Capitolo 12 - Il mio segreto
Il lunedì successivo lo passo interamente in casa.
Un po' a letto, un po' al piano, un po' sul divano a guardare la tv.
Mando qualche messaggio a Riley, la quale mi risponde nelle pause che ha a disposizione, ovvero quando non ha clienti da servire o tavoli da lucidare, il che corrisponde, più o meno, ad ogni mezz'ora.
Mentre sto aspettando la sua risposta alla domanda che le ho appena inviato - ovvero quando vuole tornare da me a suonare - , una domanda, che non c'entra assolutamente nulla né con la ragazza, né con la serie tv che sto guardando, mi passa fugace nell'anticamera del cervello.
E se mi iscrivessi all'università?
Il liceo l'ho finito da un anno ormai, ma continuare gli studi è una cosa che non ho mai preso in considerazione, e i miei genitori non mi hanno mai spinto a farlo.
Con lo sguardo fisso sul display da 55 pollici, mi interrogo su che facoltà potrei scegliere eventualmente.
In cosa sono portato? In quale materia ero più bravo?
Decisamente non scienze, e nemmeno matematica. Forse letteratura inglese. In realtà, a parte le prime due discipline, ho sempre avuto una media del C.
Deciso a saperne di più sul mondo universitario, do appuntamento a Breaking Bad più tardi e spengo il televisore. Senza l'aiuto delle stampelle, anche perché le ho lasciate accanto al letto, salgo le scale e, una volta in camera mia, mi siedo al computer.
Dopo un'ora sono arrivato alla conclusione che l'unico college che mi potrei permettere è la University of North Carolina ovviamente, a Wilmington. Peccato che sia principalmente una scuola di teatro, all'interno della quale non vi è nemmeno un corso di musica. Solo danza e recitazione.
Ci sarebbero altre opzioni, ma non posso pensare di allontanarmi da casa.
Sono malato, ricordiamocelo, e i malati hanno bisogno di cure.
Sbuffo sonoramente e, annoiato, mi getto sul letto.
Estraggo il cellulare dalla tasca dei pantaloni ma Riley non mi ha ancora risposto.
Decido di scriverle un nuovo messaggio.
A Riley:
Ho passato un'ora a cercare un'università che potrei permettermi, ma niente da fare.
L'unica sarebbe quella qui a Wilmington, peccato sia solo una facoltà teatrale.
Che palle.
Lo invio e, finalmente, la sua risposta arriva in meno di cinque minuti.
Da Riley:
Fico! Potresti diventare il nuovo Johnny Depp!
Comunque non la escluderei come idea, sai anche suonare il pianoforte. Ti ci vedrei su un palco.
Potresti andare a sentire direttamente, se vuoi ti accompagno io.
Rileggo quelle tre righe più di una volta.
Io su un palco?
No. E' escluso.
Già mi tremano le gambe se devo uscire con una ragazza, figuriamoci suonare su un palco davanti a una platea.
Le rispondo che forse mi conviene di più trovare un lavoro, anche se... chi si accollerebbe mai un ragazzo malato di emofilia?
Un ragazzo che, per di più, cammina solo se sorretto da due bastoni di metallo e che se dovesse inciampare e cadere sarebbe costretto a volare in ospedale?
Nessuno.
La ragazza risponde nuovamente dicendomi che potrei mandare il mio curriculum, miserissimo, in qualche negozio o bar.
Se solo sapessi, mia cara Riley...
Le mando una faccina e blocco il display, poi, senza nemmeno accorgermene mi addormento.
-
Quando riapro gli occhi, lo faccio solo perché sento una mano sfiorarmi il braccio nudo.
Gli occhi verdi di mia madre mi scrutano con dolcezza e le sue labbra mi rivolgono un gentile sorriso.
«Sarebbe ora di cena amore» sussurra, accarezzandomi premurosamente la testa.
Confuso, mi stropiccio gli occhi e sbadiglio, per poi alzarmi a sedere.
«Giornata noiosa» dico facendo spallucce prima di mettermi in piedi.
«E' da un po' che non canti?» mi domanda seguendomi fino alla cucina.
Annuisco, informandola che oggi non ho nemmeno suonato.
«Ho cercato su internet delle università» mormoro quando mi siedo a tavola accanto all'uomo di casa.
Entrambi si girano a guardarmi.
Nei loro occhi aleggia preoccupazione.
«Tranquilli, non ho trovato nulla che vada bene per me. Non me ne andrò come fa la maggior parte dei ragazzi della mia età»
Il mio tono di voce è normale, anche se dentro di me sono trafitto dall'ennesima coltellata.
Vorrei non aver bisogno di aiuto per ogni minima cosa, ma nel profondo so che sarò costretto ad aver bisogno degli altri per sempre.
«Beh, Shawn, a noi piacerebbe tantissimo che tu continuassi a studiare, ma non...»
Interrompo mio padre bruscamente, non ho voglia di sentire per l'ennesima volta la solita solfa.
«Papà, lo so. Infatti ho detto che me ne starò qui, a casa» sbotto, poggiando la forchetta sul tovagliolo.
Mi è passata anche la fame.
L'uomo mi guarda serio.
«Se solo mi lasciassi finire di spiegare, invece di partire sempre con le tue idee...» brontola. «Stavo cercando di dirti che, certo, un'università lontana da Wilmington non te la puoi permettere, noi non possiamo, ma esistono dei corsi per adulti, delle scuole speciali per chi non può andare al college»
In effetti non avevo pensato a questa opzione, però dubito esista una scuola per adulti con materie che interessano a me. Insomma, il liceo l'ho già fatto, non posso ripetere discipline già studiate.
«No papà, l'unica cosa adatta a me sarebbe un conservatorio, o una scuola di musica, cosa che in questa città non esiste» affermo scuotendo il capo. «E se cercassi un lavoro? Magari qualcosa in cui poter stare seduto, così non dovrei faticare per via della gamba»
Il volto di mia madre si illumina di colpo.
«Potresti venire a lavorare con me in libreria! Potresti stare alla cassa, o...»
«Perché no? Potresti chiedere alla signora Lansbury se può assumere anche Shawn. Tanto ci conosce da tanti anni» esclama mio padre rivolto alla moglie.
Mentre loro continuano a discutere su come potrei essere utile all' "Adventure World Book Shop", io continuo a mangiare, in silenzio, chiedendomi se quella possa essere davvero la soluzione alla mia noia e una svolta per la mia vita.
«Ma con il gruppo di sostegno?» chiedo poi, di punto in bianco, appena mi ricordo che la mia presenza al centro è già stata pagata per un anno.
«Si tratterebbe solo di una mattina a settimana, non penso sia un grosso problema» risponde la donna.
Mmm, sarà.
Ma la signora Lansbury dubito fortemente che possa permettersi un altro dipendente da stipendiare.
-
«Ci sono mille altre occasioni Shawn. Se non ti prendono in libreria, andrai da un'altra parte!»
Sono seduto con Riley all'interno della sua Suzuki rossa, davanti al cancello di un parco, e le ho raccontato tutto. Del fatto che ogni università per me è off limit e che anche la ricerca di un lavoro può risultare complicata.
Ovviamente lei la fa facile, mi ripete da un'ora che sono un ragazzo con la testa sulle spalle e che non devo preoccuparmi così tanto, ma solo perché non sa la verità.
«Tu non capisci, non posso permettermi qualsiasi tipo di lavoro, non io» mormoro rivolgendo lo sguardo fuori dal finestrino.
Il cielo notturno ricopre ogni cosa col suo manto di tenebra, e in quella zona isolata le uniche luci sono quelle di due lampioni poco distanti da noi.
«Allora spiegamelo, perché sì, in effetti non capisco tutta questa tua preoccupazione» sussurra la mora, sistemandosi meglio sul sedile del guidatore. Le gambe ora incrociate, le mani sulle ginocchia.
I miei occhi continuano ad osservare l'esterno, alla ricerca di qualcosa di indefinito pur di non guardarla in faccia. Ma deve sapere, è giunta l'ora di mostrarmi per quello che sono e di sfogarmi con qualcuno che non abbia il doppio dei miei anni, qualcuno che, anche se non potrà mai capirmi, potrà almeno immaginare come mi senta.
Mi inumidisco le labbra e inspiro a pieni polmoni. Deglutisco e mi brucia la gola.
«Sono malato»
La mia voce è un filo di seta che si strappa al primo soffio di vento.
Sento gli occhi pizzicare, ma cerco di resistere. Non voglio farmi vedere debole, non da lei.
La sento muoversi accanto a me, ma non dice nulla, non fa nulla, e per un attimo penso che aprirà la portiera e fuggirà via.
Ma mi ricredo quando sento la sua mano posarsi sulla mia, la avvolge, la stringe e l'attimo dopo mi attira a sé in un abbraccio. Quel contatto dura interi minuti, ma quando si scioglie sento di non averne avuto abbastanza. Le mie pupille, spente, umide, incontrano le sue, tristi per colpa mia.
Lei che ha sempre quel sorriso contagioso e quegli occhi allegri, ora ha lo sguardo da funerale.
«Non mi guardare così, ti prego» sussurro, e sto per voltare nuovamente il viso altrove quando lei, invece, poggiandomi il palmo sulla guancia, mi costringe ad instaurare nuovamente un contatto visivo.
«Non mi importa»
Parla sottovoce, ma ci siamo solo io e lei, quindi non mi è difficile capire cosa dice.
Quelle tre parole, ora come ora, per me sono tutto.
Quel suo "non mi importa" significa che la mia condizione non cambierà la nostra amicizia appena nata, e le sono grato per questo.
Sto per abbracciarla di nuovo, ma vengo frenato dalla sua domanda.
«E' per questo che vieni al centro. Non per la fisioterapia, ma per il gruppo di sostegno, è così?»
Annuisco lievemente e in quell'istante decido di dirle la verità.
«Sai quando, l'altra sera, a casa mia, ti ho detto che tutti abbiamo dei segreti che è difficile confessare? Il mio è questo. Sono emofiliaco da quando sono nato, e non posso guarire con nessuna cura. Non posso correre, non posso andare in discoteca a scatenarmi, non posso guidare perché se dovessi cadere o prendere contro a qualcosa, o anche solo a qualcuno, rischierei di avere delle emorragie interne gravi» spiego. «E la gamba, beh quella è solo una sorta di bonus: sei emofiliaco? Bene, per te anche una gamba che non segue i comandi»
Cerco di essere ironico, ma la realtà è proprio questa.
«Ora sai il mio segreto» dico, e nel farlo mi appoggio con la schiena contro lo schienale.
Mi sono tolto un bel peso e sono contento di essermi aperto del tutto con lei.
«Beh, non è da tutti avere un amico con un bonus!» esclama, gli occhi brillanti.
«Non voglio prenderti in giro Shawn, non pensarlo nemmeno per un momento. Sto solo cercando di dirti che essere malati non è una vergogna, anzi, ti rende unico, speciale, e a volte quello che pensiamo sia un difetto, in realtà non lo è. Tu sei così. Ti trascini dietro una gamba e cammini con due stampelle, e allora? Dov'è il problema? Non puoi guidare? Bene, prendi un autobus, un taxi, me! Hai paura di cadere o andare addosso a qualcuno? Evita posti pieni di gente o scansali con una stampellata in testa! Tu sei più speciale di tutti gli altri ventenni proprio perché ti differenzi da loro, chiaro?»
Mi perdo ad ascoltare il suo monologo come se fosse l'orazione di Martin Luther King o di qualche altro colosso. La sicurezza, la decisione con cui mi ha parlato mi stupisce.
Vorrei pensare anche io quello che lei pensa di me, ma non credo di esserne in grado.
Ho sempre creduto di essere uno sfigato diverso dagli altri, e sebbene Riley sia stata molto convincente, mi ci vorrà un po' per rendermi davvero conto che ha ragione.
«E tu? Qual è il tuo segreto?»
Di solito quando ci si confida, uno dice una cosa e l'altro ne dice un'altra. Così, per essere pari. Tuttavia alla mia domanda si incupisce, la sua espressione torna seria e noto nei suoi occhi un lampo di imbarazzo e disagio.
Si irrigidisce e riaccende la macchina.
«Si è fatto tardi, domani devo alzarmi presto. E' ora di rientrare. Parleremo di me un'altra volta»
Detto ciò, ingrana la marcia e, in silenzio, ritorniamo a casa.
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