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Capitolo 1

Era estate, un giorno come tanti, e mentre stava per entrare e spingere la porta, un uomo la precedette.
Era alto, quasi un metro e novanta, spalle larghe, petto ampio.

Era lui. Ma lei ancora non lo sapeva.

Come sempre aveva salutato John, il proprietario del locale dove lavorava e si era diretta verso lo spogliatoio per indossare la divisa. Un semplice vestito tra l'azzurro e il turchese, con davanti cucito un semplice grembiule bianco merlettato a U lungo i bordi.
Il compito a lei affidatogli, da che ne aveva memoria, era sempre stato quello di servire i clienti dietro il bancone, mentre dei tavoli se ne era sempre occupata Sally.
La collega però quella mattina, si era ritrovata una fronte bollente e un disgustoso raffreddore a impedirle di recarsi a lavoro. Così aveva chiamato John, gli aveva comunicato la sua malattia e l’anziano, sempre molto disponibile nei loro confronti, le aveva detto che non c’erano problemi in proposito, lui e Hazel se la sarebbero cavata benissimo.

E fu così che la ragazza si ritrovò a ricoprire la mansione di Sally, solo per quel giorno. O almeno lo sperava, non gli piaceva molto zampettare tra i tavoli e fingere una tranquillità, una familiarità che non aveva. Il bancone era diverso, la gente che sedeva lì di solito era da sola, e allora lei non doveva sforzarsi molto di essere felice, perché sarebbe sembrata inopportuna. In fondo lei era proprio come loro.

Con il bricco del caffè nero, fumante, stretto tra le dita della mano destra, si aggirava tra i clienti osservando le tazze in porcellana bianca vuote e chiedendo chi ne volesse ancora un po’. Alcuni rispondevano con un semplice gesto del capo, altri con un sorriso gentile sulle labbra e altri ancora solo con un Sì o un No udibile appena.

Il Diner non era poi così grande.
I tavoli erano quasi tutto addossati alla parete, dallo stile decisamente retrò, mentre trasversalmente c’era il bancone a forma di boomerang, con la capacità di ospitare sette clienti in tutto.
Era facile quindi fare il giro.

Mentre serviva l’ultimo tavolo all'angolo si imbatté involontariamente in lui.
Rivide l'uomo della porta intento a mandare messaggi dal suo iPhone nero, come neri erano i suoi vestiti. Camicia, pantaloni casual, scarponcini e giacca, tutto rigorosamente dello stesso colore della notte.
─ Vuole dell'altro caffè, signore? ─  chiese fingendo dolcezza, in una voce che non gli era mai appartenuta prima di allora, ma sentiva, anzi percepiva l'area negativa che l'uomo emanava, pensando tra l'altro come una stupida, che fosse l’unico modo per rimanere vivi.
Ne aveva conosciuti di uomini così, lei.

L'uomo alzò di controvoglia gli occhi dallo schermo per dirigerli verso il suo viso, verso la voce che lo aveva disturbato.
Lei non notò quella sensazione disturbante che gli aveva provocato semplicemente con quella domanda, perché venne colpita dai suoi occhi chiari.
Blu. Di un blu intenso senza alcuna sfumatura, freddi e piatti. Capaci di non emanare nessuna piccola emozione. Distanti e inaccessibili.
In quel momento l'uomo seduto con le gambe leggermente divaricate, i gomiti poggiati sul tavolino rosso e le mani intente a scrivere messaggi, gli faceva paura. Una paura difficile da scrollarsi di dosso. Era qualcosa che non aveva mai provato.
Lei che era stata arrestata ai tempi del liceo (una sola volta per aggressione), lei che conosceva solo il pericolo e di tutte quelle volte che si era trovata immischiata in situazioni sinistre, più grandi di lei, non aveva mai sentito o magari solo percepito  quel senso di impotenza, quel senso di paura, che in quel momento, guardando l'uomo seduto a quel tavolo, su quella poltrona bianca sporca in pelle, stava provando.

─  No, grazie ─  rispose freddo lui con un flebile accento straniero nelle sua voce, tornando immediatamente al cellulare.

Passò oltre anche se un tarlo gli si insinuò nel cervello. Credeva di aver già conosciuto o solo visto quell'uomo, da qualche parte magari solo di sfuggita mentre usciva dal cinema o in qualche negozio, ma non sapeva spiegare bene dove.  La cosa che più la destabilizzava era la sensazione di aver già sentito quella strana e sinistra paura, di averla provata a sue spese sulla pelle bianca, in un tempo che sembrava lontano, per gli altri, ma non per lei. E poi c'era quell'intenso profumo che aveva percepito quando gli era andata vicino la prima volta alla porta e poco tempo dopo, quando le si era avvicinata per il caffé. Uno di quei profumi che non si dimenticano facilmente se associati a vecchie ferite.
Ma non voleva crederci, non poteva crederci.

I giorni trascorsero veloci e non ci si soffermava più su quello che era accaduto o su chi si aveva avuto l'onore di conoscere, la sua vita era sempre stata un treno in corsa, poche fermate e se non sapevi cogliere l'occasione, ti lasciava a piedi. Ma di una cosa non si era certo dimenticata: l'uomo dagli occhi blu.
No, di quello no.
Le sembrava praticamente impossibile farlo, anche solo provarci.
E ogni volta che tornava nell'angolo dove pochi giorni prima si era seduto, sentiva sempre dentro di sé quel senso di déjà-vu. Ed era diventato ormai una costante, ogni qual volta metteva piede nel locale. Si odiava per la memoria corta che aveva e allora si interrogava:

"chi sei uomo misterioso?"

Questo era diventata ormai la  domanda retorica che girava vorticosamente nella sua mente. E girava e rigirava, senza mai fermarsi. Senza mai ottenere una risposta di senso compiuto o qualcosa che si avvicinasse almeno lontanamente alla verità.

Con il viso assorto su una rivista, il suo coinquilino non che suo unico migliore amico, le sedeva di fronte.
I capelli rossi tinti, l'accenno di barba su quel viso giovane di appena ventidue anni, i dilatatori neri alle orecchie e il piercing sul sopracciglio destro. Non amava per niente andare in palestra e lo amava per questo. Pensare di passare la vita a voler somigliare a qualcun altro, è un grande spreco di quello che si è. La vita è una ed è già difficile capire il meccanismo che si cela dietro ad essa, fatta di trabocchetti e scelte, tante scelte, se si sprecano quelle poche opportunità che essa ci regala, allora perché non accettarle per quello che si è? Perché fingere? C'è questa eterna battaglia delle etichette nell’odierna società, che lascia il giusto senso di amaro nella bocca.

─  Smettila di fissarmi, Hazel, sai che lo detesto!
L’aveva colta in fragrante, come un ladro davanti ad una cassaforte.
─ Okay e tu lo sai che non me ne frega un cazzo, vero? ─ rispose lei con un gran sorriso sulle labbra.
─ Sempre molto delicata.
Poi ci fu silenzio. Il rumore del televisore che trasmetteva un vecchio film in bianco e nero era l'unica cosa che riempiva l'aria di quel condominio di Brooklyn, quella sera di inizio ottobre.

Hazel si mangiucchiava nervosamente il labbro inferiore, alla ricerca di quella spinta di impulsività che gli avrebbe permesso di aprirsi e di condividere quel peso enorme, che era costretta a portare da giorni.

─ Se ti dicessi che c'è un'ombra che è tornata dal passato, tu che penseresti?

All'improvviso quelle parole presero forma e consistenza, pronunciate poi, sembravano ancora più vere.
Chris alzò di nuovo gli occhi dal giornale e la guardò.
In quel momento la stava studiando. Quel metro e settanta di ragazzo, dallo stile indubbiamente grunge, la stava studiando. Erano pochi quelli che potevano permetterselo. Hazel non regalava la sua amicizia a tutti, na solo ai giusti e alle menti malate.
Era un modo carino che usava per scusarsi del carattere complicato che aveva.
Perché Hazel era davvero complicata. Era un quadro dai colori più spenti, dalle mille forme, che nascondeva, dietro quelle intrecciate forme geometriche, la sua vera essenza.
Studiava i movimenti delle sue labbra, del corpo, ma soprattutto, delle parole mute che gli occhi grigi-verdi gli trasmettevano.

─ Dipende.
─ Da cosa?
─ Dal tipo di ombra. È buona? Oppure è cattiva?

Gli occhi verdi del ragazzo si posizionarono di nuovo sul giornale, ma questo non gli impediva certo di dargli l'attenzione dovuta. Gli stava lasciando il suo spazio.
Hazel lo osservava senza farlo veramente.
Rilasciando poi un lungo soffio di ossigeno, si decisa a rispondere.

─ Il punto è che non lo so. È tutto così confuso. Non so cosa fare e tanto meno da dove iniziare a cercare.
─ Cerca dentro di te, Hazel. Lo so che questo ti fa paura, ma devi farlo. Devi affrontare il passato per poterti godere il presente e creare così il futuro. Hai questo brutto vizio di lasciarti afferrare dai ricordi e affogare in essi, rinunciando anche alla mano di un amico che tenta di salvarti.

Era facile per lui. Era facile parlare quando non si aveva quel passato in particolare alle spalle. Anche se Chris aveva vissuto un'adolescenza da autolesionista, quello che aveva dovuto sopportare Hazel era un altro tipo di dolore, più profondo e acuto, se vogliamo.

─ Lo sai che è difficile e... ─ lasciò la frase a metà, un po' perché odiava parlare di quello e un po' perché il magone tornava a galla prepotente, e gli stritolava le corde vocali, i polmoni e tutto il corpo, impedendogli persino di continuare a parlare.
Chris fece un cenno di assenso con il capo, quasi avesse capito la sofferenza dell'amica nel ripensare a quel passato tumultuoso e soffocante.

L'unico che sapeva.

Passarono alcuni minuti prima che il ragazzo ricominciasse a parlare.
─ Sabato sera andiamo a ballare
Tu ci vieni, Haz?
Voleva scuoterla, farla tornare a galla e cessare quella sua apnea, che non gli lasciava il giusto spazio per permetterle di respirare.
Dal canto suo, lei sapeva che se glielo avesse chiesto il giorno precedente o il giorno precedente ancora, gli avrebbe risposto di no, perché doveva restarsene a casa a pensare e ripensare all'ombra e quindi a passare in rassegni i possibili candidati, a farsi male e a logorarsi dentro. E poi perché anche la discoteca faceva parte del suo passato. Era una delle cause di esso, una delle tante cause.
Aveva solo venticinque anni, ma era come se ne avesse vissuti almeno cento in più.
Qualcosa però, la spingeva a dire sì, qualcosa che nemmeno lei sapeva descrivere cosa fosse, da dove provenisse. Forse perché amava il fatto che nelle feste tutti i peccati erano ammessi e lei amava potersi ubriacare e non pensare alle conseguenze, fumare tanto e tornare a casa e puzzare come una ciminiera o una sala stile vecchio western. O era semplicemente per codardia.

─ Si, dimmi l'ora e il luogo.

Chris la guardò stranamente stupito, come se non fosse da lei fare qualcosa del genere.
In verità era così, cioè, era da anni, quasi tre anni che rifiutava di andare a festeggiare con gli amici ma Hazel era anche questo, un giorno mare e l'altro tempesta.

La serata finì con Hazel che rimase sdraiata sul divano e Chris che continuò a leggere la sua rivista. Tutto in un placido silenzio accompagnato soltanto dal mormorio sconnesso del televisore a basso volume, mentre figure di giovani uomini, vestiti di tutto punto, passavano sullo schermo nero.

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