Capitolo 24
Come sempre il martedì aveva il pomeriggio libero.
Il turno era finito all'una e mezza, poi il tempo di prendere il bus, che era arrivata a casa.
Mentre stava per salire le scale per raggiungere il monolocale, controllò se il postino, quella mattina, avesse depositato la posta nella cassetta delle lettere.
Nell'androne dell'edificio, addossato verso la parte sinistra del muro, c'erano tutte le cassette della posta di proprietà dei condomini.
Stavano tutte posizionate le une vicine alle altre, ed in totale se ne contavano dieci.
Fatte in legno marrone scuro grezzo, sulle cui superficie, in un rettangolino trasparente in plastica, vi erano poste le etichette bianche con la scritta nera in maiuscolo, dove veniva specificato quello che era il nome e cognome del proprietario.
Poiché nella sua non c'era niente - se non della pubblicità di offerte di un discount - raggiunse il suo appartamento.
Andò in camera, tolse le Vans nere alte e si abbandonò sul letto ancora da rifare.
Nemmeno cinque minuti dopo, il campanello prese a suonare.
All'inizio cercò di ignorarlo, restando nella stessa posizione di prima, ma sentendo che la persona dall'altra parte non sembrava minimamente intenzionata a demordere, fu costretta ad alzarsi.
Quando aprì la porta si ritrovò la signora Mary, che con un pacco l'aspettava tranquilla con la sua solita allegria stampata sulla faccia. Era la proprietaria della palazzina nonchè la persona che si occupava praticamente di tutto. La sua caratteristica principale era l'eterna felicità e la gentilezza, ma questo non voleva certo dire, che fosse una stupida e una sprovveduta. Diciamo che sapeva guardare molto bene ai suoi affari.
─ Mi dica signora Mary.
─ Oh, quante volte le ho detto di chiamarmi Mary e basta?
Hazel abbozzò un sorriso timido, mentre le guance si andavano a colorare di un leggero rosa porpora.
─ Questa mattina il postino è venuto qui e ti cercava, allora io, trovandomi ad aprire il portone per caso - sa la spesa e tutte queste cose noiose per la casa, mi sono imbattuta in lui. Gli ho detto che a quell'ora eri a lavoro e che non saresti tornata per le due, così ho preso io la consegna per te. ─ detto questo, allungò le braccia e gli consegnò il pacco avvolto da una carta gialla senape. Hazel la ringraziò e poi chiuse la porta.
Non sapeva cosa pensare. Non si aspettava certo di ricevere una cosa del genere. Non aveva ordinato niente da internet perciò il postino doveva essersi sbagliato. Guardò la targhetta bianca su cui era scritto il mittente e l'indirizzo, accorgendosi subito dopo che si trattava proprio del suo:
Hazel Montgomery.
19th Jackson Place,
n.510, Park Slope.
Immediatamente il pensiero corse ad Alex, ed ad una nuova trovata di quest'ultimo.
Chi sa perché, ma quest'ultima ipotesi gli fece nascere un sorriso radioso sul viso e quando se ne accorse, cercò con tutta se stessa di smetterla di essere una teenager con gli ormoni impazziti e di fare la donna, la persona che vive nel mondo reale.
Curiosa come mai prima d'ora, cominciò a scartare il pacco.
Tolta la carta gialla, tra le mani si ritrovò a toccare una scatola di cartone bianca, liscia e con un nastrino rosso ad avvolgerla tutta intorno per terminare poi, con un piccolo fiocco dello stesso colore natalizio.
Non c'era un bigliettino o qualcosa che le facesse capire chi fosse quel misterioso emittente. Questa cosa non fece altro che accrescere la sua curiosità e spinta da questa strana eccitazione, continuò a scartare il pacco.
Tolse anche il nastro di seta rosso valentino e aprì la scatola.
Forse, si ritrovò a pensare, una botta sulla testa avrebbe fatto meno male.
Sentiva che il respiro le veniva meno, le gambe presero a tremare e così portò una mano alla bocca spalancata, che si era aperta involontariamente precedentemente, non avendo nemmeno il coraggio di urlare.
Nella scatola c'era una barbie nuda, con la testa mozzata e sul collo appariva invece, una colatura irregolare fatta con l'inchiostro rosso.
La prese con meni tremanti e la osservò bene, constatando che da vicino faceva anche più male.
Poi la poggiò sulla superficie liscia del tavolino, delicatamente e con estrema lentezza.
Continuò con quel sinistro personale tour del terrore.
Cominciò con lo svuotare la scatola del suo contenuto, accorgendosi subito dopo, della presenza di una foto.
A quel punto le lacrime cominciarono a scendere copiose dagli occhi, scesero lungo le guance, lungo il collo e giunsero infine a macchiare il maglione nero largo, con quel convenzionale intreccio a forma di treccia cucito sul davanti, che quella mattina aveva decido di indossare.
La foto ritraeva una bambina di cinque o sei anni, sdentata e che nonostante tutto, metteva in mostra il suo più candido sorriso. I capelli color del grano, gli occhi blu, quasi grigi e il faccino paffutello abbronzato con mille piccole efelidi a contornarle il nasino.
Quello stesso faccino luminoso, deturpato da una scritta in rosso.
"Sappiamo chi sei"
E quella era lei.
Per colpa di quelle mani che presero a ballare, la foto finì sul pavimento, che per colpa della troppa leggerezza, cadde al contrario, con il volto rigirato verso il pavimento.
Si allontanò dal tavolo e da quella scatola maledetta.
Sentiva il cuore aumentare i battiti, il sangue scorrerle violento nelle vene e la testa pesante, i sensi ovattati.
Lacrime salate continuavano a bagnargli il viso silenziosamente.
Lo stomaco divenne duro come la pietra, mentre un senso di vuoto si allargò dentro di esso. Sentiva di poter svenire da un momento all'altro e nello stesso momento sentiva di star troppo sveglia per cadere in un sonno precoce. Come chi è insonne. Solo che a dettare il suo stato d'animo a pezzi in quel momento, era l'adrenalina.
Improvvisamente sentiva su di se, come la presenza di qualcuno. Era forse anche giustificabile una cosa del genere, quel suo comportamento paranoico, dopo la minaccia ricevuta. Ormai non si sentiva più al sicuro dentro quella casa. L'avevano violata, calpestato quello spazio che considerava la sua unica ancora di salvezza, il muro su cui potercisi nascondere dietro tutti quegli occhi indiscreti maligni.
Cominciò così a girare il viso come una trottola prima a destra, poi a sinistra, poi dietro di sé, per tornare infine a concentrarsi con lo sguardo avanti, nel posto in cui si era allontanata dal "regalo".
Con gli occhi spauriti, prese a camminare all'indietro, senza mai togliere lo sguardo dal tavolino. Più camminava e più la visuale si faceva annebbiata, lontana.
Fermò la corsa quando sentì la superficie della porta sbattere contro di essa.
In quella bolla di paura ed incredulità che si era creata, abbandonò la mano all'altezza del cuore per dirigerla verso la maniglia in ottone del portone d'ingresso.
Quando i polpastrelli toccarono la superficie fredda della maniglia, in un gesto meccanico, lento come i suoni che le arrivavano in quel momento alle sue orecchie, aprì il portone, lasciando che l'aria fredda entrasse nell'appartamento e le soffiasse sui capelli sciolti, profumati di ciambelle con la glassa e pancakes alla vaniglia.
Uscì come una furia dall'appartamento, spalancando del tutto la porta e correndo poi per le scale in marmo bianco fino all'atrio. Cliccò il pulsante bianco, simile all'interruttore della luce, per aprire il portone dell'appartamento e si immise fuori, al soldo della città.
Sul marciapiede, mentre le macchine le sfrecciavano vicine rumorose, lei prese a girare intorno a se stessa, con gli sguardi allibite che quei pochi passanti le rivolgevano.
Aveva bisogno di aria, perché era fuori di se, perché la paura e il terrore si erano impossessati del suo corpo, della mente ed eseguiva i comandi che loro gli imponeva. Mai come in quel momento sognò delle gocce di ansiolitici, ma purtroppo non ne aveva.
Le lacrime presero il colore della matita nera e del mascara, andando a incontrare anche le labbra che lei, inconsciamente, bevve, dissetando quella trachea avvizzita dall'aria.
Il contatto con l'aria fresca riuscì a scacciare un po' quel senso che l'attanagliava, ma riuscì soprattutto a distruggere quella gabbia che vedeva riflessi i ricordi angoscianti della notte in cui le fu portato via tutto.
Nella sua testa stava urlando, digrignava i denti come fanno le bestie affamate, buttava contro il muro qualsiasi cosa le passasse tra le mani e se la prendeva con Dio, per averle riservato tutto quel dolore e quell'infelicità.
Tutto quello che fece poi, fu smettere di piangere e normalizzare il respiro e per quanto potesse, i battiti del cuore. Tornò quindi in casa e si chiuse dentro.
Andò in bagno, scrostò le guance dagli ultimi residui di mascara e lavò gli occhi per purificarli dalle lacrime.
E chiamò Alex, o almeno ci provò, dato che l'uomo non si degnava di risponderle.
Eh sì, perché il russo, dopo aver ricevuto il messaggio dai russi, si era precipitato da loro, ricevendo un no come risposta, quando gli aveva chiesto se avrebbe potuto vedere Dimitri.
Si erano limitati solo a ricucire quella sua brutta ferita sanguinante. Poiché il suo umore era a meno zero - complici gli eventi che erano avvenuti nella serata - decise di lasciarsi andare. Aveva intercettato Maria e si erano rifugiati nella solita stanza, confortandosi tra le calde cosce dell'italiana, che ci sapeva davvero fare. Quando lei, alla fine dell'amplesso gli aveva chiesto di rimanere a dormire con lei, lui stranamente aveva acconsentito. Era la prima volta che accadeva e si ripromise, alla mattina quando si svegliò, che in futuro avrebbe potuto anche rifarlo.
Ma questo Hazel non lo sapeva e presa dallo sconforto, decise di rivolgersi all'ultima persona a cui mai avrebbe voluto dedicare un solo minuto della sua vita. Samuel. Con gesti dettati dall'ansia, prese a cercare freneticamente in tutti i mobili aventi dei cassetti, alla disperata ricerca di quel maledetto biglietto di carta bianca - strappato a qualche busta delle bollette - dove vi era scritto in nero e con una andatura dei numeri che andavano verso sinistra il cellulare del biondo.
E finalmente lo trovò, infilato tra un quaderno dalla copertina rossa e nera e un vecchio portafogli, souvenir dell'unico viaggio fatto insieme all'amico in Los Angeles, qualche anno prima.
Con coraggio e determinazione prese il cellulare per andare poi a comporre il numero sulla tastiera blu.
Qualche squillo più tardi e la voce viva di quello psicopatico si avvertì dall'altra parte, mentre Hazel mangiucchiava una pellicina del dito indice già alzata.
─ Pronto?
La voce le arrivò alle orecchie annoiata, con un tono di palese disturbo. Però lei non accennò a pronunciare nemmeno una sillaba e passati diversi secondi, il biondo tornò all'attacco. A quel punto riattaccò.
Non ce l'aveva fatta, aveva tentato ma niente, l'ansia e l'insicurezza l'avevano fatta demordere, fino a quando non si era arresa.
Bloccò lo schermo del cellulare, che depositò sul tavolino di fianco al pacco e si diresse verso il salotto, buttandosi sdraiata sul divano. Il dolce calore del cuscino trapuntato rosso, le scaldava la matassa di capelli biondi tutti scompigliati.
Stette per svariati secondi ad osservare il soffitto bianco, con quelle macchie di umidità nascoste negli angoli, interrogandosi cosa sarebbe stato giusto fare. Continuare a chiamare Alex, tentare di rintracciarlo oppure provare con qualcos'altro?
Andare dalla polizia le sembrava un rischio, per lei e per Chris. Qualcosa le diceva che ne avrebbe dovuto parlare con il russo, perché centrava con la storia delle losche figure che il giorno prima li aveva pedinati al bar e poi fino a casa. Questo spiegava anche la questione dell'indirizzo.
Si mise a sedere, con le spalle abbandonate verso lo schienale e la mano destra a torturare una ciocca di capelli.
Improvvisamente scattò in piedi, si avvicinò alla foto caduta e piegandosi sulle ginocchia, la raccolse da terra, osservandola di nuovo. Alzò lo sguardo e lo portò verso il nulla.
Il suo cervello prese a mulinare una serie confusa di pensieri, di parole, ricordi spezzati, interrotti e poi vide la soluzione. Si avvicinò verso l'appendiabiti, prese il parka e la borsa, che imbracciò sulla spalla destra, per andare poi a raccogliere il pacco e a richiuderlo, tenendo volutamente fuori la foto di lei da bambina. Quella avrebbe portato solo guai e poi non si fidava al cento per cento della polizia. Alexander non gliel'aveva mai confessato, ma sapeva che alcuni di loro fossero corrotti.
Andò in camera sua, depositò la foto nel primo cassetto del comodino di fianco al letto, dove teneva la pistola scarica ed uscì.
Ripercorse a ritroso le scale in marmo, che profumavano di detersivo ai fiori tropicali e si imbatté di nuovo nel traffico della città.
Quando stava per attraversare, una macchina le sbarrò la strada.
In un attimo lo scenario cambiò.
Due braccia l'afferrarono da dietro, mentre una mano si andava a chiudere a coppa sulla bocca. Hazel sgranò gli occhi incredula, spaventata, interdetta.
Fu poi trascinata all'interno del SUV nero e la macchina partì sgommando.
A quel punto duo occhi marroni le furono puntati addosso.
─ Ciao, cerbiattino. Per caso stavi andando da qualche parte? Che so, dagli sbirri?
Era quel fuori di testa del biondo, Samuel.
Si ritrovò stretta al suo fianco sinistro, mentre sentiva su di sé, la pressione dei polpastrelli del ragazzo sotto il braccio, vicino l'incavo dell'ascella, con una stretta che sembrava volesse dire che non l'avrebbe mai lasciata andare.
Si sporse in avanti, per vedere chi ci fosse alla guida, accorgendosi della presenza dell'altro ragazzo, il moro, che intanto la guardava con quel suo solito sguardo dispiaciuto dallo specchietto retrovisore interno.
Poi tornò al biondo, i cui ricci sfioravano la fronte e una parte dell'occhio destro.
Il naso piccolo, dritto e le labbra sottili. Aveva un buon profumo, di colonia costosa unita al forte profumo di One Millione.
─ Ma che problemi hai! ─ urlò lei, dopo qualche secondo di silenzio e di sgomento.
Improvvisamente ritrovò quella ferocia che l'aveva sempre accompagnata in passato.
Cercò di sottrarsi alla presa del biondo, per riuscirci qualche secondo dopo, mentre sentiva su di sé, incidersi i segni che quei polpastrelli ormai gli avevano lasciato sulla bianca pelle.
Prese quindi a strofinare la mano destra sulla parte di muscolo indolenzito, guardando il killer in cagnesco, con la voglia di cingere il suo bel collo e stringere, stringere come lui aveva fatto con il suo braccio.
─ È inutile che mi guardi così, se voglio ti disegno un bel buco proprio qui! ─ e nel dirlo spinse l'indice sulla fronte di Hazel, facendola indietreggiare di poco, per poi continuare, ─ Non dimenticare con chi hai a che fare, Hazel! Solo perché sei la svuota palle di Alex, questo non significa un cazzo! Tienilo bene in mente.
Con la mascella serrata, Hazel non si fece minimamente intimidire da quelle parole così velenoso e da quella frase dispregiativa usata nei suoi confronti, - perché gli aveva dato della puttana ancora una volta - decise ugualmente di rispondergli.
In quei pochi giorni aveva imparato che o sarebbe stata la preda, oppure avrebbe cominciato anche lei a cacciare e a ferire. E l'ultima opzione le gradiva di più. Il pensiero di poter essere l'agnellino sacrificale, la pecora della situazione, la mandava fuori dai gangheri.
─ Non lo dimentico, tesoro. Stai tranquillo che nessuno minerà alla tua banale incolumità di killer spietato.
Poi girò il viso verso il finestrino nero, di quelli che potevi vedere gli altri da fuori, ma gli altri non potevano vedere te.
Come ricordatasi di qualcosa, si rivolse di nuovo al ragazzo, che intanto la fissava con un ghigno malefico stampato sul viso.
─ Ah...e vaffanculo!
Dopo quella affermazione, così impavida e inaspettata, Sam scoppiò a ridere. Poi ci fu silenzio.
Nell'osservare attentamente il paesaggio che scorreva veloce di fianco a lei, Hazel si accorse con grande stupore e un senso di inquietudine, che si stavano decisamente allontanando da Brooklyn e che si stavano dirigendo decisamente verso nord, dove secondo il suo scarso senso di orientamento si trovava il distretto del Queens.
Con gli occhi sgranati, diresse lo sguardo nuovamente sul biondo, che tranquillo se ne stava ad osservare il cellulare e a scorrere le immagini appartenenti a qualche social network.
Poco più vicino lo sportello, stava buttata là scatola infernale che durante il finto rapimento gli era caduta e nemmeno se ne era accorta, addirittura dimenticandosela.
─ Dove stiamo andando?
Il ragazzo non si mosse nemmeno di un millimetro e come lo aveva trovato poco prima, insensibile rimase.
Vedendo che non la degnava nemmeno di un misero sguardo, pensò bene di rivolgersi all'altro, quello che guidava con una certa concentrazione.
Infatti Donovan se ne stava impettito con le mani strette sul volante di pelle e le sopracciglia aggrottate, in una smorfia che lo faceva sembrare imbronciato.
─ Dove stiamo andando...Donovan giusto?
Ma prima che lui potesse emettere solo mezza sillaba, Sam lo precedette.
─ Dal tuo amato amoruccio. Non lo stavi cercando così assiduamente? O pensi che non mi sia accorto della chiamata che qualche ora prima mi hai fatto?
─ Non è il mio amuruccio. E poi sentiamo, come facevi a sapere che ero uscita e che ti ho chiamato? Io e te ci siamo sentiti solo una volta, un mese e mezzo fa, te lo ricordi vero?
Sam si schiarì la voce e spense il cellulare, ficcandoselo poi nella tasca del giubbotto di pelle imbottito.
La guardò così intensamente, che in un attimo il ricordo di lui in casa sua fu talmente tanto predominante, che le fece accapponare i peli sulla pelle.
─ Certo cerbiattino, io ricordo e so tutto. Comunque te lo ripeto, stiamo andando da Alex.
─ Ma questa non è Manhattan, sembra piuttosto...─ e si rivolse fuori, accorgendosi di aver appena imboccato l'autostrada Jackie Robinson Pkwy.
A quel punto le cose dovevano essere per forza due: o avrebbero imboccato la tredicisima e da lì sarebbero poi andati dritti a Manhattan, attraversando in due il Queens, oppure sarebbero andati dritti, imboccando la settima, per passare per l'università di St John's e approdare nel cuore del distretto. Ed infatti fu così, quando imboccata la settima - traffico permettendo - si ritrovarono immessi nella Grand Central Pkwy. Donovan passò anche il casello sedici, dritto ancora qualche chilometro, per uscire nella 164th strada.
Di sfuggita, prima che il ragazzo pigiasse il piede sull'acceleratore, lesse sul cartello dallo sfondo blu elettrico"Welcome to Jamaica".
Ancora dritti - tranne per una piccola pausa bagno e benzina, per poi ripartire a tutto gas da quel 7-11 stores - per la 163th, 165th ed infine arrivare sulla 104th.
Una svolta a destra e cinquecento metri più avanti, si fermarono.
Durante la pausa Samuel - o come l'aveva intimata infine lui, di chiamarlo Sam, dato che solo suo padre ormai lo chiamava con il nome di battesimo - si era spostato davanti e lei era rimasta solo con la sua scatola. Nel frattempo Donovan aveva accesso la radio, non sopportando più quel silenzio sinistro che si era creato durante le due ore di tragitto.
Quella canzone parlava di un uomo, che si ritrovava sempre al punto di inizio, ovvero cercare di smettere di amare questa donna, senza però alcun risultato.
Durante quelle battute Hazel aveva sbloccato il cellulare, osservando le innumerevoli chiamate senza risposta di quell'uomo che sembrava essersi perso nella nebbia, ed ogni volta che scorreva il dito sullo schermo, ogni volta che leggeva il suo nome, sentiva lo stomaco lacerarsi, da conto piccole lame affilate che tagliavano e graffiavano gli organi, raschiavano le viscere.
Poi si imbatté nel numero di Clash.
Cominciò a rileggere i vecchi messaggi, a notare le diverse chiamate che gli aveva fatto senza riceverne risposta - alcune erano state anche rifiutate - accorgendosi dopo un'attenta analisi, che qualcosa doveva essere accaduto, se aveva smesso di risponderle. Conscia di ciò, inviò l'ennesimo messaggio, e subito dopo fece partire l'ennesima chiamata.
Fino a quel momento, quando giunti a destinazione, Sam la intimò a scendere.
Il parcheggio era semplice.
File e file di spazi rettangolari delimitati da strisce orizzontali bianche.
Dall'altra parte, la gente andava e veniva, frettelosi, quasi correndo, sul marciapiede ricolmo di negozi, bar, pub e ristoranti. In lontananza si avvertivano i clacson delle macchine e il rumoroso motore degli autobus.
Seguì i due che presero a camminare e a uscire da quel grande parcheggio, ritrovandosi davanti un grande hotel con tanto di cinque stelle ritratte sul davanti.
Era un enorme grattacielo grigio, non alto come l'Empire, però anch'esso imponente. Le autovetture che arrivavano sul vialetto venivano poi affidate a dei ragazzi con la divisa bordeaux, con il colletto oro e i bottoni imperiali dello stesso colore cuciti sul davanti, in modo verticale sulla giacca a doppio petto.
Auto di lusso, costose, con un'assicurazione da capogiro, qualcosa che nemmeno tra cinquant'anni Hazel avrebbe potuto permettersi.
Per entrare dovettero prima passare sotto un gazebo dalle colonne in marmo bianco, di un rosso scarlatto, che ricordava la piazza rossa di Mosca, con ritratto sul davanti il nome dell'hotel in americano e subito dopo in russo.
Arrivati all'entrata un altro inserviente prontamente aprì loro la porta - un rettangolo in vetro, talmente tanto lucido e lubrificato a dovere, da potercisi specchiare attraverso - furono immessi in quel caos ordinato di persone, che andavano e venivano, salivano scale, attendevano pazientemente l'arrivo dell'ascensore, donne eleganti che ridevano finemente alle battute di quegli uomini che le facevano compagnia. Loro però marciarono verso la reception, dove tre uomini - una donna e un uomo che accoglievano i clienti, mentre il terzo se ne stava seduto con gli occhi puntati sullo schermo del computer - li accolsero radiosi.
Sam cominciò a spiegarli chi stavano cercando, ma la donna, dopo aver lanciato uno sguardo al suo collega al quanto preoccupato, riferì a Sam di non averlo mai visto lì.
Perfino ad Hazel veniva da ridere dopo aver sentito quella triste stronzata.
Allora Sam, con gesti lenti e misurati, cominciò a spiegargli come stavano i fatti reali.
─ Ascoltami tesoro, ─ e nel dirlo avvicinò quelle sue dita lunghe e affusolate, in prossimità del colletto inamidato della receptionist, mentre puntava i suoi occhi su quella porzione di seno, che involontariamente la bella ragazza metteva in mostra, ─ io sono un suo collega. Se hai paura che spifferi cosa si fa realmente qui dentro, stai tranquilla, nemmeno a me piace l'dore di marciume della galere.
─ Daniel, lascia passare questi uomini.
Un uomo venne avanti e gli si stagliò davanti. Aveva spalle larghe, petto ampio e gambe lunghe. I lineamenti del viso erano spigolosi, marcati, con quella perenne smorfia dura dipinta sul viso. Doveva essere russo, o per lo meno, nato nei paesi dell'est Europa.
Sam lo squadrò, con un sopraccigli alzato. Poi un lampo attraverso i suoi occhi scuri, come se improvvisamente aveva capito chi fosse in realtà l'uomo.
─ Vladimir? ─ chiese indicandolo con l'indice.
Quello scosse la testa e venne più avanti. Oltre ad un'aspetto gradevole, Hazel si accorse che l'uomo aveva anche un buon'odore. Un misto tra il forte odore del dopobarba e quello dolce della calendola.
Sul viso dell'uomo si andò ad allargare un sorriso al quanto sinistro, di quelli di chi non era abituato a regalarli.
─ No, io sono Anatoliy. Perché lo state cercando?
─ Veramente stavamo cercando Alexander il russo. So per certo che ieri sera è venuto qui, e credo che si sia fermato anche per la notte.
Sul viso di Anatoliy comparve uno sguardo a metà tra lo sgomento e il guardingo. Forse credeva che quei tre, entrati dal nulla nella sua casa, potessero appartenere a qualche gruppo criminale concorrente o peggio, potevano essere degli sbirri.
─ Non conosco nessun Alexander il russo. ─ rispose con finta innocenza.
Era davvero bravo a nascondere le emozioni o a cambiarle così repentinamente, tanto quanto Hazel strofinava con scaltrezza la pezza di stoffa tra i vari tavoli, per disinfettarli e farli tornare all'ordine, puliti.
Sam rise, pacato e quasi silenziosamente. Gli occhi al pavimento, mentre due piccoli boccoli ricci si muovevano al suono di quella leggera risatina. Il russo strinse la mascella e Sam, a quel punto, decise di rialzare gli occhi verso i suoi.
Quelle pietruzze nere, profonde e oscure, poggiate su quelle cristalline di Anatoliy rappresentavano una gran bella differenza, ma entrambe erano tagliente, accese da una scintilla provocatoria, prevaricatrice. Quelle erano due anime abituate a vincere, a non ricevere ordini o a essere sottomessi da nessuno.
─ Si che sai chi è. Non preoccuparti tesoro, giochiamo nella stessa squadra. Sono quello che definiscono il "joker". ─ mentre indicava il soprannome, faceva delle virgolette volanti ed alzava fugacemente gli occhi al cielo, quando era chiaro che amava quel suo nickname, tanto quanto se stesso.
Detto questo, Anatoliy sembrò convincersi, o almeno è quello che apparve agli occhi del biondino.
Dopo qualche secondo di attesa, dove i due continuavano quell'eterna e silenziosa battaglia, finalmente il russo si mosse, non prima di aver chiesto spiegazioni riguardo la ragazza.
─ È una mia vecchia amica. Non preoccuparti, non capisce un cazzo di americano perché è svedese.
Il paragone c'era tutto, si poteva fare. Bionda, occhi chiari e pelle diafana. In quel momento aveva appena salvato la vita di Hazel e lei neppure lo sapeva.
Se avessero saputo che era soltanto una ragazza qualunque, conosciuta per lo più due mesi prima, sarebbero stati seri guai per la ragazza. Non si fidavano, come loro nemmeno Sam, ma Alexander era di tutt'altro avviso.
In realtà il motivo di fondo per cui aveva fatto ciò, era diverso lontano anni luce dalla salvezza.
Voleva allontanarla dall'amico. Non era gelosia la sua, solo che da quando era entrata nella sua vita, Alex era cambiato. Ora si faceva scrupoli, si domandava perché un innocente dovesse perdere la vita per la colpa di altri uomini assetati di violenza. Questo non era lui. Lui era sempre stato altro, più cinico perfino di lui. Ora che la ragazza veniva anche seguita, pedinata, quasi stalkerizzata, lui sembrava essersi perso in quella che sembrava un'apparente vendetta. A quanto pare l'unica aspettativa della sua vita era diventata salvare Hazel. In qualche modo sapeva che si sarebbe fatto ammazzare, se avesse continuato a scavare a fondo a quella losca faccenda. Sam non era sicuro, ma gli unici che potevano avercela con Hazel erano persone che le stavano vicino o che stavano vicino ad Alex. Forse anche il clan stesso. E chi si metteva contro i lord, finiva sempre per perdere, in tutti i sensi.
Così, sicuro che l'avrebbe trovato tra le braccia dell'italiana, Maria; Hazel sarebbe uscita dalla
sua vita, tanto quanto velocemente ne era entrata.
In tutto questo però, Hazel non sapeva dove il ragazzo volesse andare a parare. Non riusciva a capire perchè aveva detto quella bugia a quell'uomo alla quale era invece meglio non mentire. Un brivido partì dall'attaccatura dei capelli e pian, piano, come una scossa elettrica, arrivò fin sotto l'ultimo osso della spina dorsale. In faccia, un'espressione tra l'atterrito e il sorpreso.
Ma Sam le strizzò l'occhio sinistro, come a volerle intimare di stare al gioco.
Così fece e si rivolse al russo, sorridendo e scuotendo leggermente il capo verso sinistra.
Ancora una volta, Anatoliy sembrò convincersene e così richiamando all'ordine una cameriera addetta alla sala e ad alcuni piani, gli comunicò che doveva accompagnare i signori nella 305.
Quella fece un segno di assenso con la testa, mantenendo il capo chino, in una sorta di segno di rispetto e le mani incrociate sul davanti, a ridosso del grembiule bianco.
Infine, alzò per un attimo gli occhi e il braccio destro indicandogli la via dell'ascensore.
Hazel guardava ammirata quell'edificio.
C'era lusso ovunque.
Le pareti erano di un color rosso corallo, il pavimento in marmo avorio, con filamenti buttati un po' a caso, di colore rosa pallido.
Un lampadario di cristallo, imponente, a scendere come se fosse uno stalattite, dal soffitto bianco, che rifletteva poi sul muro piccoli arcobaleni lucenti.
Divanetti di pelle beige, mobili neri in legno di ebano e quadri costosissimi appesi alla parete.
Tutta quella sfarzosità, che stranamente non guastava, era tipica dei miliardari russi, che di certo, non erano rinomati per le cose semplici.
Presero l'ascensore - anche esso rivestito in marmo, dello stesso colore del pavimento del piano terra - e si insidiarono poi nel corridoi del terzo piano.
Pochi metri e la ragazza li abbandonò, tornando indietro.
Smise si seguire le gambe lunghe e morbide della cameriera, coperte dalle calze in nailon nere semi-trasparenti, quando Sam prese a picchiettare le nocche sulla porta marrone.
Avvertì dei passi pesanti battere sul pavimento e poi la porta venne aperta.
Hazel sentì le forze venire meno.
Le sembrò di essere capitata in una brutta interpretazione di quella che era la sua vita.
Tutto divenne distante.
Il cuore soltanto prese a martellare ritmicamente come un tamburo nella cassa toracica.
Sentiva freddo e caldo, mentre la debolezza strisciava sotto le vene, lungo i muscoli per giungere a lacerare anche le ossa.
C'era una donna davanti ai suoi occhi.
Una bellissima ragazza, dalle gambe atletiche, nude e due occhi penetranti.
Perfino il suo lato più mascolino le diceva che tutto in lei trasudava perfezione, sessualità.
─ Ehi tesoro, non è il servizio in camera. Credo che siano venuti qui per te!
E la ragazza si fece da parte, lasciando che il trio entrasse.
Sam nel frattempo sorrise sornione, il suo piano stava già dando i suoi frutti.
Spazio Autrice.
Segnalatemi per favore, i vari errori.
Grazie :)
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