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Capitolo 25

Spazio Autrice.
Buona Sera a tutti.
Inizio con lo scusarmi per il ritardo, al quanto ingiustificabile, però capitemi, l'università mi sta portando via molto, forse troppo tempo. 
Anyway, c'avrò messo poco più di un mese e mezzo, ma il capitolo è pronto!
Prima che cominciate a leggere, forse è meglio un piccolo riassunto.

Nello scorso capitolo abbiamo visto Hazel alle prese con un pacco. Al suo interno si trovava una bambola con la testa mozzata e una foto ritraente una bambina, con il viso deturpato da una scritta "Sappiamo chi sei". Ovviamente Hazel comprende subito che si tratta di una minaccia alla sua vita, fatta dagli stessi uomini che l'avevano seguita solo qualche giorno prima, quando era uscita con Chris.
In preda allo sconforto, tenta di chiamare Sam, ma non appena il ragazzo risponde, lei decide di riattaccare, troppo codarda per farlo. Ma Sam capisce e così si fa trovare sotto casa sua, dopo qualche ora. Insieme si recano nel Queens, dove Alex, dopo una notte al quanto turbolenta con i messicani, rimane a "dormire" da Maria, nell'Hotel dove i russi tengono suo padre.
Ma Sam fa tutto questo, non per beneficenza, ma per far allontanare la biondina dal suo amico.
Bene, eravamo rimasti con Hazel in preda ad un infarto. 

Ah, e ovviamente, la foto è stata nascosta. 

Buona lettura e auguri di qualsiasi festa passata.

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Hazel continuò a guardare il viso della ragazza con l'aria distante, immobilizzata da quell'eterna disfatta verso la vita, verso quel freddo invernale che proveniva dal corridoio fastoso. Sentiva il respiro farsi sempre più pesante, mentre costretta a camminare veniva avanti con titubanza, sfiorando quel corpo magico che purtroppo non le apparteneva.

Nella stanza allegava il suo odore.
Affranta, stravolta, abbattuta si era placidamente seduta su una sedia, in quello che rappresentava il piccolo soggiorno della suite matrimoniale.
Per tutto il tempo stette in silenzio.
Le immagini riflesse di quegli ambigui protagonisti le passarono vicino, ma non la sfiorarono. Andavano troppo veloci. Anche i suoni arrivavano sordi alle sue orecchie.
Tutto era successo quando si era imbattuta in lui, persa nel mare d'inverno che erano i suoi occhi.
Averlo visto entrare in quel piccolo soggiorno con solo i boxer indosso, era stata una frustata sanguinante, perfino più dolorosa di un lama avvelenata di un coltello, che lacera la carne debole.
E poi lui si era arrestato. Immobile, vicino lo stipite della porta, sorpreso, preso in contro piede.
Si erano guardati, ancora per qualche altro istante e poi gli aveva detto ciao.
Un semplice e sussurrato ciao, che nascondeva quella sensazione di sfinimento che sentiva dentro di sé.
E così se ne era rimasta zitta e buona seduta su quella sedia, a guardare il paesaggio fuori dalla finestra.

Pioveva.
C'era un sottile strato di nebbia.
Percepiva l'odore di pioggia, di bagnato, di quella terra artificiale e delle nubi nere di smog.
I comignoli delle case immaginarie.
Il rumore delle gocce che parevano battere sonore sul soffitto.
Il suo stomaco vuoto.
La saliva che scendeva lacerante giù, lungo la laringe, come palline di argilla, quelle usate per mantenere la terra nelle aiuole fresca.
Il puzzo lontano della sigaretta e quello forte della vodka.
Il suo odore.
E poi tornò a galla una scena, da quello che era il cilindro magico della memoria.

Sdraiati sul letto matrimoniale, Alex e Hazel se ne stavano in silenzio a contemplare il bianco del soffitto.
Lì, sul tavolo, stava abbandonato un posacenere di ceramica rosa, macchiato dal grigio della carta bruciata, di nero, pieno di cicche e di sigarette ormai finite.
Hazel aveva indosso una camicetta nera, con il colletto a U bianco, come il vestito di Mercoledì, la ragazza gotica della famiglia Adams.
Ai piedi, pesanti anfibi bordeaux.
Il materasso era morbido, ma si sentiva che era stato acquistato da poco. Le lenzuola bianche, morbide e perfettamente stirate, sapevano di buono, di bucato appena fatto.
Alex non si era nemmeno tolto il cappotto, semplicemente si era buttato su quella trapunta celestina senza pensarci due volte.
Le spalle di entrambi si toccavano, le mani invece, si sfioravano, ma nessuno dei due sembrava accennare a spingersi oltre. Perché spingersi oltre  avrebbe significato ammettere quello che entrambi, con tutte le forze che avevano, tentavano di mantenere segreto.
Hazel poteva sentire un leggero ronzio - come di una piccola ape, che in un giorno di primavera, con il sole caldo e l'erba splendente, si aggira a punzecchiare una piccola margherita - venir fuori dal petto di Alex. I polmoni erano stati contaminati dal fumo del tabacco, che vi entrava e usciva da anni ormai.
Alex non accennava mai al suo passato. Sembrava quasi che ne fosse rimasto talmente tanto scottato, che il solo pensiero di tornare indietro con le immagini e rivivere un solo di quei momenti, avrebbe riacceso il fuoco ormai spento sulla pelle.
Ma se ci pensava, anche per lei il passato era il mostro che ti tiene compagnia nelle notti più profondi, sotto il letto ad aspettare il momento esatto per agire.

─ Ci credi ai fantasmi, A? 

 Dipende da quali fantasmi?

─ I fantasmi sono tutti uguali, non c'è distinzione tra buoni e cattivi. Quelli stanno lì solo per roderti la vita, per farti annegare in quel mare melmoso che sono i ricordi. Cristo, cosa darei per ammazzarli uno ad uno.

L'uomo non rispose, semplicemente cacciò dal pacchetto un'altra sigaretta che accese e portò alla bocca. Succhiava, respirava e poi sputava, con estrema lentezza e con quella sua eleganza da uomo di altri tempi.
Hazel si scoprì improvvisamente attratta da lui.
Era bello Alexander, con quei suoi occhi ghiaccio, magnetici, freddi, quasi calcolatori. Le mani grandi, vissute, con le vene in rilievo. L'eleganza e il portamento di pochi. La sicurezza dietro le spalle dritte.

 Sarebbe come vincere un milione di dollari al Bingo. Però io credo che non ci sia solo il passato a tormentarci. Certo, c'è chi non ha avuto bisogno di combatterli per tutta la vita e c'è invece chi si è lasciato soffocare da essi, ma per me siamo anche noi stessi gli stessi carnefici. Ci uccidiamo ogni giorno, con quei pensieri oscuri, talvolta anche cattivi e bugiardi. Pensiamo troppo e agiamo poco. Dovremmo imparare a non aver paura di accettare quello che siamo.

─ Aveva una scatola in mano, ma non so altro. Ma fallo tu, chiedi direttamente a lei. Cazzo, io vado a pisciare. e Sam si alzò, grattandosi nervosamente il capo, facendo annodare i ricci, già di per loro incasinati.
E poi gli occhi furono tutti puntati su di lei, che era appena riemersa dalla nube dei ricordi, che avevano il sapore amaro del rammarico.
 Emm... e poi si fermò, in disagio, perché non era abituata ad avere così tanti occhi puntati all'unisono su di lei, che la spiavano, dietro quel muro che metteva su per difendersi.
I suoi occhi vagarono nella stanza, per poi fermarsi su quelli nocciola della ragazza, che se ne stava impettita appoggiata al termosifone bianco della stanza, con la sigaretta accesa stretta tra le dite affusolate, smaltate di verde, quasi a voler stare fuori da quella fotografia sfocata. Anche in quella posizione risultava conquistatrice, donna sicura delle sue doti, ammaliatrice di popoli. Aveva un'eleganza passionale cucita addosso.
Quanta invidia provava per lei.

Hazel, tesoro...

La sua voce. Profonda e roca.
Non seppe il motivo, ma sentiva le gambe divenire molli e il corpo essere trapassato da mille brividi differenti.
Ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi e questo fu una grande sorpresa per lei. Ancora una volta cominciarono a comunicare solo tramite essi. Loro lo facevano sempre. Sfruttavano il silenzio che piombava tra di loro e parlavano.
Una strana patina nacque nel suo stomaco, come se invece dei biscotti, per colazione avesse ingerito fango.
In un attimo fu in piedi, con il viso pallido corse verso il bagno, liberato proprio in quel momento da Sam, che appicicatosi al muro e con le mani alzate, la lasciò passare.
Lo sciabordio dello scarico e della vaschetta che lentamente si andava a ricaricare, erano gli unici rumori che si potevano udire in quel momento. Hazel cadde in ginocchio e con uno sforzo sovrumano, rigettò tutto quello che aveva nello stomaco.
L'ansia era sempre stato il suo più grande nemico. La uccideva, la lacerava e lei glielo lasciava fare, non avendo il coraggio di cambiare quello status nel suo cervello.
Solo che in quel momento all'ansia si era a data ad aggiungere il terrore per quello che le era capitato, per quello che i suoi occhi avevano dovuto sopportare e la costante presenza della morte e il dolore nella sua vita.
Si sentiva inopportuna, una rietta, una che dove essere rinchiusa per sempre in una stanza e basta.
Non sentì i passi alle sue spalle, li percepì soltanto. Si rese conto della presenza dell'uomo quando quest'ultimo sbatte la porta alle sue spalle e girò così il chiavistello.
Hazel aveva la faccia rossa, colpa degli sforzi per rimettere quel poco ingoiato a colazione e la bile, che aveva reso la sua bocca amara.
Quando ebbe finito, si accasciò di fianco al water color avorio e alzò lo sguardo nella sua direzione.
Aveva gli occhi lucidi, mentre quelli dell'uomo erano una maschera di ghiaccio.
Ci fu di nuovo silenzio, ma la rabbia trattenuta debolmente da Alex, divampò come la fiamma a contatto con l'alcool.

Spiegami che cosa sta succedendo, ora!

Hazel ebbe per un attimo paura, tanto che si portò al petto la gambe fasciate da jeans chiari, dei modelli a vita alta, tipici proprio degli anni 80. Ma né una sillaba uscì dalle proprie labbra, che tenne strette, chiuse in un espressione contrariata.
L'uomo stava perdendo decisamente la pazienza, glielo si poteva leggere negli occhi, che proprio in quel momento avevano perso la loro naturale freddezza. In un gesto nervoso, prese a muovere convulsamente i capelli, a sfregarli per poi risistemarli all'indietro, come era solito portarli.

─ Te lo ripeterò per l'ultima volta. Che cosa cazzo sta succedendo!

Non urlò e non sembrò nemmeno così alterato, dato il tono tranquillo utilizzato. Certo si poteva leggere una intonazione che convergeva verso l'infastidito, ma finiva lì. Era così bravo a nascondere le sue reali emozioni, che fu proprio per quello che Hazel riprese a tremare più forte. Con lui non sapevi mai che reazione avrebbe avuto.
Ancora una volta, non uscì una frase dalla sua bocca, solo strascichi di parole e versi senza senso.
Di solito soltanto guardando i suoi occhi, qualcosa riusciva a muoversi in lei, come se riuscisse a ritrovare la calma e il coraggio di cui necessitava. Non in quel momento. C'era dell'altro che la bloccava, e non era di certo per la ragazza dai lunghi capelli lì fuori. No, sembrava forse che quel segreto, con la quale aveva animato il proprio coraggio per approfondire quella strana relazione, ora cercasse di venir fuori, graffiando le membra del cervello, rosicchiando le ossa del cranio. E questo lei non poteva permetterselo.
Ingenuamente fece cadere lo sguardo sui propri anfibi martoriati, mentre di nuovo, uno strascico provenienti dal passato, si palesò davanti ai suoi occhi.

Il sole le accecava gli occhi chiari, cosa che la costrinse a mettere una mano davanti ad essi, per farsi ombra.
Il vento caldo le solleticava la pelle accaldata, patinata e luccicante di sudore. 
Tutto intorno si percepiva l'odore della terra arsa dal sole e il nitrire del cavallo, del purosangue nero che suo fratello, fuggito dal calore asfissiante di una New York estiva troppo affollata, cavalcava con vigore, con una felicità ritrovata.
Suo padre se ne stava in disparte, sotto il gazebo montato per ripararsi da quella calura scottante, mentre animatamente seguitava a parlare al telefono. 
Sembrava infastidito, quasi arrabbiato con la persona dall'altra parte e non si accorse nemmeno che la figlia più piccola lo stava osservando, cercando di capire cosa stesse succedendo.
Sua madre non era abituata a questo genere di cose. Quella se ne stava nella frescura della villa, in città. Solo se costretta o per via di qualche ospite importante, si recava nelle terre di campagna della famiglia.
Era tutto così perfetto.
Tutto si succedeva in una lentezza abitudinaria. 
Le sembrava che tutto le fosse dovuto, a lei, a quel fratello che da qualche anno a quella parte si era allontanato da lei, troppo piccola ancora per poter comprendere che suo fratello semplicemente si stava costruendo un proprio futuro e che non l'aveva tradita, a quella famiglia che si era potuto permettere sempre tutto.
Hazel tornò con lo sguardo verso suo fratello. Sorrise nel vederlo così concentrato a tenere salde le briglie del suo destriero e trotterellando felice, si avvicinò alla staccionata in legno, con gli stivali a punta marroni, lasciando dietro di sé, che piccole nuvolette si alzassero. Poggiò i gomiti sulla staccionata formata da paletti simili a siluri, pensando che se l'avrebbe vista sua madre, sarebbe inorridita e avrebbe sicuramente storto quella sua bocca sottile, sempre accentuata da un rossetto rosa pallido.
Ma per fortuna lei in quel momento non c'era, e lei, proprio come suo fratello e suo padre, si sarebbero goduti la giornata senza pensare a niente.
Hazel puntò lo sguardo verso la prateria di cui erano proprietari e un sorriso genuino apparve sul viso. Si sentiva potente, come se nessuno al mondo avrebbe mai potuto portargli via quell'angolo di paradiso.

Lentamente tornò con la mente al presente e portò i suoi occhi in quello dell'uomo, che nel frattempo si era inginocchiato per poter arrivare alla sua altezza e osservarla meglio. Sul viso contratto di Alexander apparve un mezzo sorriso di rassicurazione e per questo, vedendo che la ragazza gli dava finalmente attenzione, si sentì in dovere di allungare una mano verso la sua direzione e accarezzarle la guancia con il dorso della mano.
Hazel spostò il viso dall'altra parte, improvvisamente infastidita da quel suo semplice e genuino gesto. Vide il rammarico negli occhi blu di Alex, ma fu una fiamma destinata a mutare così velocemente come era nata. Pochi istanti dopo infatti, lesse rabbia e la mascella fu di nuovo contratta.
Lei si limitò a deglutire. 
Il russo allora con un balzo si alzò in piedi, in un palese gesto di intimidazione. Sentiva una delusione cocente fermentarsi nello stomaco, un emozione però, che si andava ad unire alla voglia di soccomberla, di sottometterla e di fargliela pagare. La sentiva troppo distante e non riusciva a capire. Certo, poteva esserci rimasta male per la scoperta di Maria, ma Hazel gli aveva dato l'impressione di essere una donna solitaria, una che non voleva impegni amorosi di alcun genere. Sembrava quasi che bastava lei a farsi compagnia, anche se sapeva che era tutta una facciata. 
Stava perdendo la pazienza perché non riusciva a comprendere come mai si trovasse lì, insieme a Sam, con quell'atteggiamento di chi sente il fiato della morte sul collo. Come se il proprio cervello si fosse improvvisamente illuminato, girò di scatto la testa nella sua direzione.
Gli occhi erano spalancati, i pugni stretti lungo i fianchi e bastò uno sguardo di accondiscendenza di Hazel per capire.

─ Sam...Sam ha accennato ad una scatola, ─ prese un lungo respiro e poi, cercando di mantenere la calma rispose, ─ che cosa c'era al suo interno?

Aveva paura di sentire la sua risposta, ma doveva farlo. Puntò i suoi occhi in quelli della ragazza, mentre lei, dopo qualche titubanza, decise di fare lo stesso.
Alexander sentì le viscere cominciare a bruciare. Un calore che gli partiva fin dalla punta dei piedi e che risaliva lentamente, andando a toccare ogni cellula del suo corpo. Strinse i pugni lungo i fianchi, tanto che le nocche gli divennero bianche e poi, con un respiro profondo, cercando quella calma dentro di sé che lo distingueva dagli altri, chiuse gli occhi.
Tutto perché aveva letto nel grigio della donna quella sofferenza, quel terrore che non erano nient'altro che la risposta silenziosa a quella domanda.
Fuggire via dalla verità, a volte, serviva.
A quel punto Hazel decise di alzarsi, tirare lo sciacquone e dirigersi verso il lavello, dove cercò di sistemarsi come meglio poté, tutto questo mentre gli occhi attenti di Alex seguivano ogni suo passo, lasciandogli il giusto tempo per affrontare quello tsunami che le si era vomitato addosso.

─ La scatola devo averla lasciata nella macchina di Sam.

Detto questo, si girò di nuovo verso l'uomo appoggiando i fianchi al marmo del lavello.
Lui fece solo un cenno di assenso con la testa, poi di nuovo rimasero in silenzio.
Non c'era però imbarazzo in quel sinistro silenzio.
Era come se attraverso gli sguardi, i loro pensieri uscissero dalle loro menti, per andare a mischiarsi, divenendo quasi una sola cosa. Cercavano di darsi forza, forse anche coraggio, il giusto compromesso che serviva per poter affrontare tutta quella assurda quanto macabra situazione. 
Hazel rilasciò un grande sospiro, inumidito dalle lacrime versate.
─ Pensi che siano gli uomini dell'altra volta?
L'uomo tacque per qualche secondo, mentre portava lo sguardo verso la tendina bianca del lussuoso bagno avorio serrando la mascella. Dopo avariati secondi, tornò a concentrarsi sul viso della ragazza.
─ Credo di sì.

Ma credo che ci sia dell'altro sotto. Inoltre stanno facendo tutto questo per colpire me e mi dispiace tanto per questo. Te lo giuro.

La ragazza si limitò solo a scuotere la testa su e giù.
Poi prese coraggio e con passi incerti si avvicinò ad Alex, che nel frattempo era rimasto impettito al suo posto, tornando con lo sguardo ora al bianco del grande tappeto centrale.
Sentì distrattamente un leggero tocco all'altezza dell'addome, come se la persona - ovvero Hazel - avesse avuto paura di fargli del male, come se un tocco più pesante, avrebbe determinato la rottura del suo corpo, troppo debole per sopportarlo.
Lui abbassò gli occhi sulle mani di lei, che intanto si erano fatte più coraggiose e avevano stretto più forte, andando ad affondare con i polpastrelli sulla stoffa stirata della camicia bianca pulita. Quella stretta si andava facendo sempre più forte, sembrava quasi che volesse scomparire sotto la sua carne, attaccarsi alle sue ossa e rimanere lì, fino alla fine dei tempi, se mai ci fosse stata una fine. Voleva che sentisse quello che stava passando a causa sua. Perché pure se Alex non aveva avuto il coraggio di dirglielo, Hazel glielo aveva letto ritratto negli occhi azzurrini, in quei gesti troppo stretti, nelle spalle rigide. E poi voleva fargliela pagare, diventare il suo personale incubo, il signor Hyde, se mai ci fosse stato un Jekyll.
Il russo, nel frattempo, rimase in silenzio, fermo al suo posto, lasciandola fare quello che più desiderava sul suo corpo, fino a quando non la fermò e trattenne le sue piccole e fredde mani, tra le sue, grandi e callose.
Poi la strinse a sé.
In un abbraccio che niente aveva di delicato.
Si trattava di una stretta morbosa, cattiva, ossessiva e patologica.
Si stavano scambiando i ruoli.
Hazel divenne il carnefice, che reclamava la sua sete di sangue e Alex la vittima, che avrebbe lasciato al mostro, dissetarsi di tutto il liquido vermiglio che gli scorreva per le vene.
Qualcuno bussò alla porta. Non ci fecero caso, ma Sam prese a urlargli contro e così loro furono costretti a tornare nella camera.

─ Cristo era ora! Per un attimo ho pensato che vi foste buttati dalla finestra o che la biondina fosse affogata nella tazza!

─ 'Fanculo, Sam. ─  rispose di rimando Hazel, tornando al posto di prima.
Alexander nel frattempo, si illuminò in un sorriso di puro orgoglio per l'impulsività che Hazel a volte dimostrava.
Sam invece, nemmeno ci fece caso.

Il silenzio che calò di nuovo nella stanza questa volta si fece sempre più imbarazzante. Questo perché aleggiava nell'aria una domanda inespressa, tenuto e custodita segreta sul palato. Alex, Sam e Donovan si guardavano continuamente, alla ricerca della persona coraggiosa che avrebbe cominciato così il discorso. In tutto questo, Maria se ne stava beatamente sdraiata sul letto, a combattere quella verità che la stava lacerando.
Poi improvvisamente a parlare fu Donovan.

─ Che cosa c'è nella scatola Hazel?
La biondina, che nel frattempo era stata risucchiata dalle diverse chiamate senza risposta e i messaggi di Crish, alzò di scatto gli occhi, che spalancati, incatenò a quelli ambrati del giovane.

─ Amm...u-una b-bam-bambola senza testa.
Tanto era l'ansia dentro di sé, da non accorgersi nemmeno di aver trattenuto l'aria nei polmoni.
Una lacrima solitaria scese a solleticargli la guancia destra, mentre fuori, la pioggia aveva smesso ormai di cadere, nonostante il cielo fosse rimasto terso e denso, di un grigio asfissiante.
Hazel tirò sul con il naso, mentre si passava freneticamente i palmi sudaticci sui pantaloni.
Poi deglutì un pugno di saliva ed aria, che raschiò la gola secca e arida, per colpa del vomito e di una  considerazione che si fece strada in lei, per bloccarsi poi nella laringe, tra le pieghe della cartilagine.
─ Vogliono uccidermi, vero?
Il tono era alto, ma non sicuro, c'era una sorta di panico dietro quelle parole.
Alex piegò la testa di lato, cercando di osservarla meglio.
Riusciva a vedere l'ansia ritratta sul suo visino, mentre gli occhi si facevano ad ogni secondo più lucidi.
Al quel punto lui, inumidendosi le labbra, si avvicinò a lei, per inginocchiarsi e portarsi alla sua altezza.
Ancora una volta, Alexander trovava che la tristezza ritratta sul suo viso, le donasse un'aria più giunonica, senza tempo, se unito alla sua viscerale elegante bellezza, la facevano divenire un quadro seicentesco.
Un'opera d'arte, divenuta persona.
Il pollice andò a catturare una lacrima ribelle sfuggita al controllo, mentre tutti restavano attoniti nella stanza, in silenzio, ad osservare la delicatezza dei gesti di quelle due anime logorate.
Hazel si ritroverò contro la fronte di Alex, inebriandosi del suo odore, del suo caldo respiro che sapeva di menta, del calore della sua pelle a contatto con la sua, dei cuori di entrambi che battevano all'unisono, della sua stretta sul suo corpo, di lui.
Si accorse solo in quel momento, quanto gli fosse mancato. Quanto gli fosse mancato quell'Alex così dolce, che si prendeva cura di lei, che la tranquillizzava, la rendeva forte, la rendeva felice
Ma come sarebbe stato vivere senza di lui?
Perché quell'uomo stava diventando il suo centro dell'universo e questo era sbagliato, immorale, ingiusto con la sua famiglia, che più di tutti l'aveva amata.
Furono i rimorsi, a far cessare quel magico incanto.
Negli occhi di Hazel, una lucina sinistra attraverso le iridi grigie, mentre la bocca si lasciava sfuggire un commento cattivo.

─ Perché non rispondi, A?

─ Nessuno ti farà del male, non finché ci sarò io con te.

È proprio per colpa tua, se quegli stronzi vogliono uccidermi.

In un attimo Alex fu in piedi e con la mascella serrata, la guardava intimidendola dall'alto del suo metro e novanta. Non traspariva nessuna forma di odio nei suoi occhi, solo la consapevolezza di quelle parole così dure, quanto vere.
Per la prima volta nella sua tetra vita, provò uno strano formicolio all'altezza dello stomaco.
Si disse che doveva essere la fame, ma i sintomi non combaciavano. Doveva per forza essere dispiacere, o quella rara forma di pena, che non aveva mai provato nella propria vita.
Si era quello che si era, non per fato o per destino, ma perché si era scelto di esserlo.
Questo pensava il cinico Alexander, quando aveva ammazzato la parte umana del suo essere.
Solo che, da quando aveva lasciato fuori i sentimenti quali l'amore, la felicità, si era scordato anche cosa volesse dire provare rimorso.
Se Hazel sarebbe morta, l'unico colpevole doveva ricercarsi in lui e in nessun'altro.

─ Ho bisogno di tenerti sempre sotto controllo, per questo da oggi verrai a stare da me.
La ragazza non poteva credere a cosa le sue orecchie erano state costrette ad udire, infatti sbigottita, rivolse uno sguardo interrogativo al russo, chiedendogli se stesse facendo sul serio. Quando quest'ultimo non sembrava minimamente intenzionato a rimangiarsi quello che aveva appena detto, lei rispose.
─ Non posso, il tuo appartamento è troppo lontano dal diner.
─ Perfetto, allora vorrà dire che verrò io da te.
Non gli diede tempo di rispondere che qualcuno bussò alla porta.
Lui marciò dritto verso di essa, come se aspettasse l'arrivo di quel qualcuno già da qualche ora.
Quando aprì la porta, lui salutò l'uomo in una lingua diversa dall'inglese, in quella lingua che doveva essere il russo.
Nessuno nella stanza sembrava capire il discorso che gli slavi stavano tenendo, tutti tranne Maria, che volente o nolente, aveva imparato a riconoscere il significato di quelle frasi.
Hazel vide proprio che rialzò la testa quando Alexander, con quel suo solito tono pacato, aveva chiesto qualcosa all'uomo della porta.
Alla risposta dell'altro russo, il killer prese un lungo respiro e saettò gli occhi nella stanza, per incastrarli poi in quelli di Maria, prima, e poi in quelli della biondina.
Poi di nuovo verso l'uomo.
Dopo qualche battuta, si congedarono e Alex chiuse la porta.

─ Sam, porta a casa Hazel. Ci vediamo questa sera per quel lavoretto.

Sam, che se ne era stato buono fino a quel momento a prestare attenzione solo al suo cellulare, fece un cenno leggero di assenso con la testa e poi si rivolse alla ragazza in questione.

─ Andiamo biondina.

Hazel però parve non voler muovere nemmeno un passo, restando seduta nello stesso posto di prima.
Sam alzò un sopracciglio biondiccio e poi rivolse uno sguardo verso il compagno.
A quel punto fu Donovan a prendere la parola, cercando di mantenere ben saldi i fili di quella situazione - già di per se precari - tanto debole, che sarebbe bastato un solo filo di vento, e il filo si sarebbe spezzato. 

─ Hazel ti prego, ti spiegherò tutto in macchina ma ora è arrivato il momento di andare.

─ Perché non puoi venire con noi?

Non l'aveva nemmeno ascoltato, aveva continuato a rimuginare sopra quella questione. Aveva appena accennato ad uno sguardo verso Donovan, ma il suo cervello era preso da tutt'altro.

"Quel lavoretto"

"Ci vediamo sta sera"

Poi lo sguardo tornò verso la ragazza, che nel frattempo si era alzata dal letto e lo guardava, ammaliata, come se fosse l'unica cosa presente in quella stanza, come se fosse una cosa preziosa.
Hazel strinse gli occhi in uno sguardo duro, mentre una sensazione di calore si andava a innescare sulla pelle bianca. Sentiva un fastidio all'interno del petto, mentre il cuore prese a battere più forte, a rimbombare nelle tempie.

Lui è mio, troia! 

Oh Cristo l'aveva pensato veramente!
Sotto quei spietati e perfidi pensieri, Hazel si stupì da sola, tanto da sgranare glli occhi e cambiare atteggiamento.
Per questo si alzò, si diresse verso la sedia doveva aveva depositato il cappotto senape appena entrata e cominciò a rivestirsi.
Poi alzò uno sguardo verso Alexander, che intanto la osservava con le mani nella tasca dei pantaloni neri.
Hazel prese un bel respiro e poi decise di venire avanti, con i tacchi degli anfibi militareschi che battevano sul marmo liscio, all'unisono con il ticchettare dell'orologio appeso al muro.
Gli si stagliò di fronte, incastrando i suoi occhi ai suoi, con un coraggio che la sorprese in bene.

Alex, io ho paura.

Lo so, ma ci sono io con te.

A sta sera. Anche se mi arrabbierò, tenterò di mandarti via, tu abbatti le mie insicurezze ed entra. Ho bisogno di te.

Poi abbassò lo sguardo e se ne andò.






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