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La morte non fa paura

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L'idea di morire non fa paura.

Non fa quasi mai paura.

Alla fine, è come addormentarsi. In fondo, nemmeno te ne accorgi.

Si tratta di un processo naturale, del semplice corso della vita.

Perché, in fondo, riceviamo tutti una sentenza di morte nel giorno della nostra nascita, dal primo spiraglio di luce che i nostri occhi vedono.

Eppure, quando ci ritroviamo vicino a questo evento inevitabile, quando esso ci colpisce da vicino, portandosi via chi amiamo, rimaniamo lì inermi a domandarci il motivo per il quale sia successo.

La morte è quasi sempre ingiusta, del resto.

L'intera esistenza umana, a volte, pare esserlo.

Delle volte viene da domandarsi perché continuare a vivere, se a tutto c'è una fine?

E la risposta non c'è.

Nessuno è mai stato in grado di formularla.

La morte è onnipresente.

Ogni giorno da qualche parte del mondo qualcuno si spegne - centinaia e centinaia di persone - ed è assurdo pensare come ogni cosa vada avanti, incurante di tutti quei respiri spezzati, di quei cuori che hanno smesso di battere.

Di esistenze che sono divenute niente.

Quindi, che senso ha?

Non fa paura la morte.

Fa paura quello che c'è dopo.

Fa paura il buio eterno.

Fa paura la consapevolezza di essere dimenticati prima o poi e di non aver lasciato nemmeno un segno.

Fa paura sparire e atterrisce la certezza che le nostre ceneri le porti via il vento troppo velocemente.

Ancor prima che qualcuno possa pronunciare il nostro nome per un'ultima volta.





Fase 1 - Negazione:
La perdita di una persona cara causa uno shock emotivo e fisico, che porta ad ignorare un simile evento. Si è consapevoli dell'accaduto, ma esso diviene impossibile da accettare.


«Manuel, vuoi - vuoi metterla la cravatta?».

La voce di Anita rimbomba in quella stanza mezza vuota. C'è soltanto un letto e un armadio a tre ante di legno color nocciola.

Dovevano finire di arredarla.

La donna è in piedi, con quel pezzo di stoffa nera in mano. Sbilancia il peso del corpo da un piede all'altro, scrutando la figura del figlio, seduto sul bordo del letto perfettamente sistemato e rimboccato, con un piumone beige.

Manuel è immobile da quelle che sono ore. O forse sono minuti o una manciata di secondi.

Non ne ha idea. Ha smesso di scandire il tempo o esso si è semplicemente bloccato da quando è successo.

Che è successo?

«Manuel?» la donna tenta ancora di richiamare l'attenzione del ragazzo, con nulli risultati. Muove qualche passo lento nella sua direzione, fino a che non gli può sedere accanto. Posa un palmo sulla sua coscia. «La mettiamo la cravatta?».

La domanda che viene ripetuta lui non la sente.

È buffo perché da quando é successo, la realtà si è fatta improvvisamente silenziosa. Ogni cosa ha cessato di far rumore.

Ma che è successo?

I suoi occhi sono vacui. Le pupille sono dilatate, fissano un punto vuoto sulla parete che ha davanti.

Non ci sono lacrime che gli rigano le guance.

Ha già pianto fin troppo. Forse adesso non ne è più capace.

«Manuel?».

«Devo dipinge la stanza». Quella frase gli esce fuori di bocca con tono strozzato, rauco. Sono tre giorni che non parla.

Tre giorni e riesce a formulare solo quell'intreccio di parole prive di contesto. «Me lo dice sempre che - ci va 'na rinfrescata e che dobbiamo cambià colore, non— Ma non c'ho mai tempo, il lavoro me sfianca. Finisce che s'arrabbia pure ed è brutto quando s'incazza. Sembra buono buono, ma se s'incazza fa paura».

Continua a blaterare, con lo sguardo fisso al muro tinto di arancione che gli si erge di fronte.

È un brutto colore, l'arancione.

Anita lo ascolta in silenzio. Una parte di lei vorrebbe fermarlo perché sa che si sta facendo soltanto del male in quel modo. Eppure non lo fa. Lo lascia andare avanti. Sono tre giorni che non lo sente parlare, del resto.

«La vogliamo fa' verde». Manuel sibila e soltanto allora si volta nella direzione della madre. Quest'ultima, abbozza un sorriso stanco e «Perché verde?» accorda il suo discorso.

«È il colore di libertà e speranza» mormora lui. «Ce sentiamo liberi qua dentro».

Anita annuisce. Ha gli occhi gonfi, l'aria stanca. Da quando è successo, non ha dormito. Allunga una mano verso il suo viso, gli accarezza una guancia. «È un bel colore il verde».

A Simone piace un sacco il verde, è il primo pensiero che Manuel elabora.

Poi il cervello lo corregge.

A Simone piaceva un sacco il verde.


Fase 2 - Rabbia
La consapevolezza arriva come un fulmine a ciel sereno, il che provoca rabbia e risentimento verso quel che è successo, si cerca un colpevole che molto spesso nemmeno esiste. E si prova rabbia anche verso chi non c'è più per averci lasciati soli.


C'è un bussare insistente alla porta. Dura da almeno dieci minuti.

Manuel lo sente bene, ma il corpo non collabora. Non riesce ad alzarsi dal letto su cui giace supino.

Non si è manco mai accorto di quanto fosse grande quel materasso.

Troppo grande, adesso che è solo.

«Manuel?». Insistono. «Manuel, mi vuoi aprire? Sono due settimane che non ci rispondi, siamo preoccupati per te, lo capisci?».

Manuel strizza gli occhi quando quei tonfi sul legno si fanno più forti.

La realtà è tornata ad avere un suono, ma è un rumore che non vuole ascoltare: sono mormorii continui, cigolii fastidiosi.

Non è un bel rumore.

Da quando Simone lo ha lasciato, non ci sono più rumori belli.

Alla fine, riesce a muoversi. Lo fa trascinando i piedi scalzi sulle mattonelle gelate e con la testa che gli gira.

Percorre lento i metri che lo separano dalla porta d'ingresso e piano la apre.

Sa già chi si ritroverà davanti.

Dante lo sta fissando col capo appena inclinato su di un lato, le labbra serrate e l'espressione stanca. Ha un aspetto terribile.

Manuel è pressoché convinto sia speculare al proprio, dato che non si fa la barba da giorni e gli prude, non si fa una doccia da almeno una settimana e non tocca cibo solido da pressoché lo stesso tempo.

«Mi fai entrare?» esclama il professore, con tono piatto. Il ragazzo non oppone alcuna resistenza. Si scosta, per permettergli il passaggio.

L'appartamento è piccolo: ha un ingresso living su una cucina dai mobili rossi e lucidi, con un piccolo divano a due posti e un televisore appeso alla parete.

C'è caos e polvere lì dentro. Dante lo nota subito. «Non ti chiedo che hai combinato» esclama. «Di sicuro non pulito casa» cerca di sdrammatizzare. Con quale forza non lo sa manco lui. Sta solo mascherando la propria devastazione.

Manuel chiude l'anta alle proprie spalle. Incrocia le braccia al petto. Non riesce a guardare colui che gli è appena entrato in casa in faccia.

Dante assomiglia tanto, troppo a Simone. Hanno gli stessi lineamenti del viso, ad entrambi si forma una ruga in mezzo alla fronte quando sono preoccupati e allerta; persino i ricci sono gli stessi.

Se fosse invecchiato, Simone sarebbe diventato come suo padre.

«Che ce fai qua?» dice, tenendo lo sguardo basso.

«Te l'ho detto. Non rispondi al telefono da due settimane, tua madre si stava preoccupando».

«Seh, vabbè» Manuel borbotta. «Mó hai visto che sto bene, te ne puoi annà».

Dante è ben consapevole della situazione che ha davanti. Per cui scuote il capo e lo fissa con gli occhi ridotti ad una fessura. «Perché fai così?».

È una domanda alla quale Manuel non sa rispondere.

Gli ultimi quindici giorni si sono trasformati in una processione di gente che ha invaso casa propria con la scusa di stargli vicino. Gli hanno portato torte, muffin, ogni genere di leccornia come se quei doni potessero in qualche modo alleviare il suo dolore.

Ma il punto è un po' quello: lui non sente dolore.

«Non sto a fa' niente» si giustifica. «Non dovevi passà, sto bene».

«Benissimo, vedo» Dante lo sbeffeggia. Si guarda intorno. Il disordine è evidente, con vestiti abbandonati sulle sedie della cucina, sui cuscini del divano. C'è un particolare che cattura la sua attenzione più di tutti: poco lontano, oltre la soglia della porta della camera da letto che da lì è visibile, con luce fioca nota la presenza di vetri rotti sparsi a terra; tra di essi, spuntano due cornici di legno ormai vuote. Le foto che contenevano sono scivolate via e giacciono stropicciate sulle mattonelle.

Non ha bisogno di avvicinarsi e vederle per capire chi ritraevano: Simone e Manuel in momenti felici, a costruire un grosso puzzle della loro esistenza.

Conosce a memoria quegli scatti. Il figlio li ha tenuti per anni in camera propria, alla vecchia villetta dei Balestra. Ricorda persino il momento in cui le ha messe insieme e incorniciate. Non pensa di averlo mai visto sorridere così tanto.

Prende un respiro profondo. «Perché non vieni da noi?» sussurra; intende lui e Anita, stanno insieme da qualche anno. «Magari te fai 'na doccia prima e possiamo...».

«Non me va» è la risposta secca che fornisce Manuel. Nemmeno vorrebbe usare un tono così duro, soprattutto con chi ha di fronte. Sa che non sa lo merita. Sa che Dante ha perso un altro figlio e niente può competere contro una sciagura così grande.

Ciò nonostante, il professore incassa il colpo e serra le labbra. «Per favore, non— Non restare qui a torturarti, chiuso tra queste quattro mura».

A Manuel sfugge una risata sull'orlo dell'isterismo. Si passa una mano sul volto. La barba stride sulle sue dita.

Dante resta fermo a fissarlo, con le braccia adesso rilassate lungo i fianchi. «È che da quando è successo...» prova a dire e Manuel lo interrompe bruscamente: «S'é ammazzato» lo sibila e risulta inquietante, pare quasi che quel tono di voce non gli appartenga. «Si è ammazzato» ripete. «Simone si è suicidato e ha lasciato soltanto una— una stupida lettera con delle stupide parole che non valgono un cazzo. Continuate a parafrasarlo quando è successo questo, no? Ha salito le scale fino al tetto e s'é buttato de sotto. Chiamatelo cor nome suo».

La realizzazione di quanto è accaduto è folle e crudele.

Dante deve buttar giù ulteriori frasi che lo distruggono. La lettera di Simone l'ha letta, quella indirizzata a sé; prima che quello accadesse, ne ha scritte tre, una al padre, una alla madre e l'ultima a Manuel.

Tutte diverse, eppure simili. Rievocare il macigno di quell'inchiostro su carta non giova, pertanto sbatte rapido le palpebre e cerca di mantenere la calma, per quanto possibile. «Quel che voglio dire...» ritenta. «È che Simone non avrebbe mai voluto vederti così».

Manuel ride più forte. «Beh» commenta. «Simone non è certo qui per dirmi cosa devo fare».

La rabbia prende il sopravvento per sostituire dolori troppo grandi per poter essere gestiti. È un meccanismo di autodifesa che la mente attua al fine di risparmiarci atroci sofferenze.

Quel sentimento devastante si manifesta e propaga anche verso chi non ha alcuna colpa.

Verso chi se ne è andato, verso chi è rimasto.

Dante è perfettamente in grado di riconoscerlo, scomporlo e analizzarlo. Rimane con un'espressione impenetrabile in volto. «S'é ammazzato» borbotta. «E magari— Magari avresti voluto un mezzo avviso prima, così da preparati, giusto? Invece no». Schiocca la lingua sul palato e compie mezzo passo nella sua direzione. «Lo ha fatto senza dire niente e la sua lettera ha parlato solo quando era troppo tardi. Se solo l'avesse fatto prima, uh?».

Manuel non sa quale sia l'intento del professore, tuttavia quelle frasi lo trafiggono come mille frecce scagliate all'unisono. «Smettila» soffoca e strizza le palpebre.

«No, perché?» l'uomo, invece, infierisce. «È così, no? Simone s'é ammazzato e non ha pensato a te. T'ha lasciato solo, da bravo egoista. E lo so che è— è egoista perché è proprio come me».

Il petto di Manuel trema. Sta iniziando a sgretolarsi. «Un bel egoista del cazzo. Mica c'ha pensato a te, no?».

«Smettila, smettila, smettila» urla il ragazzo. La distanza che li separa è poca, così riesce a scagliarsi su di lui per fargli una spinta, poi un'altra e un'altra ancora, mentre ancora cantilena: «Smettila, smettila, smettila!».

Dante lo lascia fare per qualche secondo. Lo ferma soltanto alla quinta spinta, con uno scatto, bloccandolo per le spalle. Prende un respiro profondo. «Va bene se sei arrabbiato con lui, Manuel» mormora. «Almeno un po'».

«Non va bene» singhiozza Manuel, arrendevole. Cerca di opporre resistenza, ma è un tentativo vano. Gli occhi gli si sono inumiditi e colmati di nuove lacrime.

Non piangeva da una settimana.

«Va bene. Puoi farlo» il professore cerca di mantenere un tono pacato e calmo, ma la voce che gli si spezza in gola lo tradisce. Lui dolore ne prova e fin troppo.

È una di quelle sofferenze che riduce a brandelli l'anima, quando gli hanno strappato via, ingiustamente, un ulteriore pezzo di sé.

«Che gli vuoi dì a Simone?» gracchia. «Puoi— Far finta che sia qui. Fai finta che io sia Simone. Dimmi quello che vorresti dire a lui».

Manuel manco deve sforzarsi più di tanto per immaginare il suo viso davanti a sé.

Dante gli somiglia fin troppo. L'immaginazione deve lavorare poco per materializzare un perfetto ritratto dell'altro ragazzo.

La vista è un po' offuscata adesso. «Perché m'hai lasciato solo?» sussurra. «Perché— te ne sei andato?» un singhiozzo lo fa tentennare. «Io che faccio mó? Io che sono adesso?».

Pronunciare quelle frasi equivale ad una resa.

È allora che la facciata di rabbia e indifferenza al mondo decade, crolla, collassa.

Manuel va in frantumi esattamente come le cornici che contenevano le loro foto insieme.

Va a pezzi e sono quelli che Dante è in grado di raccogliere prima che raggiungano il pavimento. Quest'ultimo, difatti, stringe il ragazzo tra le braccia. Non ha abbastanza forza per reggerlo in quel momento, quindi si ritrovano entrambi a terra, seduti in malo modo sulle mattonelle di ghiaccio e polvere.

Manuel oppone ulteriore resistenza che scema rapidamente. Piuttosto, si lascia cullare dall'uomo che più di tutti gli ha fatto da padre negli ultimi anni e non crede finirà mai di ringraziare per questo.

Affonda il viso nel suo petto, si lascia stringere, del tutto inerme e indifeso. «Come ha potuto— pensare che io, che... Che ce la faccio senza de lui?» biascica. «Non só capace, io non só bono a— Non só niente senza de lui».

Dante non dice nulla. Si limita a stringerlo e oscillare leggermente, un movimento lento e ripetitivo.

Ormai Manuel è pieno di lacrime che pare aver trattenuto troppo a lungo, tant'è che gli bruciano gli occhi.

Si lascia consumare dal dolore che torna prepotente dopo un impeto di rabbia, qualcosa che lo ha fatto sentire forte per una frazione di secondo e poi lo ha ridotto in cenere un po', del resto, come è accaduto amando Simone.


Fase 3 - Autorecriminazioni
La rabbia scema e i pensieri diventano ossessivi. Si cercano mille se e ma, nel tentativo vano di trovare spiegazioni dove non ci sono, di analizzare ogni azione compiuta e ogni frase non detta, alla ricerca di errori commessi e che si potevano evitare al fine di sconfiggerla la figura con la falce.


L'aria è pungente quella sera. Gli sfiora le guance, gli spacca la pelle.

Le luci della città sono ben visibili da quel punto. C'è marasma lì sotto, per strada. Sono a stento le nove di sera, c'è ancora traffico tra le vie di Roma.

Le persone sui marciapiedi gli paiono puntini in movimento. È incredibile come siano tutti incredibilmente piccoli.

Ci crediamo così grandi, a volte, invece siamo minuscoli.

Si sente leggero.

È in piedi sopra al parapetto in muratura del terrazzo posto sul tetto di quel condominio di sette piani.

Guarda giù. È altissimo. Sembra di essere in una dimensione differente.

Lui sul tetto del mondo, gli altri che camminano sotto, piccoli e insignificanti.

E poi c'è il vento sottile che gli provoca brividi continui lungo la schiena. Sono l'unica cosa che un po' lo fa sentire vivo.

«Che ce fai qui?».

Di certo non si aspettava di rimanere solo a lungo. È un mese circa che i propri amici fanno a turno, la sera, per andarlo a trovare. Per sua fortuna, hanno smesso di portargli cibo.

Quel giorno è toccato a Matteo. Non gli occorre voltarsi per capirlo.

Stringe i pugni lungo i fianchi.

«'O sai che cadere da un palazzo fa parte delle morti più violente e veloci?» sibila e guarda giù, verso il marciapiede che è almeno ventiquattro metri più sotto. «Perché— perché mori quasi sempre sul colpo». Le braccia le allarga, sbilancia il peso del corpo su un solo piede.

Il cuore di Matteo batte forte nel torace. Vorrebbe indirizzarsi verso l'amico, tirarlo via da quel parapetto. Tuttavia, esita. Non vuole fare nulla di azzardato, nulla che peggiori la situazione. Che in quell'ultimo mese gli pare di aver fatto soltanto danno e di non esser stato mai abbastanza. «Me lo puoi - raccontà giù?» tenta. «Daje, puoi scendere e andiamo a casa a parlare».

Manuel si volta dopo una simile richiesta. Lo fa in modo lento e instabile, tant'è che l'altro ragazzo prova l'ennesimo impulso di afferrarlo e riportarlo coi piedi sulle mattonelle di pietra del terrazzo.

Ma anche stavolta non fa niente, si limita a fissarlo, trattenendo il fiato.

Gli occhi di Manuel sono gonfi e arrossati, le sue guance incavate. Ha fatto la barba di recente, però essa è già ricresciuta e spunta timida, ispida e corta sulle sue guance. «Però lui non è— Non è morto sul colpo» sussurra. «Pensa che ci è arrivato vivo in ospedale, 'o sai? Era vivo». Una risata isterica gli sfugge dalle labbra. «È rimasto sopra quel marciapiede lì sotto, lo vedi?» cerca di indicarlo con un dito. «Pe' venti minuti perché l'ambulanza non arrivava, perché se hanno sentito che uno s'é buttato de sotto, hanno forse immaginato che era già morto e quindi perché correre? O forse— forse c'era soltanto tanto traffico e... E lui è rimasto lì su quel cazzo dì marciapiede, nel... Nel suo stesso sangue, a sentire le ossa rotte e vedere che— che nessuno faceva niente per farlo 'sta mejo».

Matteo lo ascolta in silenzio. Ora ha il fiatone. Osa compiere un solo passo nella sua direzione, esitante. Gli allunga una mano. «Scendi» lo dice con la voce che gli si spezza in gola. È strano osservare Matteo in quel frangente: nonostante siano passati anni dal liceo, lui sia maturato e cresciuto, è pur sempre rimasto quello con la battuta pronta, per scherzare e ridere in ogni situazione. Ma quel Matteo sul tetto è lontano anni luce da ciò.

«Per - per favore, Manuel» lo supplica.

Perché ha già perso un amico e non vuole che succeda lo stesso con un altro.

Manuel lo ignora. Si guarda indietro, a fissare di nuovo il marciapiede da oltre le proprie spalle. L'aria si è rarefatta; è pesante.

Ha improvvisamente caldo. «C'ha passato 'na vita intera a convive col dolore» biascica. «Ed era troppo, era— Diventato troppo e ha voluto spegnerlo. Lo ha scritto nella lettera, lui...». Si interrompe.

Solleva lo sguardo, che va ad incrociarsi con quello dell'amico. «Non só stato bravo a farglielo spegnere, Matté. Dovevo esserlo, dovevo accorgermene, io...».

«Non è così» Matteo prova a rassicurarlo. Fa cenno di no con la testa. «A volte il dolore delle persone è— grande, troppo grande e co' radici profonde che non lo puoi strappà via, anche se lo vuoi».

«Ero er fidanzato suo e non è bastato».

L'ombra di un sorriso gli appare sul viso, stanco. «Perché l'amore non te salva, Manuel». Matteo vorrebbe alleggerire il peso sul petto dell'amico. Ci prova, ancora col terrore di provocare danni; cammina su vetri rotti, del resto.

Il punto è che è sempre stato spettatore della relazione tra Simone e Manuel, arrivando a ritenerlo un rapporto perfetto, con loro due che si completano a vicenda. E lo sa - come lo sanno tutti - che il loro amore era quanto di più grande e puro potesse mai esistere. Ciò nonostante, alcuni tipi di dolore, di inadeguatezza alla vita non si eliminano con un rapporto stabile, con i soldi, con un lavoro.

Non è così facile, non basta schioccare le dita.

Ci sono sofferenze perenni che non vanno mai via e, alla fine, ci si arrende e basta, perché non si vede più una luce in fondo al tunnel. C'è soltanto il buio.

E Simone ha scelto di lasciarsi inghiottire da esso.

Non ci sono colpevoli o cause specifiche.

Era la vita.

È la vita.

«Ce potevo provà un po' de più» soffoca Manuel.

A tale affermazione, Matteo non risponde. Piuttosto trova il coraggio di allungare una mano verso di lui, sperando con tutto sé stesso che l'altro la afferri.

Quest'ultimo rimane immobile, a fissare le dita tese e tremanti che gli offrono un appiglio in quel mare di angoscia.

Guarda ancora giù per un istante. Immagina che Simone, quel giorno, abbia fatto lo stesso; abbia guardato tante volte verso il basso, prima di prendere coraggio.

Perché Simone era coraggioso.

Ci vuole coraggio per porre fine alla propria vita in quel modo.

Sussulta quando si decide ad afferrare quella mano e scendere dal parapetto. Inciampa non appena i piedi toccano il pavimento e, alla fine, entrambi cadono a terra.

Adesso sono sdraiati in posizione supina, il naso all'insù a fissare il manto stellato oscurato dalle luci dei lampioni e dallo smog della città.

Un flebile «Mi dispiace» fuoriesce dalla bocca di Manuel. Matteo, però, non può sentirlo, ma tanto non è lui il destinatario di quelle scuse.


Fase 4 - depressione
È la fase del dolore più acuto, dove regna la tristezza e l'arrendevolezza di fronte a ciò che accaduto. Spesso, dalla depressione è difficile riprendersi del tutto e molti rimangono bloccati in essa.


«Ho paura di dimenticare la sua voce» Manuel lo dice in un flebile sussurro, mentre le immagini di un un film d'azione scorrono sullo schermo piatto della tv della cucina. Non sta davvero seguendo le scene o dialoghi.

È abbandonato sul divano, la schiena appoggiata ai cuscini, la testa inclinata su di un lato e le mani sulla pancia.

Chicca gli lancia un'occhiata distratta. A lei la pellicola un po' interessa, ma è stata soltanto una scusa per passare a casa dell'amico - era il suo turno.

Gli è seduta accanto, per quanto il divano sia piccolo per entrambi; è riuscita a rannicchiarsi in un angolo, portando le ginocchia al petto. Raccatta il telecomando che si è incastrato tra i cuscini più grandi e abbassa un briciolo il volume.

Non fa domande, non crede ce ne sia bisogno. È sufficiente uno sguardo per invitare il ragazzo a proseguire: «La voce è la prima cosa che te scordi. Per la faccia non è un problema, no? Te pigli 'na foto, la guardi ed eccola, non te può sfuggì dalla memoria. Ma la voce no. Te puoi ascoltà una registrazione, quello che vuoi, ma non è lo stesso». Fa una breve pausa, lasciandosi andare ad un lungo sospiro.

«M'ha mandato un audio su Whatsapp qualche giorno prima che succedesse» confessa. «Me lo ascolto de continuo e me dice solo de ricordamme de prende le uova al supermercato. E lo ascolto sempre perché c'ho paura che un giorno me svejo e non me ricordo più la voce sua o il suo odore».

«Non accadrà» il tentativo di rassicurarlo di Chicca non è molto convincente, anzi, il contrario.

Manuel aggrotta le sopracciglia. «Tu dici?» biascica. «E se invece col passare del tempo, me scordo pure il resto? Non te ne accorgi quando te dimentichi della gente, succede e basta».

Si solleva col busto. Trema. Si alza in piedi. Muove nervoso qualche passo nella minuscola cucina di quel bilocale. «Te scordi le piccole cose, Chì» esclama. «Tipo...» si sposta, indica la caffettiera che hanno utilizzato poco prima ancora calda e posta sopra i fornelli. «Faceva un caffè da schifo. Ce metteva poca acqua e troppa polvere, veniva su petrolio. E io me lamentavo sempre e lui rideva 'n sacco, me prendeva in giro». Allarga le braccia, esasperato. «In bagno ce sta il tubetto de dentifricio spremuto da metà. Io sapevo che je dava fastidio e lo lo facevo de proposito perché così se incazzava. Je venivano le orecchie rosse addirittura».

Si passa una mano sul viso. «In camera ce sta il letto che ha lasciato vuoto ed è troppo grande mó che ce sto solo io».

Abbassa lo sguardo di colpo come se una nuova, strana e lacerante consapevolezza lo avesse travolto.

Il punto è che ogni giorno che passa la morte di Simone diviene più concreta, un muro solido contro il quale continua a sbattere.

«La notte, a volte, lo cerco» confessa «Mi giro, allungo il braccio e lui c'era... Prima c'era».

Anche Chicca si è alzata dalla sua postazione. Raggiunge l'amico e gli si ferma davanti. Forse vorrebbe abbracciarlo, ma si trattiene – non ha idea del motivo.

«Non voglio dimenticarlo» ammette Manuel «Non le voglio dimenticare le sue abitudini, il modo in cui me svegliava la mattina, il suono della sua risata... Non voglio».

Chicca non sa esattamente cosa dire perché le vengono in mente soltanto frasi di circostanza o troppo ovvie e banali per essere esposte. È convinta, tuttavia, che il timore di Manuel sia del tutto infondato: non sarebbe mai in grado di cancellare Simone perché Simone è ovunque in lui; è nei suoi occhi, nel suo cuore, nella sua testa così come è presente in ogni angolo di quella casa, pur essendo assente. Erano come un unico individuo prima e continuano ad esserlo ora.

Glielo vorrebbe dire eppure qualcosa lo blocca; è come se Manuel dovesse semplicemente capirlo da solo.


Fase 5 - accettazione
È l'ultima fase, quella a cui non tutti arrivano. Delle volte rimane soltanto una mera illusione, un credere di avercela fatta per colmare il vuoto che si ha dentro.


In sei mesi, Manuel non ha mai trovato la forza o il coraggio di recarsi al cimitero.

Non gli è mai piaciuto quel posto: è freddo, tetro, gli mette tristezza.

Se ne è sempre tenuto alla larga per quanto possibile.

Che pensa che non ha senso piangere su un pezzo di marmo quando l'assenza e l'essenza della persona persa è in ogni centimetro cubo del mondo.

Quel giorno, tuttavia, qualcosa cambia e il cancello arrugginito del luogo lo supera, ne valica la soglia.

C'è silenzio intorno, eterno e micidiale, spezzato solamente dal vento che smuove le fronde dei salici che costeggiano le lapidi e dei versi di qualche merlo che aleggia nel cielo grigio.

Cammina lento, su un terreno composto da piccoli sassi che scricchiolano sotto ai suoi piedi.

Sa esattamente dove recarsi: è una parte nuova del cimitero; ricorda che quando è stato lì quella prima e unica volta, il giorno del funerale, gran parte delle tombe era vuota, mentre adesso il circondato è pieno di lapidi nuove o provvisorie.

Ne raggiunge una in particolare, di marmo bianco con una semplice scritta in rilievo d'ottone. Ci sono delle date di nascita e morte decisamente troppo vicine tra di loro.

Venticinque anni sono pochi per morire.

Appare una foto racchiusa in una cornice ovale, dello stesso colore delle lettere che riportano nome e cognome.

Non è un'immagine che rende giustizia a Simone. Ricorda bene il giorno in cui hanno immortalato quel momento: c'era lui dietro la fotocamera, un pomeriggio al mare dove il compagno non ha messo la crema sui piedi ed è finito per scottarseli. Rimembra bene che hanno riso fino a non avere più fiato e poi, dopo, ha voluto scattare quella foto. Quindi Simone ha il sole in faccia, il naso arricciato e un mezzo sorriso sulle labbra.

Esistono foto più belle, ne avrebbe a bizzeffe, ma quella è stata la prima che gli è venuta in mente quando glielo hanno chiesto.

Era di un momento felice.

Magari, ha pensato, guardandola ogni volta, avrebbe richiamato quel giorno in spiaggia, con l'odore di salsedine sulla pelle e i capelli umidi d'acqua salata.

Magari.

Manuel rimane immobile, in piedi di fronte a quel pezzo di marmo che solitario e insulso racchiude e rappresenta una vita intera, l'esistenza dell'amore della sua vita.

Buffo come si possa incanalare ogni giorno vissuto al mondo in uno stupido pezzo di marmo.

Buffo come quello sia il destino di tutti.

«Ciao, Simó» sussurra, come se potesse essere sentito. Un po' gli piace pensare che sia così: che Simone - il suo Simone - non sia soltanto quella lapide, quel corpo sotto terra che col tempo si decomporrà. Gli piace pensare che Simone sia altrove: nel vento che muove le foglie degli alberi, nella polvere del caffè che si prepara la mattina, nel dentifricio che continua a spremere da metà.

«Visto che só venuto, alla fine? Ce metto sempre 'n sacco a fa' le cose, 'o sai, no?».

Manuel si guarda intorno. Non c'è nessuno, a parte una signora che si accinge a riempire un vaso lungo e di metallo alla fontana.

Poco gli importa quando dapprima si siede sul manto erboso e dopo si sdraia. Lo fa lasciandosi la lapide alla propria destra.

Appoggia entrambe le mani sulla pancia.

Una volta - fin troppo spesso - in quella posizione a fissare il cielo, c'è stato con Simone: ore ed ore spese a contemplare le nuvole, poi le stelle, oppure restando semplicemente in silenzio.

Perché si capivano senza proferire parola alcuna.

Finge che sia ancora così, che l'altro ragazzo gli sia accanto nella medesima posizione. È facile immaginare i suoi tratti, il suo mezzo sorriso e gli occhi ridotti ad una fessura che lo scrutano.

«Ho dipinto la stanza nostra settimana scorsa» racconta. «È venuto un verde brillante, forse pure troppo, me accieca». Ride. «E ho messo tutte le robe de plastica a terra, così non se macchia il pavimento».

Si ferma, schiude le labbra. Uno stormo appare nel blu del cielo.

Simone è pure lì.

«Ho trovato pure le cose— come se chiamano? Quelle stelle adesso che puoi attaccà al soffitto, così d'averle sempre in casa quando fuori fa troppo freddo. 'O so che ho detto che faceva strano, ma c'avevi ragione te: ce stanno bene».

Manuel va avanti a parlare, in quel dialogo a senso unico. Racconta ogni minimo dettaglio di quei mesi di solitudine, tutto ciò che gli è accaduto. Di tanto in tanto si perde in aneddoti del passato, ride da solo e poi torna improvvisamente serio.

Rimane delle ore accanto a quella lapide bianca sporcata da qualche venatura grigiastra, sdraiato sull'erba con lo sguardo fisso sulle nuvole grigie.

Ad un tratto, delle gocce di pioggia cominciano a scendere lievi. Gli bagnano il viso.

Gli piace pensare che sia una sorta di risposta, insieme ai tuoni e ai fulmini che sopraggiungono poco dopo.

Un leggero sorriso si dispiega sulle sue labbra.

«Simó?» lo richiama. Pronunciare il suo nome glielo fa sentire più vicino.

«Non me le só scordate le uova».




















A trentotto anni, Manuel è sposato con una ragazza che ha conosciuto in un locale del centro di Roma una sera. Le ha parlato di Simone, lei sa tutto e lo lascia libero di continuare ad amarlo.

Ha anche una bambina piccola dai lunghi capelli corvini e un paio di occhi color nocciola. L'ha chiamata Ginevra perché è un nome che a Simone piaceva tanto.

Manuel ha una vita diversa, dodici anni dopo la morte di Simone.

Alcuni dicono abbia voltato pagina, sia andato avanti e che ora è felice.

Non sbagliano di molto.

Sì, è felice, per quanto possa esserlo una persona a cui manca inesorabilmente una parte di sé.

Manuel fa capolinea in quel cimitero, davanti alla stessa tomba, una volta a settimana, tutti i giovedì.

È un appuntamento fisso, alle cinque in punto.

In ogni occasione, racconta a Simone ciò che gli è successo durante i giorni trascorsi, lo aggiorna sui particolari della propria vita nei minimi dettagli.

Lo fa continuando a sdraiarsi sull'erba, che sia verde e rigogliosa o gialla e secca.

Ci passa almeno un'ora sdraiato al suo fianco, a sentirlo e percepirlo nell'aria, nel caffè e nel dentifricio.

Perché per Simone lui c'è e ci sarà sempre.

È la sua anima gemella, del resto, e non ci si accorge di averla accanto finché non la si perde.

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