Capitolo 26
Ad Alexander non era mai piaciuto torturare o uccidere le persone.
Ma con il passare del tempo aveva trovato il lato positivo nel farlo.
Aveva imparato che gli uomini, anche quelli che si credono innocenti, sono colpevoli.
Ormai li vedeva tutti come dei carnefici, non più buoni di lui o del suo amico Sam.
Ognuno ha poi dei segreti che custodisce gelosamente dentro di sé, che corrodono l'anima e l'esistenza.
E questo Alex lo sapeva bene.
Perciò, ogni volta che si accingeva a torturare qualcuno, a farsi avanti non erano gli scrupoli, ma il dovere.
In quei lunghi tredici anni, ne aveva ammazzati di uomini e donne, ne aveva scoperto di segreti, arrivando alla conclusione che ci sono tanti tipi di cattiveria.
C'è chi pensa in modo cattivo, ma si comporta da malleolo buon cristiano.
C'è chi è cattivo per scelta, chi invece perché la vita non gli ha lasciato altra soluzione.
C'è chi lo è da tutta una vita.
Ma nessuno di quei omicidi, o di quelle grida di orrore e dolore, lo avevano elettrizzato come quelle del suo vecchio.
Dimitri era ora in suo pugno.
Niente lo aveva reso più felice nel vedere la sua sofferenza per le botte ricevute.
─ Allora, papino, cosa te ne pare? Sono cresciuto bene?
Uno sfottò, con un sorriso maligno disegnato su quei lineamenti asciutti, slavi, mentre sedeva sulla sedia di legno in maniera composta, con le maniche della camicia bianca arrotolate fin sul gomito e delle macchioline vermiglie a contornarle la stoffa pregiata.
Alex sentiva dentro di sé un tale fuoco, che tentava di divorare tutto, persino i pensieri.
Ogni tanto infatti, nel cercare di tenere buona quella forza divoratrice, stringeva i pugni, tanto forte da sentire l'unghia inabissarsi sulla carne morbida e le nocche divenire bianche.
Il padre accennò ad uno sguardo e poi gli regalò come risposta un sorriso macchiato di sangue, con qualche spazio lasciato vuoto, a causa dei denti caduti.
A quel punto, mentre stava per rialzarsi e ricominciare a pestarlo, qualcuno entrò nella stanza grigia, illuminata solo da una lampada al LED di un bianco troppo splendente per l'oscurità soffocatrice della stanza.
Alex drizzò gli occhi nella direzione del guastafeste, visibilmente infastidito per l'interruzione.
─ Чего ты хочешь?
(che volete?)
L'uomo non rispose, continuò ad avanzare verso la sua direzione, fino a quando giunto in prossimità della sedia, l'uomo gli fece un solo e semplice gesto, che valeva più di mille parole.
Reclinò la testa leggermente a sinistra, con una velocità tale, che tornò subito dritta, mentre accompagnava il gesto socchiudendo e aprendo subito dopo gli occhi scuri.
Alex rilasciò un lungo sospiro e con i pugni stretti, seguì l'uomo che nel frattempo, si era allontanato dall'uomo torturato tenuto legato su una sedia da una fascetta bianca ormai sporca di sangue, che affamata, stava lacerando lentamente la carne sottile dei polsi, leccando via la porzione più esterna dell'epidermide.
─ Allora? ─ fece Alexander in americano, visibilmente scocciato, per non farsi intercettare dall'uomo dall'altro lato della stanza.
─ Il capo dice che potrai farlo solo dopo aver ricevuto l'ordine da San Francisco.
─ Che cosa?! Credevo che era tutto apposto! Vladimir mi aveva assicurato che sarebbe andato tutto bene!
─ Senti, la fratellanza non è d'accordo...
─ No, Igor non è d'accordo. E lo sai perché? È Danil, lo sai perché?
Di tutta risposta, il giovane serrò la mascella e girò lo sguardo altrove, come a fargli capire che sapeva tutto, ma che era meglio per lui tacere.
Alex tirò fuori un lungo boccone di ossigeno, che fece si, che le narici si allargassero al passaggio di quel filo di vento bollente.
Poi stufo, stanco di qualcosa che sapeva di marcio, per quella situazione protratta troppo a lungo, dal quale sembrava non riuscire a venirne fuori; si passò energicamente una mano sulla fronte, toccandola, grattando sulla superficie, facendola divenire di un rosa accesso, quello stesso colore dato dalla troppa permanenza al sole, in estate, al mare senza pensare a proteggersi con una crema.
─ 'Fanculo.
Disse così e si avvicinò nuovamente a quello che legalmente sembrava essere suo padre, ma che in realtà era una bestia di uomo, un figlio di puttana, un bastardo senza valori.
Tutto quello che aveva fatto a sua madre, quella povera donna che per salvare il suo unico figlio, si era annullata.
In un attimo, mentre i pugni si abbattevano sulla carne, sui denti, sulle ossa deboli, rivide tutta quella sofferenza balorda che aveva causato.
─ Вы будете рады сейчас, папа?
(Sarai contento adesso, papà?)
Il cattivo, come tale, si limitò ad alzare la testa, colma di sangue rappreso, mentre del fresco continuava a colare giù dal naso, di un rosso scarlatto, vivo, come invece non era sua madre o sua nonna, o tutte quelle persone che avevano imparato ad amarlo, ma che sotto le sue orride e putride mani erano sparite, come foglie in autunno, sospinte dal vento, ridotte in mille pezzi a causa degli uomini che le calpestavano senza ritegno, con modesta indifferenza.
Mostrò i denti, in un ghigno perverso, mentre involontariamente ingurgitava quello stesso suo succo rosso, che continuava imperterrito e senza religione, a cadere.
Strinse in un gesto rabbioso le sue guance, stirando la pelle, facendo diventare il suo viso simile ad un pesce palla.
Lo guardò, con tutto l'ardore violento che possedeva, quello stesso ardore che con il tempo aveva imparato a moderare, e che ora, per fortuna del vecchio, stava trattenendo.
In un istante lo sguardo che sapeva di superiorità del vecchio mutò, divenendo stordimento, quasi terrore.
A quel punto fu Alexander a impastare il suo faccino con un ghigno innaturale.
Con un solo sguardo, il figlio aveva minacciato il padre, ricordandogli chi dei due aveva il coltello dalla parte del manico e quel coltello, stava giurando Alex, avrebbe smesso di lavorare solo quando l'argento della lama, si sarebbe mischiato con il rosso del sangue.
L'avrebbe macinato, fatto divenire carne da macello, pasto per i cani.
Di lui non sarebbe rimasto nulla, se non un corpo trivellato, smussato, marchiato.
Lasciò la presa, cacciò fuori un fazzoletto bianco con la quale pulì come poté il sangue sulle mani e poi si sistemò la camicia, indossò la giacca e la cravatta nera, per poi uscire, senza degnare più di uno sguardo gli abitanti di quella stanza tetra che puzzava di umido e chiuso, di ferro e sangue. Di morte. Ancora per poco, non quella del vecchio.
Quando si ritrovò fuori corse verso il parcheggio, dove la sera precedente aveva abbandonato la propria auto.
Faceva freddo a New York in quei giorni, forse troppo freddo.
Aveva piovuto ieri, troppo poco certo, ma quel poco era bastato per diventare ghiaccio.
Alexander si ritrovò ad alzare il viso verso il cielo: era terso, a metà tra il bianco e il grigio. Non c'era spazio per quel cielo fatto di soffici batuffoli di lana, di caldi raggi di sole o semplicemente dell'azzurro del giorno.
Prese le chiavi dalla tasca del giaccone nero che indossava e pigiò il pulsante con il lucchetto aperto. Poi entrò nel SUV, mise in moto e partì.
Mentre ormai si era allontanato dall'Hotel, quei pensieri che facevano pesare la testa, si aggrovigliarono sempre più, tali da non potersi reggere più da soli.
Sempre stando attento a non staccare di molto gli occhi dal volante, cacciò fuori dalla tasca dei pantaloni il telefonino, per chiamare l'unica persona che avrebbe disciolto un po' quei suoi lacci mentali.
Sam rispose dopo poco, al secondo o terzo squillo appena.
─ Ehi russo allora, com'è andata col papino? Morto?
Un po' gli dispiaceva ad Alex, dover ammazzare quell'entusiasmo che investiva Samuel, ma a quanto pare, quella era l'unica cosa che poteva uccidere in quel momento. Senza nemmeno accorgersene strinse forte il manubrio in pelle, mentre la pelle gli sussurrava perché voleva stringere su un caldo collo, lì dove la vene preme battiti di vita, pompando sangue, sentendola scivolare nell'oblio ad ogni stretta, sempre più forte, sempre più violento. Ma l'unica cosa che percepiva in quel momento, era il freddo sudore appiccicato su quella lucida pelle.
─ Non è morto. Non ho potuto... ─ quanto costava dover pronunciare quelle parole. Aveva una voglia matta di spaccare tutto, ogni cosa che gli stava vicino, perfino tirare con tutta forza il freno a mano, staccarlo e lanciarsi all'inseguimento di quell'idiota del cazzo che lo aveva appena superato, solo per dimostrare la propria forza, con l'Audi comprata in contanti dal papino ricco.
Prese quindi un grande respiro, ingoiò saliva mista ad ansia, ignorando perfino quel bruciore, quel pizzicore, che pungeva in prossimità della punta delle dita e poi riprese finalmente il discorso ─ ucciderlo.
─ Come non l'hai ucciso?!
La voce alterata e incredula di Sam, rispecchiava alla perfezione lo stato d'animo di Alexander in quel preciso istante.
─ Già anche io non posso crederci. Era a pochi metri da me e non potevo spezzare una volta per tutte quella sua schifosa vita del cazzo!
Un altro respiro.
Ancora un altro e poi prese ad aumentare la velocità, toccando i cento chilometri orari, arrivando a toccare, a sfiorare la macchina metallizzata grigia di quei strafatti.
E di rimando loro presero ad accelerare e così faceva lo stesso Alex.
Arrivava a sfiorare il cofano e poi lasciava andare di poco la velocità, per ritornare esattamente a dove era prima.
Vide il ragazzo al volante lanciargli uno sguardo torvo dallo specchio retrovisore centrale, per poi cambiare subito, non appena i suoi occhi nocciola non avevano incontrato quelle lastre di puro ghiaccio del russo.
Attraverso un solo sguardo - che sapeva di vendetta e violenza - era riuscito a far abbassare la cresta a quei galli, che ora erano tornati ad essere polli.
Con i figli di papà era così semplice: si pavoneggiavano a ragazzi vissuti, a grandi guerrieri barbari, ma poi quando incontravano uno che di violenza ne aveva subita fin troppo, allora tornavano a fare i vigliacchi con i soldi del papino.
Dopo poco, quando quelli avevano ben inteso contro chi avevano cercato di combattere, perdendo ovviamente, era tornato ad una andatura più che normale.
─ Potrai rifarti questa sera. Vodka, armi e sangue. Un aperitivo più che dolce.
Se lo stava già immaginando quel sadico del cazzo, mentre pronunciando quelle parole gli occhi brillavano di un'oscurità martoriante, di un indecifrabile cattiveria gratuita. E poi, quasi sicuramente, aveva chiuso quella macabra recita facendo un occhiolino.
Alex sorrise instintivamente.
─ Ti hanno mai detto che sei un grandissimo pezzo di merda?
Sentì una risata dall'altra parte e poi una voce alterata da una inopportuna felicità.
─ Più di una volta, russo! C'è altro che devi dirmi?
Alex stava per rispondere con un secco no, ma poi improvvisamente si ricordò di una cosa, che gli era saltata alla mente mentre ripensava a cosa era successo solo quella mattina, che mai quanto in quella situazione, valeva letteralmente il detto "Il buongiorno si vede dal mattino".
─ In realtà una cosa c'è, però è meglio parlarne a quattro occhi.
─ D'accordo russo, ma non ora, sono a fare quello che avresti dovuto fare anche te.
Poi sentì dall'altra parte un vociare, ma non sommesso; la voce di quello che gli sembrò essere un uomo, gli arrivò all'udito tremolante, come il canto straziato di un animale braccato, ferito.
─ Va bene, ci sentiamo più tardi.
Nel frattempo si era mosso per prendere l'autostrada e sbucare al casello che lo avrebbe portato verso Manhattan.
Il traffico procedeva veloce, le macchine gli sfrecciavano vicino, senza che lui ne fosse minimamente interessato.
Era solito, durante i lunghi viaggi, accendere la radio e ascoltare della buona musica, ma quel giorno i pensieri sembravano proprio non volerne sapere di essere zittiti con delle altre parole ritmate.
L'unica considerazione che aveva in quel momento, era di andare nel suo appartamento, preparare un borsone con dei suoi vestiti e ritornare da Hazel.
Il pensiero di dover condividere con lei un pezzo di quotidianità, lo fece sentire leggero e pesante allo stesso tempo. Non sapeva coma spiegare quei sentimenti così contrastanti che si stavano smuovendo in lui, ma si spronava a ricordare: non lo stava facendo per lui, ma solo per lei.
Era lei la crisalide da dover proteggere, accudire, perché un giorno sarebbe diventata farfalla, forse una piccola farfalla nera.
Finalmente vide all'orizzonte lo scheletro in cemento del suo appartamento lussuoso, spento, solo in mezzo al caos di quella Manhattan sfarzoso, caotica, solo come New York sapeva essere.
Parcheggiò nel box-auto personale e fu subito nel suo appartamento.
L'odore di detersivo alla mandorla gli arrivò dolcemente alle narici, segno che la signora Shelby aveva rimesso a lucido ogni angolo della casa, combattendo la polvere delle mensole, del legno di cedro quasi innamorato degli acari.
Come suo solito buttò le chiavi sul ripiano bianco del bancone incluso nella cucina e senza nemmeno togliere la giacca, si precipitò nel ripostiglio, là dove vi erano riposte le valigie e i borsoni.
Era tutto così esattamente in ordine in quell'appartamento.
Ogni mobile, ogni pezzo di mobilificio, ogni cianfrusaglia comprata in qualche negozio dove perfino una semplice forchetta costava più di un salario di un operaio.
E in quello sgabuzzino, con gli armadi a muro a coprire tutta la stanza, ogni cosa seguiva un suo ordine maniacale, tutto era inserito nel modo gerarchico dell'ordine: le cose utilizzate più spesso stavano in basso e nel mezzo, quelle utilizzate raramente invece in alto.
Si alzò in punta di piedi, mentre le scarpe in camoscio venivano puntellate di crepe fittissime, quasi a voler simboleggiare tanti sorrisi stirati, quasi rugosi, e afferrò il borsone in pelle marrone scuro, finemente curato dalla famosissima casa di moda Louis Vitton.
Nel prenderlo, un pezzetto della camicia bianca era sfuggita al controllo saldo della cintola dei pantaloni. Poi si avviò nella propria stanza, dove perpendicolare alla porta di ingresso, vi era la cabina armadio stra colma di camicie, pantaloni, vestiti eleganti, cravatte e papillon, finemente sistemati nei cassetti, ognuno al posto in cui era nato per stare.
Anche lì, venivano seguite alla lettera le leggi dell'ordine e il rispetto della gerarchia.
Senza fare troppo casino, Alex cominciò a buttare dentro il borsone costoso le cose che più gli sarebbero state utili come: maglioni, pantaloni, jeans e poi le cose da bagno.
Quando ebbe finito, chiuse la lampo marrone e lo afferrò saldamente per i manici in pelle.
Nel passare per l'atrio, si ritrovò ad essere fermato dal portinaio che gli consegnò una lettere, che più che una lettera sembrava un invito a qualche cerimonia. Ringraziò il portinaio di turno, tutto imbellettato nella sua divisa nera elegante e finalmente raggiunse il posto in cui aveva lasciato l'auto.
Azionò con il telecomando delle chiavi il pulsante di apertura dei sportelli, e dopo averci lanciato la valigia sui sedili posteriori in pelle lucida, il telefono prese a squillare.
Infastidito, irritato, lo estrasse con malavoglia dalla tasca anteriore dei pantaloni.
Sullo schermo che si era illuminato prese a leggere il nome di Cathlyn Stan.
Chiuse per un attimo gli occhi e fece un bel respiro. Poi come se niente fosse, come se non lo sapesse che lei c'entrava eccome con la storia di Dimitri, accettò la chiamata.
─ È sempre un piacere ricevere una tua telefonata. Che cosa succede, Cat?
─ Anche per me è sempre un piacere parlare con te, Alex. No, ti avevo semplicemente contattato perché ho delle cose da chiederti di persona.
Poi ci fu silenzio, intervallato ogni tanto da dei sospiri di sottofondo, ogni qual volta magari, Chathlyn si ritrovava a buttar aria troppo vicino alla cornetta.
─ È urgente la questione? ─ chiese alla fine il russo, guardando distrattamente il Rolex che aveva al polso.
Doveva sbrigarsi, voleva assolutamente essere da Hazel prima di sera, così avrebbe potuto cenare con lei. Lo voleva più della sua stessa vita, in quel momento.
Sentiva già il sapore che avrebbe avuto quella strana e breve convivenza. Il pensiero di svegliarsi la mattina e vederle ritratto sul viso i segni ancora freschi della notte, del sonno che ancora non l'aveva lasciata andare; la possibilità di percepire ogni sera il profumo di casa sua.
─ Perché, hai per caso da fare?
Sentì dell'irritazione trasparire dalla voce della donna e ne poté immaginare anche il perché.
Nel periodo in cui Alexander era appena entrato, aveva avuto una mezza tresca con il suo boss. Questo era continuato per un anno buono e poi era finita perché lei si era stancata.
C'era da dire che lei, si stancava facilmente dei giocattoli quando diventavano vecchi.
Alex si era fatto sedurre e un po' ci aveva creduto in loro, forse perché era ancora ingenuo o forse perché non poteva credere di essere riuscito a destare l'interesse di una donna del genere, così di classe, immensamente bella, come solo Chathlyn sapeva essere.
Passata la bufera di passione e lussuria che gli aveva invaso ogni angolo del corpo il primo anno, il secondo si era ritrovato a pensare che forse sesso e interesse personale non suonavano poi così male insieme. Ed erano quindi finiti per usarsi, forse per motivi differenti, o forse così credevano entrambi, dato che a Chathlyn un uomo come Alex faceva comodo.
Ora invece le cose sembravano divergere su un altro piano.
Lui ormai non aveva più interesse per lei ed il motivo era semplice: odiava i segreti e lei ne custodiva troppi. Era come se si nutrisse dei segreti degli altri, facendoli diventare propri. In quegli occhi blu sottili non vi riuscivi a scorgere niente di cui lei non volesse; riusciva a controllare tutti e tutto. Era una donna forte, intelligente, sapeva mettere al proprio posto chiunque cercasse di sopraffarla, di fregarla.
Ma era cattiva, di una cattiveria subdola e quando credeva che i suoi giocattoli, se pur vecchi, le stessero scivolando di mano, allora...beh, riusciva ad essere anche più subdola del normale. Diveniva letale.
─ Adesso sì, se vuoi ci possiamo vedere d...─ ma non riuscì a finire la frase, che lei riprese in mano il discorso per concludere poi la telefonata.
─ Ci vedremo direttamente domani sera al gala.
Guardò quella busta che aveva saldamente ancorato alle falange e si ritrovò a girarla, accorgendosi che sul retro vi era inciso la solita sigla – curvata, tutta circoncisa su stessa – che annunciava la cena di gala organizzata dall'organizzazione.
Se ne era completamente dimenticato e se non glielo avessero ricordato, forse avrebbe letto quell'invito a qualche settimana di distanza.
Con uno sbuffo, ricacciò il cellulare in tasca e si mise finalmente in marcia.
***
─ Ciao, che cosa prendete?
L'uomo seduto al tavolo continuava a rigirarsi il menù tra le mani, passando gli occhi su quasi tutti i piatti, con fin troppo lentezza.
Hazel era stanca. Stava lavorando ormai dall'inizio della mattinata, perché Sally non poteva e quindi era stata costretta anche a coprire il suo turno. Ormai erano le dieci passate e oltre a l'uomo che le stava di fronte, non c'era più nessun'altro seduto ai tavoli.
Perciò in quel momento, avrebbe tanto voluto che facesse la sua ordinazione in fretta, così altrettanto velocemente, se ne sarebbe andato.
Fece per aprire la bocca, ma nessun suono uscì dalle sue corde vocali e così, continuando a leggere, la richiuse.
La biondina aveva seguito con gli occhi ogni suo gesto in trepidante attesa, attesa che poi si era rivelata soltanto una scottante sconfitta. Represse dentro di sé quella forza violenta e aggressiva, che vedeva riflessa in uno schiaffo sulle guance paffute del cliente.
Scrollò impercettibilmente la testa, senza farsi notare.
─ Prenderò un caffè nero e una fetta di torta al triplo cioccolato.
Finalmente aveva parlato e dettato la sua calorica ordinazione.
Con gli occhi puntati sulla pagina bianca a righe nere del taccuino, Hazel gli fece gentilmente sapere che la torta era finita e che se voleva, l'unica ancora rimasta era quella alle pesche e qualche ciambella con la glassa sopra, forse ai frutti di boschi.
L'uomo all'inizio le rivolse uno sguardo di traverso, quasi sinistro, ma subito dopo il suo viso tornò a risplendere quando nominò le ciambelle.
Circa quaranta minuti dopo, il diner fu chiuso.
Salutò Jon e indossato capello e capotto di panno nocciola, uscì da quella tormentosa giornata lavorativa, che sembrava non finire mai.
Respirò a pieni polmoni l'aria fredda della notte, mentre il suo corpo caldo per via del contatto con l'interno del locale, stava via via scomparendo tra le nuvolette bianche dei suoi respiri, condensandosi tra il gelo dei meno sei gradi.
Sistemò un po' meglio il berretto di lana sulla testa e distrattamente puntò lo sguardo davanti a sé, accorgendosi della presenza di un uomo.
Se ne stava appoggiato con le gambe incrociate allo sportello chiuso di quello che le sembrava potesse essere un SUV dello stesso colore del cielo notturno, con le mani infilate nelle tasche dei jeans, una matassa di capelli scuri e l'aria di chi sentiva tutto con indifferenza.
Sentendo di essere osservato, lo sconosciuto alzò gli occhi, puntandoli verso di lei.
Hazel smise di respirare.
Quegli occhi così trasparenti le sembravano brillare di luce propria, una luce che stava andando a coprire perfino quella argentata delle stelle, perennemente attaccate alla stoffa di seta blu scuro.
I piedi – se pur congelati per via delle scarpe bianche in tela – cominciarono a muoversi da sole, senza che il suo cervello assopito glielo comandasse.
Fece tutto quello che faceva normalmente prima di attraversare la strada: guardò prima a destra e poi a sinistra, e una volta assicuratasi che essa fosse libera da qualsiasi pericolo, l'attraversò e poi semplicemente era già dall'altra parte.
Alex non aveva mosso un passo, nonostante si fosse accorto di quello che Hazel stava per fare, non aveva nemmeno mosso le mani fuori dalla stoffa confortevole e calda dei jeans. Si era limitato soltanto a guardarla...come sempre d'altronde.
A lui piaceva che gli occhi si perdessero in lei, tra quei capelli lisci, ma perennemente in disordine. Nel corpo nascosto dalle maglie larghe e dai maglioni di lana infeltriti. Nel rossore che imperlava le sue guance quando lui la osservava troppo, sentendosi violata.
─ Ciao, come mai qui?
Sorrideva e sembrava felice di vederlo. Questo fu il pretesto che Alex cercava per potersi muovere. Cacciò le mani dalle tasche e le diresse verso i fianchi stretti di Hazel.
Delicatamente la trascinò verso la macchina, fece aderire la sua schiena al freddo della lamiera e la incastrò sotto il suo corpo. Non le diede nemmeno il tempo di metabolizzare quello che era appena successo, che le rubò un bacio, e poi due, e tre.
Era felice.
Felice di vederla e felice di vedere che per lei era lo stesso. Non se l'era mica sognato quel sorriso sulle labbra che le era sorto in viso, non appena aveva aperto bocca vedendolo. Non se l'era mica immaginato quello strano luccichio negli occhi chiari di lei, che andavano a contrastare l'alone di malinconia perenne. Quegli occhi che contenevano gelosamente un segreto, a qui era stato vietato l'accesso ad Alex di prenderne coscienza.
Sentì una carezza fine attraversargli gli avambracci, risalire poi per le braccia e arrivare alla testa, stringendo in un pugno indolore i propri capelli.
Il russo ebbe la forza di staccarsi, di guardare le labbra rosse, gonfie, il desiderio ritratto sul corpo di lei, chiudere gli occhi e invitarla ad entrare nell'automobile e andare via da lì.
Mentre erano in macchina nessuno osava spezzare il silenzio, quello che era diventato ormai il loro migliore amico. Si guardavano entrambi di sfuggita: quando uno alzava gli occhi sull'altro, quell'altro girava il viso dall'altra parte. Un mordi e fuggi continuo, fino a quando lo stomaco di Alex che infido, vigliacco, cominciò a brontolare. Hazel sorpresa, si fece sfuggire un piccolo e innocente sorriso.
─ Hai fame? ─ gli chiese candidamente.
Alex staccò per un attimo gli occhi dalla strada, giusto il tempo per lanciarle un ammonimento con il viso, per poi tornare subito su di essa.
─ Non sapevo che avresti finito così tardi.
Hazel era però confusa. Non riusciva a decifrare il messaggio nascosto dietro quella semplice frase. Perché avrebbe dovuto aspettarla? Di solito non lo faceva mai, quella era la prima volta che si degnava perfino di riportarla a casa.
Alex leggendo lo smarrimento nelle pupille e nel viso della ragazza, si accinse a darle le dovute spiegazioni.
─ Te lo detto questa mattina: io starò da te, fino a quando questo polverone non si sarà calmato.
─ Quindi eri serio questa mattina quando me lo hai detto! Non era uno scherzo, il tuo!
Hazel era incazzata e stranamente tranquillizzata.
Incazzata perché non si era degnato nemmeno di chiederglielo con il dovuto rispetto, senza considerarla nemmeno; eppure si trattava di prendere una decisione importante per entrambi, quello era un passo che facevano solo quelli che si stavano per sposare o per quelli che erano ancora indecisi se credere o no al matrimonio. Tranquilla perché come si prendeva cura lui di lei, o come solo lui la proteggeva, non l'aveva fatto mai nessun ragazzo prima di allora.
Buttò lo sguardo dietro di lei, osservando quel borsone dal materiale costoso sdraiato sui sedili in pelle.
C'era qualcosa in quella valigia che la fece capitolare, fece si che la rabbia scemasse, lasciando il posto ad una considerazione, ad una scottante verità. Il fatto era che Hazel era stata minacciata di morte e che quei tipi – le losche figure vestite di nero – conoscevano ormai i suoi spostamenti, le sue abitudini e chi sa, perfino quanti passi distanziavano il suo condominio dalla fermata dell'autobus, quei passi che lei compiva ogni santo giorno, per andare a lavorare.
Vedeva in Alex l'unico crociato che avrebbe combattuto quella guerra al suo fianco, senza mai abbandonarla, curando le sue ferite, riuscendo a farla rialzare ogni volta che veniva abbattuta o si lasciava trascinare per terra, perché la situazione richiedeva una forza d'animo tale, che lei sapeva non possedere più da tempo.
Tornò con il viso all'uomo, che ancora una volta, le stava mischiando le carte intavola, passando dall'Igor della tragedia, allo stesso Otello. Prima antagonista, poi protagonista.
Ormai perfino il cervello chiedeva pietà.
─ Quando arriveremo a casa, vedrò di cucinarti qualcosa.
─ Non è un problema per me. Posso fare anche da solo.
Lui faceva tutto da solo. Lui contava solo su stesso. Lui era solo.
Sola, proprio come era lei.
A volte si domandava se non fosse stato proprio il destino a farli incontrare. Ormai si erano accettati, nonostante quei demoni che gli correvano dietro, ballavano sulle proprie anime corrotte, nutrendosi delle proprie insicurezze.
─ Ah, prima che me lo dimentichi di nuovo. Domani sera c'è una cena di gala con il clan e poiché non posso lasciarti da sola, allora ho deciso di portarti con me. Non puoi scegliere Haz, e lo sai.
Già, non poteva. Non più ora mai.
Spazio Autrice.
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, dato che mi ripresento dopo tutto questo tempo con questo testo un po' moscio, ma capitemi, la storia sta facendo il suo corso, sta entrando nel vivo.
Alla prossima.
PS. Ricordatevi di commentare e lasciare una stellina, sapete fa sempre piacere sapere che c'è qualcuno oltre questo muro virtuale.
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