di paura, o semplicemente terrore.
C'era qualcosa che nel suo cervello non stava funzionando più.
Quell'uomo, quello che se ne stava nascosto dietro la barricata del divano e che era impegnato a ricaricare la propria arma, quell'uomo le aveva cambiato la vita, gliel'aveva stravolta. Gli aveva fatto credere che tutto quello fosse normale, che non esisteva solo il nero o il bianco, ma ad attenderla c'era tutto un arcobaleno di colori.
Ma forse, il fatto di avere le emozioni congelate, era una colpa da additare a quel ragazzo che minacciava di ucciderla. Che Viktor non fosse un angelo, come il suo aspetto proclamava, questo lo aveva capito molto tempo prima, ma mai avrebbe pensato a lui come un assassino.
Una settimana prima gli aveva scritto un messaggio, comunicandogli che non si sarebbero più rivisti. Non c'era stata nessuna voce grossa da parte dell'ucraino, che ormai lo aveva capito da un pezzo che Hazel si era dimenticato di lui. Si erano divertiti insieme, avevano passato un bel mese e poi ognuno per la propria strada. Basta, tutto era nato e morto lì. E invece nessuno è come mai te lo aspetti veramente.
Le maschere nascondono bene i veri volti e cercare di smussarle, di strapparle dal volto è sempre molto complicato. Ed Hazel lo aveva capito molto tempo prima, ma ancora una volta ci era ricaduta. Sembrava non volere imparare mai la lezione.
─ Alex, prova solo a puntarmi quella cazzo di arma contro e io gli faccio saltare le membra.
Hazel non si era nemmeno resa conto che Alexander le si era fatto vicino, con lo sguardo torvo e incattivito, di un felino a cui minacciano di portare via il cibo.
Gli occhi saettavano scintille di puro odio. Erano occhi di un assassino, quelli. Si stava mostrando per la prima volta per il demone che era, a cui ogni giorno combatteva per tenere a freno.
Il corpo era tutto un fascio di nervi: teso, rigido, stretto nei suoi muscoli. Tutta la forza, la speranza di Hazel, era racchiusa in quelle mani che forti, stringevano l'arma di morte.
Si trovò, pur non volendo, catapultata tra due poli: uno che voleva salvarla, l'altro che voleva la sua vita, e con due pistole cariche e pronte a sparare, ad Hazel veniva voglia solo di fuggire via, lontano e quel viaggio in Scozia non le sembrò più così una cattiva idea.
Aveva gli occhi puntati su Alexander, mentre i due uomini si osservavano di bieco.
E quando fece un passo indietro, convinta che quella fosse una battaglia personale, si rese conto che non si stavano veramente guardando e che lei era il frutto di quella stupida guerra fatta di minacce e sguardi.
Per questo tornò sui suoi passi, questa volta avvertendo davvero il senso di paura e non sentendola più solo un'utopia.
─ Chi ti sta pagando? ─ proruppe a rompere il silenzio il russo, senza mai abbassare la guardia.
Viktor sorrise, con i denti dritti, di una quadratura quasi perfetta.
─ Se te lo dicessi, non ci crederesti.
─ Tu provaci lo stesso.
Lui non rispose. Stette zitto a guardarlo, perso nei meandri della sua testa a pensare a chi sa cosa. Tutto senza mai perdere il sorriso ritratto in faccia.
─ E io che cosa ci guadagnerei?
Alex tornò quello di una volta: gli occhi freddi, con le emozione congelati in quel mare di blu.
─ Credi sul serio che sarò io a morire? Perché se è così amico, lasciatelo dire, non ci hai capito proprio un cazzo! ─ e accompagnò le parole con una risata gelida, spaventosa quasi.
Hazel non capiva perché il russo punzecchiasse così tanto Viktor, che non li reggeva quei colpi, quello sguardo, quelle parole e la fermezza di Alexander. Si vedeva da come la palpebra dell'occhio sinistro stava tremando leggermente, da come le narici si andavano a dilatare sempre di più, sotto i colpi della rabbia mal controllata.
Nonostante ciò, rimase ferma, con le gambe che tremavano e che stavano per cedere sotto il proprio peso.
─ Che cosa ti fa essere così sicuro di questo?
A quel punto Alex ghignò e lasciò andare le braccia, stringendo però, nella mano destra, la pistola che sbatteva sulla coscia.
Poi il russo guardò il biondino e piegò la testa a destra.
─ Tu lo sai perché Hazel si è avvicinata a te?
Quello parve vacillare, stranito da quella insolita domanda, mentre corrugava la fronte e aspettava che l'uomo continuasse.
─ Andiamo Vik, pensavi davvero che si fosse improvvisamente interessata a te di punto in bianco? ─ e di nuovo proruppe con quella sua risata letale, che lacerava la carne ─ Sei solo uno stupido burattino! Hai capito: un povero coglione! Sei solo uno dei tanti nomi della lista nera di Alexander. Uno dei tanti che morirà sotto il piombo. Non sei un cazzo e non lo sarai mai! Povero illuso.
I silenzi che seguirono poi, dopo che le parole di Alex si dispersero nel vuoto della stanza, furono i secondi più tesi mai provati prima.
Sembravano un branco di soldati, quei tre.
Intenti a pregare un Dio immaginario che li proteggesse e li tenesse al sicuro, per tutta la durata di quella battaglia che stava per essere scatenata. E poi fu l'inferno.
Il grugnito animalesco di Viktor fece sobbalzare Hazel, che si vide il ragazzo cercare di riprendere la mira su Alexander, per poi perire miseramente, sotto quell'unico colpo improvviso e fulmineo, della pallottola, sparata con superiorità e prontezza di spirito, non ché di prepotenza, del russo.
Viktor lo sapeva che sarebbe morto, lo aveva percepito nel momento in cui aveva messo piede nella vita di Hazel, intromettendosi tra quei due silenziosi amante. Ma ci aveva comunque provato.
Ora invece, riversava disteso supino in terra, con gli occhi aperti, come se la morte gli avesse scattato una foto. Un buco al centro del petto, uno all'addome e l'altro allo stomaco. Il piombo lo aveva crepato dall'interno, togliendogli la possibilità di soffrire. Ma quegli occhi cristallini, che tanto avevano raccontato di lui, delle sue origini e della sua storia, ora erano spenti e senza anima.
Incosciente, Hazel si chiese in quale parte dell'inferno il ragazzo fosse fuggito.
Tanto lo sapeva che si sarebbero rincontrati. Glielo aveva sussurrato in sogno.
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