~Capitolo 22~
Entrò piano, tentando di fare meno rumore possibile. Per fortuna Kevin aveva una chiave di riserva sotto il vaso di margherite ormai appassite, sicuramente opera di Sonia, e l'aveva notata per pura casualità, attirata dal luccichio della luna che si rifletteva sul piccolo pezzo di metallo che sbucava da sotto la plastica scura. Forse era madre natura che le dava una mano, tentando di rimandare di qualche altra ora il suo funerale. Si chiuse la porta alle spalle e si inoltrò nel salotto scuro a passi brevi e cauti, aveva paura di inciampare o di andare a sbattere contro qualcosa. Era sicura che Kevin stesse dormendo sul divano quindi non poteva nemmeno farsi strada con la luce del cellulare, doveva affidarsi alla memoria e alla fortuna. Purtroppo non era mai stata un tipo brillante o fortunato. E ciò che aveva scoperto quel pomeriggio con Connor ne era la conferma, qualcuno si era reso conto della sua cotta per Kevin e aveva usato quell'informazione contro di lei, ma chi? Chi mai, oltre a Carly, l'aveva odiata al punto da farle quello? Forse qualcuno l'aveva vista mettere il bigliettino nell'armadietto del ragazzo e aveva fatto la spia alla cheerleader? Non lo sapeva, aveva così tante domande e supposizioni che la testa le scoppiava. La luce della lampada posta vicino al divano si accese all'improvviso e Sophie urlò spaventata. L'ex marine era semi seduto sul sofà con lo sguardo vacuo puntato verso i suoi piedi, in una mano reggeva una lattina di birra mentre sul pavimento ne giacevano altre probabilmente vuote e con l'altra mano teneva la cordicella della lampada.
«Sei tornata, finalmente...» La sua voce era bassa e priva di qualsiasi emozione. Aveva pronunciato quella frase senza nemmeno guardarla e Sophie sentì un brivido freddo strisciare, viscido, lungo la schiena.
«Sì... Ti avevo detto che sarei tornata entro sera.» Gli si avvicinò cauta, tentando di non fare movimenti improvvisi che avrebbero potuto spaventarlo o farlo partire all'attacco, come se fosse un animale selvatico. E Kevin era sfuggente e pericoloso esattamente come un animale allo stato brado, era sempre vigile a chi gli stava intorno come se si aspettasse di venir attaccato da un momento all'altro. Ma gli animali selvatici erano anche fragili e in quell'istante gli sembrò fatto di fine cristallo, sarebbe bastato un piccolo ed esile colpo per romperlo. Le si strinse il cuore, il suo stato d'animo era forse colpa sua? Perché se n'era andata con Connor senza avvertirlo né permettergli che le andasse dietro? Gli sembrava una reazione piuttosto eccessiva, eppure la rabbia che aveva stretto a sé fino a qualche istante prima iniziò a sfumare via lentamente.
«Ti ho sempre vista aggirarti con quello sguardo da cerbiatto impaurito» iniziò improvvisamente lui, mandandola in confusione.
Di cosa diamine stava parlando?
«Potevo quasi sentirti trattenere il respiro mentre percorrevi i corridoi della scuola per arrivare al tuo armadietto. Lì il tuo sguardo si tranquillizzava e le spalle si rilassavano, per te quello era il tuo posto tranquillo, il rifugio dove nessuno poteva disturbarti.»
Sophie iniziò a capire le sue parole e il cuore prese a battere furioso. Stava ricordando i tempi del liceo? Sembrava di sì, eppure le stava descrivendo qualcosa che lei non avrebbe mai reputato possibile.
«Mi ricordo ancora il codice del tuo lucchetto per tutte le volte che ti ho osservata in silenzio... 02365. Ero sempre teso e pronto a prendere a pugni Connor, se ti avesse fatto del male, eppure ci riusciva sempre. Ogni volta che non potevo essere con te lui ti dava il tormento, quanto mi sono odiato e sentito impotente. Riuscivo a placcare avversari più grandi di me, ma non ero in grado di esserci per l'unica ragazza importante per me» fece una risatina amara e bevve un altro sorso di birra dalla lattina.
Lei invece era rimasta immobile a pochi passi da lui, incapace di articolare mezza parola o di pensare con lucidità sufficiente. Le sembrava di essere stata catapultata in una delle sue fantasie adolescenziali, quante volte aveva sognato di sentirsi dire quelle parole? Non riusciva più a contarle, ormai, e ora le sembrava tutto così assurdo.
«Sapevo anche dove ti piaceva nasconderti, sai?» continuò lui, facendola sussultare. «Ti nascondevi sotto gli spalti durante l'ora di pranzo, con te avevi soltanto il solito succo di frutta al mirtillo, un sandwich al tacchino e il quaderno rosso dove disegnavi. Amavi disegnare, non ho mai capito chi o cosa, ma non m'importava, mi bastava vedere la tua espressione serena e felice per sentirmi in pace col mondo. Mi facevi sentire un calore dentro che non pensavo avrei più provato, ti guardavo e avrei voluto essere tante cose: un bravo studente, un ragazzo migliore, l'orgoglio della mia famiglia e un esempio per mia sorella. Mi hai fatto desiderare di essere tutto ciò che non sarei mai potuto diventare, perché era ciò che meritavi.»
«Kevin...»
«Ti ricordi le scritte sullo specchio dell'ex bagno dei professori?» la interruppe. «È lì che tutto è iniziato ed è sempre lì che ho scoperto che eri tu che rispondevi a tutti i miei sfoghi. Da allora non ho mai smesso di pensarti, ho atteso a lungo il momento giusto per fare il primo passo ma proprio quando avevo trovato il coraggio tu sei sparita.»
Kevin agitò la lattina che aveva in mano con un gesto lento e fiacco, quando capì che la birra all'interno era ormai finita, la lanciò dall'altro lato della stanza. Finalmente alzò il capo e puntò gli occhi su di lei, il suo sguardo era duro e sembrava nascondere una qualche accusa, la cosa non le piacque per niente. Aggrottò le sopracciglia, cercando di capire dove volesse andare a parare con quel revival della loro adolescenza. Perché le stava raccontando tutte quelle cose? E perché proprio quella sera?
«Ora so perché sei scomparsa» affermò incollerito prima di alzarsi con uno scatto e raggiungerla, parandosi di fronte a lei. «Quella sera al lago mi dicesti che il ragazzo che ti piaceva aveva dato il biglietto che gli avevi scritto a Carly, che lo lesse davanti a tutti. Quel ragazzo ero io, vero?»
Sophie s'impietrì, lo aveva già ammesso, eppure quando lo aveva fatto lui non sapesse a chi si stesse riferendo perché ancora non l'aveva riconosciuta, ma ammetterlo di nuovo... Davanti a lui! Deglutì tentando di trovare il coraggio.
Tanto tra qualche giorno te ne andrai, quindi cosa cambia? È arrivato il momento di scoprire tutte le carte, si disse.
«Sì, eri tu.»
Lui le afferrò le spalle con forza, spaventandola, il suo sguardo sembrava quello di un indemoniato. «Be' io non ho ricevuto nessun biglietto, tantomeno lo avrei dato a Carly. Ero pazzo di te, lo capisci?»
«Kevin, ormai è inutile rivangare sul passato» gli disse. Era stanca di rincorrere un rancore vecchio di cinque anni, non ne aveva più motivo, non dopo quello che le aveva detto Connor. Ormai sapeva che non era colpa sua, che non era stato lui a giocarle quel brutto tiro, ma non aveva più importanza. Si conoscevano appena e cinque anni avevano cambiato molte cose, loro in primis, e le loro vite erano andate avanti. Le faceva battere il cuore sentirgli dire che era stato pazzo di lei, ma appunto, lo era stato una volta, e certi sentimenti non sopravvivono se una persona non l'hai conosciuta né vissuta. Kevin di lei aveva solo un ricordo malinconico e sfuggente, esattamente come lei lo aveva di lui. L'uomo che aveva davanti non aveva più nulla del ragazzo che era stato, quello per cui aveva una cotta, anche il suo sguardo era cambiato; segnato da tutto quello che aveva passato. Avevano passato pochissimi giorni insieme e questo non bastava a ravvivare una fiamma ormai spenta.
«Inutile un cazzo, Sophie! Non capisci? Io non sono stato e chi altro avrebbe potuto farti una cosa del genere insieme a quella strega, se non Connor? E tu ci sei anche uscita insieme! Hai già dimenticato tutto quello che ti ha fatto?»
Non le piaceva il disprezzo che gli sentiva nella voce, pregò fosse colpa dell'alcol o l'avrebbe preso volentieri a sberle. Ovvio che non aveva dimenticato tutto quello che le aveva fatto Connor, e ancora le riusciva difficile vederlo, ma dopo il pomeriggio trascorso con lui riusciva a capire, se pur solo in parte, i motivi che lo avevano reso un adolescente problematico. Non lo difendeva, affatto, ma l'ex capitano di football stava già scontando le sue pene e probabilmente il senso di colpa per ciò che aveva fatto durante gli anni di scuola lo avrebbe perseguitato per sempre. Per lei quella era una punizione più che sufficiente.
«Non è stato Connor» affermò calma e sicura, mandandolo su tutte le furie.
Lo vide diventare rosso e attese l'ennesimo scoppio di rabbia, che però non arrivò anzi, il sangue defluì velocemente dal suo viso e una maschera di pietra prese il posto del suo volto incollerito. Le lasciò le spalle e si allontanò di un passo da lei.
«Non è stato lui? E ti è bastato un pomeriggio per capirlo? Per fidarti?»
«Quando è successo lui non era nemmeno in palestra con gli altri, ma con te ad allenarsi sul campo esterno. Ricordi?»
Un sorrisino cinico comparì sul suo volto. «E quindi questo lo esclude dalla lista dei sospetti, no? Mi fa piacere notare quanto poco ci sia voluto per perdonarlo, mentre io continuo a essere bollato come lo stronzo che ti ha fatto ritornare a Bellrosé, no?»
Sophie sospirò stanca, era esasperata da tutta quella conversazione e l'unica cosa che avrebbe voluto era ritornarsene in stanza. «No, io non credo tu sia stronzo né che sia colpa tua ciò che successe: è evidente che non ne sai nulla. Vorrei tanto scoprire chi è stato e perché, ma non posso continuare a vivere nel passato per sempre.»
«Vorrei poter dire la stessa cosa, ma da cinque anni la mia vita è precipitata all'inferno e Connor ha una gran parte di responsabilità in questo. Invidio la facilità con cui hai perdonato e dimenticato, io però non ci riesco. Non riesco a perdonare ciò che mi ha fatto come non sono mai riuscito a dimenticare te.»
«Credimi... Anche io non ti ho mai dimenticato, nonostante ti abbia dato la colpa per tutti questi anni, ma...» sentì le lacrime pizzicarle gli occhi, tutto quello che aveva desiderato qualche anno prima ora sembrava così reale eppure nulla era più lontano dalla realtà.
Lui era stato ingaggiato da suo padre, aveva il compito di portarla a casa, ed era sicura che non avrebbe rinunciato ai soldi di quel lavoro solo perché era stato innamorato, o credeva di esserlo stato, di lei. Quello che aveva davanti era pressoché uno sconosciuto, nemmeno il Kevin adolescente era stato un estraneo, ma almeno ne conosceva le abitudini, le espressioni e i modi di fare e nulla in lui l'aveva mai fatta sentire come la faceva sentire ora. La esasperava e irritava, non l'ascoltava mai e sembrava quasi incurante di come si sentiva. Non poteva dimenticare che solo qualche giorno prima era stato disposto a trascinarla via come un cane.
Lo sguardo dell'uomo si addolcì e portò una mano sulla guancia, accarezzandola con estrema gentilezza. Scese verso la sua bocca e accarezzò il labbro inferiore con il pollice. Tremò.
«Credo che ci sia un motivo se dopo tutti questi anni proprio io sia stato assunto come tua guardia del corpo. Forse è un segno.»
Forse una volta avrebbe creduto al destino e a quelle stupidaggini varie, ma ora era diverso, non era più una bambina e quella frase la mandò comunque in confusione. Cosa le stava proponendo?
«Riproviamoci» sussurrò a pochi centimetri dalle sue labbra. «Impariamo a conoscerci nuovamente e vediamo se è davvero il destino che ci da una seconda possibilità.»
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