Capitolo 31
L'America si poteva apprezzare solo vista dall'alto.
In aereo Alexander cercava sempre di accaparrarsi il biglietto con il posto verso l'oblò, solo perché si sentiva al sicuro e lontano dagli occhi indiscreti degli altri passeggeri.
Le nuvole si stavano diradando mano a mano che l'aereo perdeva quota, e poi San Francisco gli apparve sotto agli occhi celesti, dello stesso colore di quel cielo mattutino che non presentava nuvole.
C'era il sole e lui poteva sentirne già i raggi scaldare il nero del cappotto. Odiava i posti troppo caldi e il mare e quell'umidità che ti si appiccica addosso, che ti fa sentire sudato, tipica proprio dei posti di mare. Fortunatamente non era ancora arrivata l'estate e anche per il sud dell'America era inverno.
Appena sceso dall'aereo, con la valigia in mano, si diresse verso l'uscita.
Andrej lo aspettava fuori, con l'autista e una Mercedes nera.
Il sorriso dolce e affettuoso con cui lo accolse, strideva con il tatuaggio di un coltello tatuato sul collo.
Il russo era alto, aveva capelli scuri tutti sparati in disordine, pelle pallida e denti storti, ma bianchi.
Si baciarono tre volte sulle guance e poi si diedero delle energiche pacche sulla schiena.
─ Allora, come è andato il viaggio? ─ chiese Andrej in russo mentre si avvicinavano alla macchina.
─ Abbastanza bene, anche se il pilota poteva fare di meglio ─ rispose Alex facendo l'occhiolino all'amico, mentre abbozzava un timido sorriso.
Alexander sapeva che non avrebbe ottenuto tanto presto le informazioni per cui era venuto lì. Prima avrebbero fatto sicuramente qualcos'altro. Alexander temeva il peggio.
Eh infatti, un'ora dopo, si ritrovò in un bordello travestito da negozio di massaggi cinese.
Fuori, le vetrine erano completamente oscurate da grandi poster ritraenti una donna cinese, vestita con il tipico kimono rosso con ricami in oro, tutta immersa in un cielo rosa, e poi lampade dello stesso colore del vestito della signora e scritte in grande con i caratteri cinesi, seguite dalle lettere ridimensionate, rispetto al titolo cinese, dell'alfabeto americano.
Entrando invece, tutto era immerso nella penombra, illuminata solo dalla debole e fioca luce bianca delle lampade a muro e dei lampadari in carta bianca, che scendevano leggeri giù dal soffitto. Un profumo di fiori bruciati investì Alexander, facendogli tornare alla mente il ricordo dell'ultima volta che era stato lì.
Seguì poi Andrej che lo condusse tra la sala d'attesa e i mobili in mogano, per giungere poi dinanzi ad una porta di legno liscia. Sulla superficie capeggiava una targhetta di metallo con su scritto magazzino. Dopo di che, una volta aperta e richiusa in fretta, si addentrarono in un corridoio cosparso di porte della stessa fattura della precedente, fino a raggiungere quella che doveva essere la sala principale.
C'era una musica in sotto fondo, ma veniva coperta dalle voci differenti degli uomini.
Alexander si trovò di fronte ai più temibili capi della mafia russa americana. Anche se non li aveva mai visti, avevano l'aria pomposa e asciutta, di chi aveva il comando nella mani da una vita.
Si guardò intorno, avvertendo un leggero senso di ansia nel vederli riuniti tutti lì.
C'era un palco sulla destra, un palo luccicante issato al centro e poi divanetti in stile barocco tutt'intorno a coprire la superficie della sala, e alla fine della stanza, una porta - questa volta bianca - leggermente socchiusa da cui provenivano sussurri e gemiti.
Alexander vide tutte quelle giovani e belle ragazze muovere i fianchi disinibite, con la gonna corta, il sedere coperto dal micro tessuto del perizoma e gli occhi spenti, lasciati forse, al piccolo paese da cui erano state sottratte. Il russo notò che non c'erano solo ragazze ucraine, ma anche due ragazze cinesi, qualche ragazza di colore con il seno coperto dal misero top trasparente (alcune avevano anche un seno fuori, in bella vista) e poi qualche altra ragazza dell'est d'Europa.
─ Saša, dai, non rimanere sulla porta, non ti mangiamo mica ─ e gli fece l'occhiolino, mentre tutti gli uomini presenti nella sala proruppero in una grassa risata. Alex non si sentì preso in giro, anzi, gli rivolse un timido sorriso, come di una persona colta sul fatto.
Una volta che fu vicino ai signori, che spavaldamente sedevano sulle poltrone e si lasciavano accarezzare dalle dolci e giovani mani di quelle ragazze mangiate dalla vita, Alexander chiese ad Andrej perché fossero tutti lì. L'amico prima gli rivolse uno sguardo strano, come se fosse doloroso per lui rispondere a quella domanda, ma poi si riprese e i suoi occhi tornarono a brillare. Alexander sapeva che se Andrej non avesse dovuto ereditare un intero impero criminale, avrebbe sicuramente fatto qualcosa di molto importante, di onesto, qualcosa che sapeva di pulito, non di sporco.
Ad un certo punto la musica venne spenta e tutto divenne gelido.
I signori protagonisti di quella stanza, tutti vestiti di nero, più o meno magri, si alzarono in piedi e tornarono ad essere gli uomini spietati di sempre.
Dalla porta bianca nel frattempo, vi uscì un altro uomo.
I capelli biondicci, lunghi, che una mano tatuata andava a sistemare per farli tornare in ordine; gli occhi blu, un tatuaggio che faceva capolino dal colletto della camicia elegante e la vita asciutta, in un corpo alto. Ad Alexander andò il sangue al cervello, quando si accorse chi fosse.
Si trattava di Igor, il capo di tutta l'Organizacija di San Francisco, in particolare della Solncevskaja bratva. Quegli uomini, e Igor li dirigeva come il burattinaio di quell'orrido spettacolo di marionette, si occupavano delle più svariate attività criminali: il riciclaggio del denaro sporco e quindi la costruzioni di casinò, oppure di lavanderie; della prostituzione, del traffico di esseri umani e quelle ragazze direttamente dalla Moldavia o dall'Ucraina ne rappresentavano un chiaro esempio; della frode delle carte di credito, il traffico di armi e poi il fulcro centrale delle loro attività, quella che portava in tasca la porzioni di guadagno più grande: la droga e i rapporti con i cartelli messicani.
Alexander serrò la mascella e lanciò uno sguardo indignato verso Andrej, che si mostrò troppo imbarazzato e colpevole per girare lo sguardo verso l'amico.
─ Alexander è un piacere rivederti dopo tutti questi anni.
Alex puntò lo sguardo verso Igor e nella mente riapparvero diverse immagini, tutte legate ad un passato che li univa. Ricordò la neve di gennaio che cadeva silenziosa fuori dalla chiesa, il giorno del funerale del padre di Igor; ricordò il giorno della sua incoronazione da capo assoluto e di quando gli puntò la pistola in faccia, intimandogli con la violenza di andarsene dall'organizzazione, altrimenti lo avrebbe ammazzato come un cane, dissanguato con una vecchia picca dalla lama arrugginita e poi gettato in un fiume. Alexander quel giorno lasciò un pezzo di lui, che mai sarebbe tornato indietro. Era un killer, uno che con un solo proiettile a disposizione sarebbe stato capace di ucciderne due in colpo solo. Non si sentiva minacciato da lui, ma rispettava troppo suo padre e il regno che si era costruito, perciò, per quella promessa fatta da ragazzino, decise di spegnere il fuoco che era divampato sulla loro amicizia e di raccoglierne la braci, per poi sotterrarle da qualche parte sotto la sabbia. Ma Igor invece, nonostante sapesse la verità sulla questione, si sentì incalzare da un potere che era tutto nella sua mente e giurò a se stesso, con quello stesso sorriso che aveva messo su anche in questo momento, di rendere la vita di Alexander un vero inferno. Ed ora era lì, a incassare la somma guadagnata in tutti quegli anni.
Un uomo della scorta, con la pistola in bella vista, cominciò a perquisire Alex, che fermo e muto, si lasciava toccare da quelle mani avide e fredde. Uno scorpione disegnato sul dorso della mano destra, fece capire al killer che si trattava di uno degli uomini di Igor, non che fratello maggiore di Andrej.
Erano così diversi quei due, e non solo per l'aspetto fisico, ma soprattutto per il lato caratteriale.
Andrej era un ragazzo solare, spensierato, energico, uno che con quel mondo non c'entrava proprio niente. Igor invece sembrava essere stato concepito per fare quello.
Suo padre era un criminale onesto, nonostante i suoi tanti lati oscuri, suo figlio invece, mostrava senza paura quel suo lato da criminale incallito, letale e furbo come il veleno.
Dopo che la guardia lo ebbe perquisito, Alexander cercò di trovare quella giusta forza dentro di sé per potergli rispondere educatamente. Ma aveva solo una gran voglia di sparargli una pallottola in pieno volto e uccidergli quel sorriso strafottente che aveva.
─ Anche per me, Igor.
Ma nessuno di loro due sapeva che era vero.
Un uomo stempiato, uno di quelli seduto sul divano, vestito con abiti eleganti, si alzò, senza però muovere un passo.
La sedia che veniva trascinata sul pavimento e poi Alex che venne fatto sedere su di essa con prepotenza, tanto che il killer era già pronto a tirare fuori la sua picca e trapassare la vena pulsante della giugulare della guardia, che se ne stava composto e con la freddezza ad indurirgli i lineamenti mascolini.
─ Signori, per favore, cerchiamo di rimanere calmi. Nessuno vuole fregare nessuno.
Già, ma l'unico che ci sto rimettendo sono io.
Andrej stava facendo del suo meglio per tenere le cose a posto, all'ordine. Ma chi ha il potere, spesso diviene sordo e ceco.
─ Compagno Aleksandr, se sei stato convocato qui oggi è perché devi risolvere una questione che hai lasciato in sospeso, nonostante un ordine dato dai tuoi superiori.
Una sola, lunga, goccia fredda solcò la sua spina dorsale, per scomparire poi, tra l'elastico delle mutande.
Stava cominciando a capire. Nonostante ciò, mantenne uno di quei suoi sguardi glaciali. Era bravo a mentire.
Intanto quegli uomini lo fissavano, aspettando di sentire una sua risposta, risposta che Alex in quel momento, sembrava non voler dare.
E allora comincio una battaglia fatta di sguardi: Alexander guardava loro e loro guardavano Alexander.
Intanto il killer se ne stava con le gambe aperte, la schiena protratta in avanti e i bicipiti appoggiati sulle cosce.
─ Non riesco a capire ─ fece Alex in russo mentre si muoveva impaziente sulla sedia.
Quelli lo guardarono con mal celato astio e poi decidedetterò di stare al suo gioco.
Ma prima che potessero dire una sola parola, Igor, che se ne era stato a guardare la scena da dietro uno dei salottini, con i gomiti poggiati sul legno decorativo dello schienale, si rimise improvvisamente dritto e con le braccia incrociate al petto, cominciò a guardarlo dritto negli occhi, con un ghigno maligno, di chi stava per scoprire la carta vincente.
─ Non siamo venuti qui per farci prendere per il culo, Alexander. Se siamo qui, è perché tu ci devi qualcosa. Ricorda: il sangue vorrà sangue.
Alex strinse gli occhi, riducendoli a una fessura e poi, poggiandosi con la schiena alla sedia, emise solo un eloquente sospiro.
─ Che c'è, adesso ti metti anche a recitare Shakespeare?
─ C'è una certa teatralità barocca in lui, che mi affascina.
Uno degli anziani presenti si schiarì la voce e li fece tornare al nocciolo della questione, aggiungendo pure, che non avevano tutto il pomeriggio da dedicare a due ragazzini.
─ Che cosa vi aspettate che vi dica? ─ asserì a quel punto Alex allargando le braccia, ─ che ho commesso un crimine di cui neanche ricordo l'esistenza?
─ Allora, visto che hai problemi di memoria, fattelo spiegare dal mio fratellino che cosa è successo ─ sputò velenoso Igor, con una celata ironia sotto i denti.
Andrej, che se ne era stato fino a quel punto in silenzio e di fianco al suo amico, come se fosse il suo alfiere personale, decise di prendere la parola.
─ Ti ricordi della telefonata dell'altro giorno? ─ quando vide il segno di assenso con il capo di Alex, decise di continuare, ─ Beh, c'è che quella ragazza di cui mi hai parlato e che di cui non ti tornavano i conti...beh, lei... lei... lei è una delle vittime che dodici anni fa, hai deciso di risparmiare.
Per Alexander fu come essere investito da un pullman.
Se li rivide, in quella stanza, gli occhi innocenti di quella bambina. E rivide l'efelidi sulle paffute guance, la pelle cotta dal sole estivo, i capelli biondi. E poi la fotografia si allontanò, si fece sempre più lontano, e poi prese ad allungarsi, e la bambina divenne una figura in carne ed ossa, più alta, decisamente mal vestita. Era Hazel, che come una sirena lo stava chiamando tra le sue braccia.
Alex sentì il petto farsi più stretto, il cuore spegnersi, ma continuare a pompare sangue.
Non riusciva a pensare o a dire niente. In quel momento la sensazione di essere stato tradito, la sensazione di delusione, gli pulsava malsana sulle tempie, gli faceva pizzicare la pelle, rendere irrequiete le mani.
Sbatté le palpebre e cercò di tornare alla realtà. Questa volta fu più difficile delle altre volte.
─ Che devo fare? ─ chiese con il tono freddo, mentre nella sua mente annebbiata dal risentimento, stava urlando, prendendo a pugni Igor, Andrej e lanciando qualsiasi di quelle cianfrusaglie che gli stazionavano immobili attorno.
La cosa che lo colpì però nel profondo, fu vedere la soddisfazione ritratta sulla faccia di Igor.
Finalmente aveva avuto la sua rivincita sul criminale perfetto.
***
I turni di sera al locale erano sempre i più stressanti, specie dopo una giornata passata a servire torte, caffè e muffin chiusa tra quelle quattro mura.
Quando finalmente anche l'ultima luce fu spenta, sentire la frescura di gennaio soffiarle leggera sulla pelle, le fece improvvisamente dimenticare dei crampi alle gambe.
Mentre salutava tutti e si accingeva ad andare alla fermata dell'autobus, stretta nel suo misero parka verde che puzzava di fritto e storie notturne, una macchina grigia metallizzata rallentò e le si avvicinò.
Colta di sorpresa, Hazel spostò un po' più su il capello di lana verde e si chino leggermente sulle ginocchia: era curiosa di vedere di chi si trattasse.
─ Donovan? Che ci fai tu qui?
Il ragazzo la guardava con quei suoi occhi color dell'ambra, tutto serio e scuro in volto.
─ Sali, ti devo parlare.
Hazel aggrottò la fronte.
Era al quanto stupita di trovarselo là, ma sentiva anche uno strano senso di preoccupazione assalirgli il corpo. Si guardò per un attimo intorno e poi, vedendo la serietà e il tono duro di quelle parole, si decise che forse doveva fidarsi. E poi, se lui gli avrebbe voluto fare veramente del male, ne aveva avute di occasioni in passato.
Fece il giro della macchina, i fari bianchi l'accecarono, tanto che dovette socchiudere infastidita gli occhi e poi si fiondò nel caldo della macchina. All'interno, un odore di mela verde, le investì le narici.
Hazel mise la cintura di sicurezza e Donovan, ingranando la prima, riprese a camminare.
─ Non starò qui a raccontarti cazzate, cercherò di essere il più diretto e sintetico possibile ─ e la guardò di sfuggita, tornando immediatamente alla strada. Voleva solo constatare se la ragazza lo stesse ascoltando, gli stesse prestando la dovuta attenzione.
Hazel aveva sempre avuto un opinione diversa di Donovan, rispetto agli altri due.
Sam era un sadico e un pazzo.
Alexander era silenzioso, ma dietro quella patina nascondeva un cuore da criminale spietato, quasi letale.
Ma Donovan era dolce e gentile, e i suoi occhi raccontavano sempre qualcos'altro.
Perciò, non riusciva a spiegarsi come mai avesse atteso la fine del suo turno di lavoro e l'avesse poi cercata. C'era qualcosa che non andava.
─ Don, io non riesco a seguirti.
Il ragazzo scozzese la guardò e questa volta lo sguardo che gli lanciò fu decisamente più lungo.
Strinse le mani sul volante, socchiuse gli occhi e poi prese un bel respiro.
─ Te ne devi andare da qui, Haz. Te ne devi andare in Europa, in Scozia. Te ne devi andare se vuoi ancora vivere. Se ho scoperto io il tuo segreto, credi davvero che non ci arriverà anche Alexander?
Sentire quelle parole pronunciate ad alta voce, venire a conoscenza che qualcuno sapesse del suo segreto e che presto sarebbe diventato dominio anche di altri uomini cattivi, le fece battere il cuore fortissimo, mentre una patina di sudore freddo, andava a bagnare la lana del berretto.
Dovette, cercando di frenare il senso di vomito allo stomaco, puntare gli occhi alla strada.
─ Perché dovrei fare una cosa del genere? Sono stufa di scappare dalla gente.
─ E che cosa vorresti fare, sentiamo. Vuoi morire qui? In questa città che nemmeno ti ha dato i natali?
Hazel ammutolì, con la faccia scura e gli occhi inespressivi, che lanciavano fiamme. Era come se l'argento si stesse sciogliendo sotto la sua rabbia.
Non rispose. Voleva solo andare a casa e dormire, sempre se quegli uomini che l'avevano minacciata solo un mese prima, glielo avrebbero permesso.
─ Hazel, devi capire che Alex non è diverso da Sam. Anche lui ha venduto l'anima al diavolo e odia chi lo prende in giro. Che cosa credi che potrebbe succederti quando qualcuno glielo dirà? Pensa che questi sono affari della mafia Russa e loro non scherzano. Mai!
Hazel sgranò gli occhi e smise di guardare la strada, per condurli verso la direzione del guidatore.
Non aveva mai pensato alla mafia, ad un Alex con la pistola in mano pronto a ferirla, alla morte.
Lui in quei mesi l'aveva confortata, protetta a modo suo, fatta sentire importante e senza mai sminuirla.
Per quello una lacrima scese dai suoi occhi.
─ Hazel, sei stata fortuna ad aver incontrato Alex quando ancora aveva una coscienza. Ora è rossa come il sangue che sporcano le sue mani.
E a quelle parole, con le quali il ragazzo andava a ribadire per l'ennesima volta la sua situazione, Hazel capitolò.
Annuì. Nonostante ciò, non riusciva a spiegarsi il motivo di tutta quella premura nei suoi confronti.
─ Va bene.
E in quella risposta c'era tutto un mondo.
C'era che lei avrebbe presto lasciato il suo lavoro, quello di una vita; avrebbe lasciato casa sua e la quotidianità delle piccole cose. Ma più di tutto avrebbe lasciato Chris: l'amico, il confidente, il fratello di una vita.
Ma, nonostante la tristezza nel cuore, Hazel non lasciò cadere nemmeno una delle sue lacrime.
─ Ti invierò tra qualche giorno il biglietto e i vari documenti.
Poi, Hazel lo guardò smettendo di piangere lacrime inesistenti.
All'improvviso l'aria nell'abitacolo si fece troppo pressante, quasi soffocante.
Cercò di calmare il proprio respiro, ma ciò non accadde. Sulla lingua aveva una domanda inespressa, che doveva saltare fuori, altrimenti sarebbe esplosa.
─ Don, perché mi aiuti?
Lui sgranò gli occhi, quasi colpito la durezza di quelle parole. Ora anche il suo di cuore prese a battere rumorosamente. Doveva scegliere Donovan tra la bugia e la verità.
Alla fine, accostando l'auto sotto casa sua, prese una decisione.
Spense la macchina e spostò gli occhi sui suoi.
Erano grigi, erano impauriti, erano rassegnati, indifesi, colpevoli, c'era una donna che gridava all'amore e alla vendetta. In un istante il ragazzo credette di affondarvici dentro. Era facile innamorarsi di lei attraverso i suoi occhi. Per questo provò empatia per Alex.
─ Te lo dirò solo se tu risponderai alla mia di domanda ─ e sorrise teneramente, più per infondergli coraggio, che per altro.
Hazel sorrise a sua volta.
Colta di sorpresa e messa al muro, non poté fare altro che asserire con la testa.
─ Quando hai saputo di Alex perché non hai mai provato ad ucciderlo?
─ Ci ho provato, molte volte. Ma non ci sono mai riuscita.
Perché quando Alexander mostra il suo lato umano, non puoi fare altro che innamorartene perdutamente. Perché lui è bello, anche dentro e non lo sa e fa di tutto per mostrarsi per quello che non è. E io so cosa è lui, cosa sono io e cosa siamo noi. Anche se siamo divisi, non lo siamo veramente e continuiamo a cercarci tra i ricordi, tra gli sguardi dei passanti, tra gli alberi, la neve, il vento freddo che trasporta le nostre angosce. Perché lui si è presa una parte di me e io una parte di lui, e questo sarà per sempre. Ci siamo perfino divisi le paure.
─ Adesso sei tu che devi rispondere alla mia domanda, Don.
Il ragazzo parve vacillare, come se quel segreto, che aveva la forma dei suoi denti bianchi che andavano a scavare e a pungere la tenere carne delle labbra, fosse troppo importante, troppo imponente per poter essere espressa.
E si vedeva che Donovan era perso, lontano. Stava vagando con la mente al cielo, alle stelle, a Sam, Alexander e pure ad Hazel. E poi si girò, lentamente questa volta, e riprese a guardarla. Gli stava scavando dentro promesse che Hazel non riusciva a pronunciare o solo a capire.
Ma fece di sì con la testa, perché quel ragazzo aveva bisogno di qualcuno di cui potersi fidare.
Lo vedeva. Aveva un ansia che gli faceva splendere le pupille sotto la penombra del lampione. Aveva le mani chiuse nelle tasche del giaccone, ma Hazel lo sapeva che stavano ballando, quasi muovendosi al ritmo di una musica sconosciuta, notturna, vigliacca.
─ Sono un poliziotto.
E sarò vivo ancora per poco.
Ma questo Don, lo tenne per sé.
Spazio Autrice
Sì, potete tranquillamente lanciarmi uova marce addosso perché me le merito tutte.
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento e che sia lungo abbastanza da potermi far perdonare.
Ringrazio chi ancora legge questa storia.
Appena posso, comincio a revisionarla. Ci sono degli errori in giro che mi fanno accapponare la pelle.
Comunque, ci vediamo alla prossima.
(Spero non ad una prossima volta così remota, non ricordo nemmeno l'ultima volta che ho aggiornato.)
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