8. Style
Canzone per il capitolo:
Style – Taylor Swift
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...You got that James Dean daydream look in your eye
And I got that red lip, classic thing that you like
And when we go crashing down, we come back every time
'Cause we never go out of style, we never go out of style...
Sono chiusa in questo maledetto negozio da tutto il giorno e non ne posso davvero più; il mio turno finisce tra due ore, ma a volte il tempo sembra moltiplicarsi in base a qualche oscuro algoritmo della sfortuna e della stanchezza. Per tutte le ore di lavoro appena trascorse ho servito, nell'ordine: un russo che non sapeva nemmeno parlare in inglese, figurarsi in italiano; una signora che pretendeva di acquistare un maglioncino della Lacoste con uno sconto del cinquanta percento perché, così lei sosteneva, apparteneva alla collezione precedente; ho inseguito un moccioso che ha girovagato per mezz'ora per il negozio senza che la madre si prendesse la briga di fermarlo dallo spiegazzare tutte le maglie impilate con cura sui tavoli... insomma, voglio solo tornare a casa e passare la domenica in santa pace a studiare in vista dei prossimi esami. E solo il fatto che una ragazza di vent'anni la domenica pomeriggio preferisca tornare a casa per poter studiare, lascia ben intuire quanto sia mediocre e noiosa la mia vita.
Mi sono rifugiata nel mio solito angolino del negozio, quello dove resto il più del tempo a piegare e ordinare le taglie dei capi appesi alla parete e piegati sui tavoli, più che altro per non avere a che fare con i discorsi superficiali e sterili delle mie colleghe barricate dietro la cassa; loro non fanno altro che parlare di vestiti e di nuove acconciature, di gossip e dell'ultimo ragazzo che si sono portate a letto. Quei discorsi mi deprimono ancora di più dei clienti maleducati. Quanto vorrei poter lavorare insieme alle mie amiche, scambiare battute e risate nella nostra intimità per far passare le ore di lavoro; e invece, io delle mie colleghe conosco a malapena i cognomi perché sono costretta a leggerli tutte le settimane sull'orario del quale ci rifornisce la nostra responsabile.
Cercando di rimettere in ordine il caos che ha creato il piccolo diavolo che è uscito da poco dal negozio, dalle casse dello stereo sento partire la canzone di Taylor Swift, Style. Mi piace molto quel pezzo e, fino a qualche tempo fa, apprezzavo anche lei come cantautrice; quando era giovane e stava scalando le classifiche con fatica e tanto impegno, Taylor rappresentava tutto quello che io avrei voluto fare nella mia vita, il mio sogno più grande: girare per il mio paese con una chitarra in spalla, un paio di amici accanto a me e cantare la musica che avrei scritto e composto io. Taylor aveva iniziato dal niente, proprio come avrei potuto fare io, e le sue canzoni al sapore di country degli inizi mi piacevano davvero molto: semplici, orecchiabili, giovanili. Ma gli anni passano e Taylor, ora, si è venduta alla discografia più commerciale ed è diventata ciò che io non vorrei mai essere: una cantante finta, più attaccata all'abbigliamento che sponsorizza e al suo aspetto estetico, rispetto alla qualità delle sue canzoni.
Mio padre tante volte ha sbeffeggiato i miei sogni, riducendoli alla stregua di un'inutile perdita di tempo, tempo che avrei potuto impiegare a studiare o lavorare. Da piccola mi aveva impedito di prendere lezioni di chitarra o di pianoforte perché erano troppo costose da poter sostenere; in seguito, mi aveva fatto capire, senza troppe spiegazioni, che le lezioni di danza che avevo frequentato fin da piccola dovevano raggiungere un termine, visto che le scarse finanze non ci avrebbero permesso di protrarle ancora a lungo. Lui era convinto che io aspirassi a essere la nuova Beyoncé, ma nessuno – e lui per primo - ha mai capito che il mio sogno non è mai stato quello di diventare una pop star di fama mondiale: non vorrei mai apparire sulle riviste, così come non vorrei girare videoclip spinti o fidanzarmi con l'attore più in del momento solo per farmi pubblicità - anche perché il mio anonimo aspetto fisico non mi permetterebbe una carriera del genere nemmeno se lo volessi -.
Io vorrei semplicemente vivere della mia musica, scrivere e incidere canzoni che ascolterebbero in poche centinaia di persone, essere uno sconosciuto Ed Sheeran dei primissimi esordi, quando cantava agli angoli delle strade per racimolare qualche moneta da raccogliere nella custodia della sua chitarra... Ma anche questo sembra essere un sogno irrealizzabile, per mio padre, per il mondo e il destino che sembrano remarmi contro; ed è irrealizzabile soprattutto per me, perché non so da dove cominciare e, cosa più importante e vera, non ne ho il coraggio. In fondo, è più facile percorrere il sentiero che qualcun altro ha già tracciato per noi, imboccare il destino che tutti si aspettano per la nostra vita e il nostro futuro: non c'è pericolo di sbagliare; inoltre, anche se questo avviene, possiamo convincerci che la colpa del fallimento non sia stata la nostra ma di eventi esterni.
Semplice, liscio, senza intoppi. Poco sforzo equivale a poco dolore.
Persa tra i miei pensieri, resto chiusa in quest'angolo del negozio non lontano dall'entrata, godendomi l'attimo di pace fornito dalla temporanea assenza di clienti, e inizio a canticchiare la canzone sottovoce, attenta che nessuno mi senta. Ed è proprio mentre canticchio il ritornello che guardo la porta di entrata e la vedo entrare; anzi, li vedo entrare. Rebecca accompagnata da Christian, che le tiene un braccio sulle spalle.
Vorrei morire...
Cerco di immobilizzarmi nell'angolino, nella speranza di mimetizzarmi con le camicie appese alle mie spalle, ma la bionda sa bene che io lavoro qui, sa bene di dover venire in negozio apposta tutti i fine settimana per farsi servire proprio da me e per sbattermi in faccia quanti soldi lei possa permettersi di spendere con la carta di credito del papà, mentre io devo puntualmente fare i conti con attenzione se pranzo una sola volta in più fuori casa.
Con il suo sorriso falso e i suoi denti perfetti, ecco che Rebecca si dirige verso di me con Christian alle sue calcagna, lui con la solita espressione fredda e un po' annoiata dipinta sul volto. « Ciao, Sara. Oggi ho proprio bisogno del tuo aiuto », cinguetta lei allegra, tenendo ben salda la mano di Christian sulla sua spalla come se potesse rischiare di volare via come un palloncino gonfiato a elio.
Sposto rapidamente lo sguardo su Christian, vestito con un cappotto elegante nero che gli arriva giusto sui fianchi e lo stesso paio di jeans neri strappati al ginocchio che gli ho visto indossare ieri. Alla luce del sole sembra essere ancora più bello, il suo viso è più luminoso e i suoi occhi ancor più verdi, e mi chiedo come diamine sia possibile.
« Certo... di cosa hai bisogno? »
Anche se i miei occhi sono stati costretti a posarsi nuovamente sulla ragazza, noto di sfuggita che Christian continua a fissarmi; la sua espressione è seria e rigida, anche se visibilmente annoiata per essere costretto in un posto nel quale, evidentemente, non sarebbe mai voluto entrare.
Rebecca si guarda intorno per qualche istante e solo quando individua la parete con i vestiti appesi decide di lasciar finalmente libero Christian per iniziare ad andare a sbirciare tra i capi. Supero il ragazzo annoiato e seguo la ragazza entusiasta, che inizia a togliere gli abiti dalle grucce senza aspettarmi e si impegna a mettere in disordine quello che ho precedentemente cercato di posizionare in ordine di taglia, vanificando così mezz'ora di lavoro.
Venti minuti di discussioni dopo a proposito della taglia - visto che Rebecca è riuscita a offendersi per averle consigliato una quarantadue e non una quaranta - la seguo con le braccia colme di abitini, camicette e pantaloni fino al camerino.
Resto fuori dalla tenda chiusa ad aspettare che finisca di cambiarsi per almeno dieci minuti, ascoltando i suoi commenti su quanto quei pantaloni non le piacciano, su quanto quell'altro abito risulti troppo largo, e su come invece quel vestito aderente riesca a far risaltare il suo seno prosperoso. Dopo qualche minuto passato a chiedermi dove possa essere finito Christian, sparito non appena io e Rebecca siamo andate a scegliere i capi, mi accorgo del suo arrivo, la camminata sicura che incede verso di me; si è tolto il cappotto per non essere annoiato nei movimenti e, lasciando i suoi occhi fissi su di me, mi supera per occupare il secondo camerino, portando con sé un paio di camicie maschili. Non riesco a impedirmi di fissarlo anche quando mi guarda per un ultimo istante prima di chiudere la tendina del camerino; è stato solo un attimo, ma vedere come quel ciuffo di capelli gli è ricaduto per casualità sulla fronte mi ha fatto perdere un battito.
Ripenso alle sue parole sprezzanti di ieri sera, quando ha giudicato me e le mie amiche solo a un primo sguardo, nemmeno conoscendoci; in fondo, io potrei permettermi di fare lo stesso con lui: silenzioso e cinico, sembra il tipico ragazzo ricco e annoiato che non ha mai visto un problema in vita sua, e il fatto che ora esca con una persona così superficiale come Rebecca non fa che confermare le mie ipotesi. Nonostante questo pensiero dovrebbe rasserenarmi, facendomi rendere conto che un ragazzo frivolo come lui non è affatto ciò che io vorrei al mio fianco... questo mi fa male lo stesso, perché il mio animo romantico e sognatore non si è mai dissolto del tutto e quel briciolo di speranza di incontrare l'uomo perfetto, il colpo di fulmine di cui in tanti parlano, quella persona che mi avrebbe rubato il cuore - ma che sarebbe stato anche disposto a permettermi di rubarglielo di rimando -, speravo di poterlo trovare. E la pura emozione che mi ha scosso nel momento in cui ho incrociato per la prima volta i suoi occhi verdi, il brivido che ha percorso tutta la mia fibra nervosa nell'esatto istante in cui avevo realizzato che quel ragazzo fosse reale e concreto davanti a me, credevo che fosse stato un segno.
« Ehi, Galway girl ».
Volto la testa verso la tendina accanto e scorgo Christian, che lascia spuntare solo il viso e mi ricerca con lo sguardo. « Puoi venire un attimo? »
Cercando di mantenere un tono freddo, distaccato e professionale, e provando a dimenticare la discussione di ieri sera, annuisco e mi avvicino per capire di cosa possa aver bisogno. Scosto la tendina con un sospiro, sospiro che rimane a metà trachea quando vedo il ragazzo dal volto maledettamente perfetto che, come se non bastasse, ha anche un fisico maledettamente perfetto. Christian non indossa nulla sopra i jeans e sta fissando le due camicie che tiene nelle mani. « Quale mi consigli? »
Resto a fissarlo con la bocca aperta a formare un'imbarazzante o maiuscola, le guance che con tutta probabilità stanno raggiungendo livelli di incandescenza che potrebbero gareggiare con la lava del Monte Fato; ma perché quella sorta di inutile e stupidissimo colpo di fulmine unidirezionale non mi è capitato con un ragazzo meno avvenente? Di sicuro, avrei saputo farmene una ragione prima.
La mia bocca resta socchiusa per tutto il tempo che i miei occhi impiegano a percorrere avidamente ogni centimetro del suo corpo atletico, i muscoli che si notano chiaramente definirgli il fisico slanciato - anche se non sono affatto esagerati -, i tatuaggi che lo abbelliscono e lo dipingono come una quadro di assoluta perfezione terrena. Il problema è che, evidentemente dalla mezza risata che gli scuote il torace, devo essere rimasta troppo a lungo a fissarlo con la bocca aperta, fattore che lo ha costretto ad agitare una mano davanti al mio viso per farmi riprendere. Emblema della mia vergogna. « Ehi, Galway girl, sei ancora tra noi? »
« Più o meno », sussurro così piano che Christian, per fortuna, non riesce a sentire. « Allora, su cosa saresti più orientato? La fantasia o la tinta unita? »
Alza le spalle e si volta lentamente verso lo specchio, mentre io cerco di raccogliere tutte le mie facoltà mentali per placare i miei ormoni ed evitare di ripetere la stessa imbarazzante procedura di guance rosse e bocca aperta pure per la sua schiena ampia e atletica. « Di questa mi piace il colore, ma di quest'altra la stoffa ».
« Le hai provate? »
« No », risponde con un sorriso sghembo che riesco a scorgere dallo specchio. « Ti ho chiamata proprio per questo ».
Si gira di scatto e, acciuffandomi per il polso, mi trascina dentro il camerino con lui prima di chiudere la tendina. Mi ritrovo così con il suo viso a pochi centimetri dal mio e un bel po' di battiti del cuore in meno; il suo profumo fresco mi colpisce direttamente come uno schiaffo sul viso e io mi ritrovo a respirarlo a pieni polmoni nemmeno fosse l'ultima boccata di ossigeno per l'uomo in procinto di affogare. Devo trattenere con forza le mie dita per impedirmi di entrare in contatto con quella pelle liscia, giusto per appurare con il tatto che il suo petto sodo sia anche così morbido e...
« Pensi di aiutarmi o preferisci stare lì a fissarmi ancora per un po'? »
Mi schiarisco la voce e faccio un passo indietro. « Io non ti stavo fissando ».
« Sì, come no », risponde sicuro infilandosi la prima camicia, bianco gesso e classica, con una trama appena visibile di zigrinature tendenti al grigio.
« Senti... stai zitto. Come dovrei aiutarti, scusa? »
Una volta indossata la camicia, mi porge i lembi abitati da asole e bottoni. « Sai, faccio sempre fatica con le chiusure ».
Con la saliva bloccata in fondo alla gola, prendo i lembi della camicia per aiutarlo a chiuderla, ma lui non perde l'occasione per sfiorarmi le dita quando mi passa la stoffa. Mentre io cerco di concentrarmi per un compito che, in teoria, dovrebbe essere tanto semplice, Christian fa un impercettibile passo in avanti, movimento che i miei ormoni in subbuglio sembrano percepire invece più che chiaramente. Inizio a pensare che Christian si diverta a distrarmi, visto che resta per tutto il tempo a fissarmi con insistenza, a sorridermi con le labbra appena piegate all'insù, come se il rossore inevitabile sul mio viso lo divertisse un mondo. E quando arrivo infine a chiudere gli ultimi tre bottoni, eccolo che avvicina il viso ai miei capelli, quasi come se volesse annusarli; la sua mano, grande e calda, arriva a posarsi rapidamente sulle mie, per fermarmi nella mia corsa fatta di bottoni e asole da riempire. « Credo che così possa bastare ».
Immersa in un oceano di imbarazzo, sto per farmi più indietro per allontanarmi da lui e smuovermi da questa situazione, ma Christian invece trattiene le mie mani sul suo petto, premendole appena, e si avvicina ancora di un passo; è così vicino ora che riesco a notare ogni minimo dettaglio del suo volto, delle sue iridi chiare, del suo naso dritto e fiero, persino delle pallide efelidi che lo solcano e che non avevo notato a un primo sguardo. Prende un ciuffo dei miei capelli tra le dita e lo accarezza lentamente, mentre una cascata di brividi pare scuotermi fino alle caviglie perché è così vicino da permettermi di sentire il calore del suo corpo lambire il mio.
E quando la mia immaginazione ormai è partita verso miraggi di baci appassionati nel camerino, dichiarazioni d'amore improvvisate da un ragazzo con lo sguardo alla James Dean, Christian che cosa fa? Fa un passo indietro, sfilando via la mano dai miei capelli; tra le sue dita noto penzolare un filo rosso, probabilmente proveniente da uno dei maglioncini che stavo piegando fino a poco tempo fa, e così intuisco che Christian non stava affatto flirtando con me così come le mie fantasie sfrenate suggerivano, ma cercava solamente di togliere quella stupidissima fibra incastrata tra i miei capelli.
« Sara?! » lo strillo di Rebecca arriva ai miei timpani con parecchio ritardo, a giudicare dall'insistenza e dal livello di acuti insiti nelle sue parole. « Sara?! Ma dove si è cacciata quella svampita? »
Mi schiarisco la voce e, provando a non guardare più Christian per evitare ulteriori figuracce e illusioni inutili, esco rapidamente dal camerino per vedere che cosa voglia da me la bambola rifatta. « Eccomi ».
Guarda prima me e poi la tendina scostata del camerino di Christian con fare sospetto. « Che stavi facendo là dentro? »
« Christian aveva bisogno di una mano per le camicie », spiego in tono piatto.
La testa bionda che sbuca dal camerino mi squadra da capo a piedi, come a voler giudicare il livello di pericolo che io posso rappresentare in qualità di sua rivale; potrei rassicurarla io stessa che non c'è e non ci sarà mai alcun pericolo in proposito: sappiamo entrambe che lei vincerebbe a mani basse su metà popolazione femminile mondiale. « Beh... ascolta; secondo te, questo vestito mi sta bene? »
Rebecca apre infine la tendina e si mostra con un vestito aderente e corto appena sotto l'inguine, bianco tinta unita e che riesce a risaltare alla perfezione il suo incarnato dorato, che rende ancora più scuro pure in inverno grazie alle numerose lampade che non perde mai l'occasione di fare. Vorrei tanto poter dire che è una ragazza volgare, che sta male con indosso quell'abito... ma mentirei. Rebecca è proprio bella, il suo fisico armonioso e slanciato è perfetto per indossare quel capo, che sembra creato apposta per segnare tutte le curve del suo corpo; insomma, persino io vorrei toccare quelle curve, e immagino che i ragazzi quando la vedano per la prima volta non riescano a pensare ad altro. Lo ammetto candidamente... sono invidiosa di lei, sono invidiosa del suo sorriso radioso, dei suoi fianchi che curvano appena all'esterno ma in un'onda non troppo eccessiva, e di quella pelle di velluto che pare attirare la punta delle dita.
« Ti sta... bene », ammetto facendo un passo indietro. « Il vestito è perfetto ».
« Andiamo? » si intromette Christian, appena giunto alle mie spalle.
Con uno sospiro e la mano passata nel ciuffo ribelle per ravviare i capelli, Christian sposta lo sguardo annoiato verso Rebecca, la quale, ingorda della nostra attenzione, compie una giravolta per mostrarsi meglio. « Allora, Christian, che ne pensi? »
Mi faccio da parte per permettergli di vedere meglio quella che, ormai credo sia palese, sembra essere diventata nel giro di qualche ora la sua ragazza; eppure, non vedo molto nel suo sguardo oltre al solito livello di noia al quale sembra abituato. « Perfetto... andiamo? »
Lei sembra indispettita dal rapido calo di interesse, così lascia cadere gli occhi sulle camicie che Christian tiene tra le mani. « Tu cos'hai preso? »
Lasciandoli alla loro conversazione, decido che è il momento di avvicinarmi alla cassa per evitare di essere costretta a sentire continuamente il suo orrido accento italiano che storpia una lingua tanto armoniosa come l'inglese: non c'è cosa che mi irrita di più al mondo.
Per la miseria, mi sento così stupida ad aver pensato soltanto per un secondo... ma no, ciò che ho provato dentro quel camerino è stata solo un illusione. Forse Christian si diverte solamente a mettermi in difficoltà e a prendersi gioco di me; di sicuro, è uno di quei ragazzi che tratta le ragazze alla stregua di giocattoli usa e getta, accanendosi principalmente su quelle più timide perché, probabilmente, gli danno più soddisfazione.
Qualche minuto dopo, entrambi arrivano a pagare in cassa, entrambi estraendo le rispettive carte di credito. Christian ha comprato due delle camicie più costose di tutto il negozio, ma è Rebecca che questa volta sembra proprio aver voluto esagerare rispetto alle sue solite spese: il costo di tutto quello che ha comprato equivale a tre miei stipendi mensili... spesa che io non potrei permettermi nemmeno in anni di minuziosi risparmi.
Una volta impacchettati i loro acquisti, Rebecca prende il braccio di Christian e lo riporta là dove era appollaiato in origine, sulle sue spalle per assicurarsi di non perdere il suo bel palloncino per strada, e se ne va senza salutare. Solo Christian mi lascia con un cenno del capo e una strizzata d'occhio che, sinceramente, non riesco a interpretare in altro modo se non come presa in giro per quello che è successo nel camerino.
« Oh mio Dio! Ma quell'inglesino sexy chi cavolo era?! » esclamano le mie colleghe quasi in coro.
Sospiro e rispondo in tono vago, tornando nel mio angolino per aspettare la fine del turno. « Solo un ragazzo che abita sopra di me ».
E di nuovo, il coro si leva dalle tre amiche. « Wow! Certo che potevi presentarcelo! »
Ma io le ignoro e fingo di non aver sentito le loro ultime parole.
Con un una buona dose di pazienza e un breve tragitto in metro, ecco che torno finalmente a casa, pronta per farmi un bagno e mettermi sotto con lo studio. Così come spesso accade, le mie amiche passano la domenica pomeriggio in giro insieme fuori casa, di conseguenza entrare nell'appartamento silenzioso non mi sorprende affatto. Ciò che invece mi lascia di stucco è una busta, lasciata sul pavimento accanto al portone e al tavolino posizionato lì vicino, come se fosse caduta da esso. La afferro e leggo subito la scritta sopra: Sara.
Solo il mio nome. Apro la busta e all'interno della carta liscia trovo trecento euro. Sorrido.
La stringo un poco tra le dita e quasi sento gli occhi pizzicare di tenera felicità, pensando alle mie amiche, pensando alla loro gentilezza e al fatto che so di poter contare sempre su di loro nei momenti di difficoltà. Spero soltanto di poterli restituire loro il prima possibile.
Ripescando il cellulare dalla borsa, mando un messaggio al nostro gruppo whatsapp, le Wild Girls.
Vi voglio bene.
Solo questo. So che loro capiranno.
Una volta liberata della borsa e della giacca, decido di farmi un bagno e rilassarmi un po' dopo la lunga e stancante giornata di lavoro trascorsa rigorosamente in piedi. E, come in ogni momento della mia vita, io faccio partire la musica dal mio telefono. Non riesco a farne a meno: ogni volta che posso, ecco che la musica mi riempie la testa e il cuore, e io inizio a cantare; ma lo faccio solo con la musica giusta, quella adatta al momento preciso e al mio umore. Io non ho mai avuto un genere musicale preferito, ho sempre spaziato molto a seconda di ciò che le mie emozioni e il mio stato d'animo del momento mi suggerivano; così, so passare dalla rock più spinta quando mi serve la carica, alla pop nelle volte in cui il mio animo ha bisogno di sollevarsi di un tono e sorridere un po'; ci sono poi le tracce più particolari, quelle che uso per viaggiare con la fantasia, come il jazz o il blues, la musica classica o i pezzi alternativi... e infine, come in questo momento, mi lascio andare alle canzoni più tristi, più malinconiche. Non lo faccio apposta, è più forte di me; a volte la musica riesce a estrapolare fuori la tristezza che covo nel profondo, quello stato d'animo che altrimenti non riuscirebbe a fuoriuscire e resterebbe dentro di me, non permettendomi di andare avanti. E allora lo libero, lo lascio sfogare attraverso le lacrime per lasciarmi in pace; almeno per un po'.
E così, ora sono immersa nella vasca da bagno, il profumo di cocco del bagnoschiuma che sale, Damien Rice in sottofondo che mi culla e io... e io che piango un po'. Ma solo un poco, direi a Silvia; non è niente, ho una ciglia nell'occhio, mentirei a Maia... è soltanto il ciclo, concluderei con Timon.
Ma sono tutte bugie; io piango, lo faccio spesso, ma la maggior parte delle volte un motivo scatenante nemmeno c'è. Ho semplicemente bisogno di farlo quando ripenso alla mia vita, a quello che ho passato e a ciò che mi aspetto che avverrà.
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Spazio Dory:
perdonate la lunga assenza... purtroppo non è sempre possibile avere la testa a posto e lucida per scrivere; a volte l'ispirazione manca, a volte sono gli impegni che riempiono le giornate a impedirmi di scrivere.
Spero di non farvi aspettare più così tanto... e spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
Vi piazzo una bella gif così mi perdonate?
Dai... facciamo due così siete contente!
Aspetto i vostri commenti... un abbraccio!
E non dimenticate di votare ;-)
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