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~ καιρός ~

καιρός (Kairos): periodo di tempo in cui avviene qualcosa di speciale; rappresenta un'occasione o un'opportunità.


Sapevo che sarei stata maledetta.

Ho cercato di impedirlo, ma cosa potevo fare? Ero solo una bambina quando l'ho saputo.

Sono stati i sogni ad annunciarmelo.

Ogni notte venivo rapita dai soliti dolci scenari per precipitare in un abisso grigio, come fatto di nebbia, e sentire quei sussurri. Mi hanno detto tante cose nel corso del tempo, ma più di tutte ricordo quell'unica parola.

Dono.

Me lo promettevano come una caramella o un giocattolino grazioso, come se mi stessero facendo un favore. Forse era questo a farmi più paura, di quegli incubi.

Ma l'incubo vero è iniziato a dodici anni, quando ho conosciuto il mio "Dono". Solo che si è rivelato una Maledizione, proprio come temevo. Un uomo stava morendo, da qualche parte, e io non ho mai saputo chi fosse o dove si trovasse, ma sapevo cosa provava. Anzi, lo sentivo. Ho visto, sentito e provato ogni cosa che stava passando lui, fino alla fine, fino a quella sensazione fredda e pesante, come se stessimo precipitando nel vuoto...

E adesso, cinque anni dopo, mi ritrovo qui, tremante, sul divanetto del salotto a guardare il telegiornale.

So che è inutile, ma spero comunque di sentire qualcosa sulla morte di poco fa. Spero che qualcuno abbia trovato quella donna in tempo e l'abbia salvata, spero un sacco di cose ma senza crederci davvero.

Tutte le volte, contro ogni logica, mi illudo che si possa fare ancora qualcosa per salvare quella vita. Quell'anima.

Ma so che non è vero.

Ricordo quella sensazione: un gelo penetrante che mi avrebbe fatto rabbrividire, se avessi avuto ancora un corpo, e che sembrava trascinarmi di peso verso le viscere della terra. Era troppo forte, troppo vera perché possa esserci ancora qualche speranza.

Eppure, le prime volte mi precipitavo in strada comunque. Finivo per girare tutta la città in cerca di una persona che stesse morendo. E l'unica volta in cui ho trovato qualcuno...Era già troppo tardi.

Reprimo il pensiero e mi stringo nel cardigan di lana. Sento ancora quel freddo, quello che arriva sempre alla fine. È quasi peggio del dolore. Rannicchio le gambe contro il corpo e mi mordo le nocche, nervosa.

Ascolto ogni singola notizia, senza distrarmi un secondo.

Mi sento stupida, perché ci vorranno giorni perché parlino di questa morte, ma ho ancora l'odore di paura addosso.

C'era un coltello stavolta, me lo ricordo. Un'arma vera, portata là per un motivo. Questa volta c'è stato davvero qualcuno ad organizzare tutto, qualcuno che probabilmente ha scelto anche un posto giusto che nasconderà arma e cadavere il più a lungo possibile, possibilmente per sempre. Spero di sentire almeno notizie di una scomparsa, ma del resto a che servirebbe? Non so niente di quel corpo se non che apparteneva a una donna.

Non so la sua età, la sua corporatura, il suo indirizzo, il suo modo di fare, i suoi pensieri. Eppure conosco il suo dolore. Un dolore acuto e bruciante in ogni parte del suo essere, anche quelle non colpite. Perché fa male tutto quando fa male il cuore. So che quella donna, o quella ragazza, è stata uccisa da qualcuno di cui si fidava, me lo ricordo, era sorpresa, era tradita.

"Basta" mi dico. "Non c'è nulla da fare ormai."

Dovrei alzarmi e andare a finire i compiti, almeno per non correre il rischio che mia madre torni a casa trovandomi in questo stato.

Dopo una Visione sono sempre uno schifo, dentro e fuori. Non ho bisogno di uno specchio per sapere che i miei ricci castani sono tutti aggrovigliati, che sono pallida come un cadavere o che ho gli occhi rossi dal pianto e sottolineati dalle occhiaie.

E nemmeno ho intenzione di controllare. Al momento è da circa un mese che non vedo la mia immagine riflessa, e preferirei continuare così.

Quando mi guardo allo specchio o in un vetro ho sempre una sensazione di straniamento. Non perché non riconosca la mia immagine, anzi. Ma quando la guardo vedo solo...un essere devastato. E mi dico che non è possibile che questa sia io, che sia sprofondata così in basso, poi però ci penso e mi accorgo che invece quel riflesso mi corrisponde perfettamente.

Mentre pensavo a questo, sono rimasta ferma con lo sguardo vitreo perso nel nulla. Di nuovo.

Cerco di tornare presente a me stessa e mi alzo, sentendo le membra indolenzite protestare – devo essermi incantata per un bel po'. Torno in camera, sbattendo di tanto in tanto il piede o il ginocchio contro un mobile, ma non ci faccio caso.

Quella che non riesco a ignorare, invece, è la sensazione calda e bruciante di una lacrima rimasta sulla guancia. Non provo nemmeno ad asciugarla, so che non è mia.

***

È lunedì, e come tutti i lunedì la giornata è abbastanza deprimente già dalla mattina.

Con un grugnito, cerco di affrettarmi nella ressa di studenti. Io arrivo a piedi, ma nello stesso orario di quelli che prendono il treno, così tutte le volte rimango imbottigliata nel "traffico". Ma se oggi arrivo a scuola con un po' di anticipo, avrò tempo per un caffè, spero. Con qualche spintone e altrettante scuse, raggiungo la strada, dove la folla inizia a dividersi, diffondendosi come sangue per strade polverose simili ad arterie vecchie e usurate.

Il grigio è ovunque attorno a me, ma basta alzare lo sguardo per trovarmi davanti lo spettacolo che non manco mai di ammirare.

Il cielo albeggia ancora, in un tripudio di azzurri e lilla e indaco e rosati che si rincorrono nel cielo, separandosi per poi fondersi di nuovo l'uno con l'altro in una danza che mozza il fiato. Ogni giorno li vedo, e ogni giorno sono leggermente diversi, pronti a strapparmi un timido sorriso in mezzo a questo vuoto incolore. Sono una delle poche cose che sfuggono al mio cinismo.

Lungo il marciapiede supero quelli che camminano più lentamente; sono tutti in coppie o in gruppi, come se l'essere insieme gli consentisse di avere tutto il tempo del mondo, o di desiderare di averlo. Ma non ce l'hanno. Sono l'unica vivente a sapere quanto la morte ci colga sempre di sorpresa, nel bel mezzo delle cose, con libri ancora a metà sul comodino, progetti fermi nella testa e sogni ancora chiusi nei loro cassetti. A volte la vita finisce proprio quando hai appena capito che è iniziata.

Scuoto la testa, cercando come al solito di liberarmi dei miei macabri pensieri. C'è già la Maledizione a intristirmi, senza nessun bisogno che lo faccia da sola, dopo tutto.

Raggiungo il bar del liceo e mi metto in coda dietro agli altri studenti che, come me, arrivano con un minimo di anticipo semplicemente perché a casa saltano la colazione.

Mi dà fastidio la presenza di tutti questi corpi che si ammassano uno sull'altro, premendo e spingendo per guadagnare una posizione migliore. Mi danno fastidio perfino le persone che parlano tra loro, scherzano, ridono, come se ci fosse qualcosa di cui ridere in uno schifoso lunedì mattina. Sospiro mentre finalmente raggiungo il bancone e ordino il mio espresso.

Non appena la cassiera mi consegna distrattamente il resto e avvicino la bevanda calda alle labbra, sento la campanella suonare. E improvvisamente ricordo che alla prima ora ho il professore di fisica, quello che quando sono entrata in classe alle 8,01, la settimana scorsa, mi ha lasciata accomodare al mio posto solo dopo avermi avvisata che la volta seguente avrei avuto bisogno dell'autorizzazione del vicepreside "per aver accesso al corso". Il tutto in un quarto di secondo.

"Merda."

Cercando di trovare una via di mezzo che soddisfi la mia esigenza di correre verso la classe e quella di non rovesciare il caffè fuori dal suo striminzito bicchierino di plastica mentre lo bevo ustionandomi la gola, arranco tra gli altri ritardatari.

Possibile che sia già ora di iniziare? Perché perdo sempre tempo in questo modo, mi chiedo, perché non posso mai fare le cose nel momento giusto...

E, con un sarcasmo ammirevole, la mia Maledizione decide di rispondermi con una crisi.

"No, per favore, non adesso, c'ho anche il bicchiere in mano, sono in corridoio, non puoi farmi questo davanti a tutti."

La bidella vicino alla mia classe ormai mi conosce e cerca di aiutarmi durante le Visioni, anche se non ho potuto dirle cos'erano davvero, ma in questo corridoio sono sola.

Sto perdendo coscienza del mio corpo, a partire dalla testa e dalle punte delle dita delle mani. Il controllo che ho basta solo per limitare i danni cadendo a terra, di fianco al caffè ormai inevitabilmente rovesciato.

Sento le mie percezioni che scemano lentamente. Prima l'odore di disinfettante al limone del pavimento, poi il vociare leggero degli studenti già in classe, infine la vista sulle mattonelle squadrate del corridoio. Scompare tutto. Un pezzo alla volta.

Ogni sensazione è sostituita da una nuova, non mia, ma che sento comunque come tale.

C'è odore di gomma bruciata sull'asfalto. Non vedo niente, mi sento come se le mie ossa fossero state frantumate una ad una, e probabilmente è così.

L'unico pensiero che si aggira ancora nella mia mente confusa è che sono in ritardo. Devo arrivare a scuola. Se faccio un altro ritardo la mamma non me lo perdonerà e riprenderà a guardarmi con quell'espressione di delusione e biasimo che dice che dovrei fare di più, e io davvero non posso permettermi di vederla così, non posso sentirmi ancora una volta un inutile ragazzino irresponsabile che non sa neanche strappare la sufficienza a scuola o trovarsi un lavoretto decente. Devo andare a scuola. Devo impegnarmi per il mio futuro.

Ma il mio futuro ormai potrebbe non esserci più, il mio tempo durerà solo pochi minuti ancora se nessuno mi aiuta. Sento delle urla in lontananza, ma non mi importa. Il mio udito si sta facendo ovattato, come se ogni suono mi arrivasse attraverso una spessa cupola di vetro.

Si sta bene sotto questa cupola. Fa un po' freddo, però non è male.

Potrei anche rimanere qua sotto. Chissà cosa dirà la mamma. Probabilmente si arrabbierà con me per non aver pensato a lei prima di attraversare la strada di corsa senza guardare il camioncino in arrivo, per essermi fatto portare via dalle mie responsabilità. Ma forse una parte di lei ammetterà finalmente di avere bisogno di me.

Non importa, decido. Avrebbe dovuto pensarci prima. Un po' mi dispiace di lasciarla, certo. E anche di perdermi la lezione di letteratura che ormai sarà cominciata senza di me, visto che non ero in tempo. La prof di italiano e storia, la Tiraboschi, era l'unica a cercare veramente di darmi una mano. Mi ha aiutato lei a passare l'anno scorso. Lei mi ha detto che ce l'avrei fatta e mi ha convinto a prendere ripetizioni. E ce l'ho fatta davvero.

Scusi prof. Oggi credo che sarò assente.

Qui c'è pace. Solo la voce del camionista cerca ancora di infiltrarsi dal mondo esterno.

Comincio ad arrabbiarmi con lui. È vero, ho sbagliato, ma non per questo può impedirmi di andare a lezione e dimostrare alla mamma che posso arrivare all'anno prossimo. Alla mamma? E perché? Forse è a me che lo voglio dimostrare. Ma non ci riuscirò mai restando qui.

Comincia a fare troppo freddo. E di colpo capisco: sto per morire.

Al camioncino non sembra importare affatto di me, perché se ne va, lasciandomi qua da solo sotto la cupola di vetro, più fredda che mai.

Non voglio morire così, nel viottolo deserto a due passi dalla scuola, da solo. Non voglio morire e basta. Voglio altro tempo.

Eppure...

Di colpo il mondo riappare davanti ai miei occhi, anche se sfocato e confuso. Sento lo stomaco sottosopra. Mi assale un conato di vomito.

-Ehi, respira. Va tutto bene, è passato, qualunque cosa fosse- cerca di calmarmi una voce maschile.

Ha un timbro giovane, ma saldo e rassicurante.

Sbatto le palpebre. Ma cosa...?

Chino su di me, con un ginocchio poggiato a terra, c'è un ragazzo sui diciassette anni.

È carino, devo dire, con folti ricci corvini, pelle ambrata e occhi neri come l'inchiostro. Ha un sorriso leggermente preoccupato, mi sta tenendo una mano sulla spalla, cosa che mi infastidisce subito.

Devo essere in uno stato pietoso.

Ma qualcuno era messo peggio di me. Qualcuno che ha la mia stessa prof di italiano e che ora è da qualche parte qua attorno...E questa è la cosa più strana.

-Serve un'ambulanza...C'è poco tempo- mugugno a fatica.

Lo sconosciuto fa un sorriso sghembo. -Non credo che sia così grave, sai?-

-Non per me- gemo, cercando di alzarmi.

Perché non so come, ma per una volta ho l'opportunità di salvare qualcuno. Perché quel ragazzino, quello che è stato investito, è ancora vivo.

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