46|| L'Orgasmo Profano
𝕷𝖊 𝖕𝖆𝖗𝖔𝖑𝖊 ''𝖒𝖎 𝖉𝖎𝖘𝖕𝖎𝖆𝖈𝖊" 𝖓𝖔𝖓 𝖑𝖆𝖘𝖈𝖊𝖗𝖆𝖓𝖓𝖔 𝖒𝖆𝖎 𝖑𝖆 𝖒𝖎𝖆 𝖇𝖔𝖈𝖈𝖆. 𝕾𝖆𝖗𝖊𝖇𝖇𝖊𝖗𝖔 𝖚𝖓𝖆 𝖇𝖚𝖌𝖎𝖆.
-Joe Metheny
Asteria aveva spinto il cavallo fino al massimo della sua velocità pur di arrivare in tempo. Il problema, però, era che la ragazza non aveva la minima idea di quanti minuti, ore, le servissero.
Iblīs stava bene? Lei non aveva modo di saperlo e per questo aveva cavalcato con più vigore, ascoltando l'ansimare del cavallo.
L'aria diveniva fredda a ogni porzione di terra che veniva toccata e superata dalla bestia, segnalando il loro avvicinamento.
Gli alberi parevano starsi piegando in avanti, sofferenti, come se sentissero il velo della morte calare placido sul loro padrone. E quindi ecco i rami ed ecco le radici che si inaridiscono, che si accasciano, e muoiono col loro Re.
Asteria si era dovuta schiacciare contro il manto dell'animale per evitare d'esser colpita da uno di quei spuntoni.
Trattenendo il respiro aveva chiuso ermeticamente gli occhi.
La paura era stata sfrattata dal petto di lei e ora erano la rabbia e il rancore a pompare sangue nel suo organismo.
Poi, un pensiero: e se Iblīs fosse già morto?
Come poteva esser certa che, una volta arrivata, l'avrebbe ritrovato vivo? Non poteva, semplicemente non poteva, e quindi bisognava che si fidasse del fato o degli dei.
Non sapeva in chi riporre le sue speranze, e quindi non lo fece. Accanto a lei Nasser cavalcava veloce, senza fiato anche lui, mentre tentava di tenere lo sguardo fisso sulla ragazza.
Temeva di perderla di vista, di realizzare che non si era mai mossa dalle rovine della sua città. Si era chiesto se lo odiasse, se fosse colma di risentimento, e si era quindi risposto di si.
Come poteva rimediare? Forse non sarebbe stato possibile riportare il rapporto a come era prima, ma magari lei avrebbe accettato di ricominciare tutto daccapo.
Se Iblīs non fosse mai esistito, magari si sarebbero incontrati per il centro della cittadina. Lui avrebbe fatto irruzione nel negozio per comprare un libro alla sorella, e a quel punto si sarebbe nuovamente infatuato di lei.
Era certo che si sarebbe innamorato di Asteria ancora e ancora, in ogni vita che avrebbe vissuto, e sperava che, in una di queste, sarebbe stato lui il protagonista.
Non più Iblīs, ma solo lui.
Chiedeva troppo? Forse era egoista, forse si sarebbe dovuto vergognare di quei pensieri. Quindi stette zitto e non le disse nulla, perché finché lei non l'avesse verbalmente rifiutato, lui avrebbe continuato a sperare.
Mancava poco, ne erano consapevoli entrambi, eppure uno solo di loro pareva esserne felice.
I cancelli del palazzo erano ancora spalancati, proprio come Nasser ricordava di averli lasciati, e due guardie sostavano dinnanzi a esso.
Asteria non li aveva riconosciuti, ma il consigliere si. Sarebbe stata dura oltrepassarli, visto e considerato che anche loro erano dalla parte di Uraeus.
I due erano quindi stati costretti a fermare le bestie, pregando che i custodi si facessero volontariamente da parte.
"Mi dispiace, ma entrare, ora, vi è vietato."
Una delle due guardie aveva alzato il mento in aria, gonfiando il petto largo e afferrando saldamente l'impugnatura della lancia.
Asteria li aveva scherniti con un vago ghigno di disprezzo, mentre li osservava accuratamente. Aveva lasciato un'ultima carezza al cavallo, scendendo poi dalla sua groppa.
Non si sentiva sé stessa, perché improvvisamente le sembrava di essere qualcosa di completamente diverso.
Non era una donna. Era un'emozione e le emozioni non si scacciano.
Le due guardie non avevano fatto un solo passo indietro, nemmeno quando Nasser l'aveva seguita a terra, smontando da cavallo.
Non li temevano perché, in cuor loro, vedevano solo un nemico: l'uomo.
"Da chi proviene l'ordine?" Aveva inclinato la testa di lato, mite e calcolatrice, mentre poggiava la mano sul fianco destro.
La postura era quella di una ragazzina infastidita e quindi non notarono l'impugnatura del pugnale che Nasser le aveva affidato, così come non notarono il modo in cui le sue dita vi si strinsero attorno.
"L'unico degno erede della corona."
Nasser le aveva premuto una mano sulla schiena, intimandole di farsi indietro. L'espressione contrita delle due guardie non lo metteva per niente a suo agio, ma fu il volto di Asteria a scuoterlo di più.
Con un largo sorriso in viso, la ragazza aveva sbarrato gli occhi spiritati, avanzando di un passo.
Quindi si era leccata i denti, sentendo la punta del canino pizzicarla.
Poi, aveva sputato sui piedi delle due guardie.
"Salutatemi Seth."
Nasser l'aveva vista lanciarsi verso la guardia più vicina, la destra, per afferrarla dal colletto. Era stato costretto a chiudere gli occhi quando due schizzi vermigli gli avevano macchiato il viso.
La ragazza aveva sentito la mano muoversi da sola, il corpo agitarsi sotto il bisogno di fare qualcosa, di attaccare, di uccidere il maledetto che senza ritegno le aveva bloccato la strada.
Avrebbe voluto che ci fosse Iblīs a guardarla. mentre apriva un largo sorriso sulla gola della guardia. Aveva spinto la lama in fondo fino a quando l'impugnatura non si era bloccata, e a quel punto aveva tirato con veemenza.
Il sangue le aveva ricoperto il viso e i capelli, scendendo a macchiarle le vesti. Si era pulita l'angolo sinistro delle labbra con la lingua, sentendo il sapore ferroso contro le gengive.
Aveva osservato gli occhi scuri della guardia farsi pallidi, vitrei, mentre spirava.
Asteria era appena diventata l'ultima cosa che l'uomo aveva visto, la ragione per la quale quel giovane uomo non avrebbe più respirato, e la cosa la rendeva dannatamente euforica.
Il petto le si era di poco sgonfiato di quella fortissima sensazione di odio, mentre pensava che ora aveva un ostacolo in meno di cui preoccuparsi.
Si era immaginata di avere Iblīs davanti, di poter poggiare le labbra sulle sue per dargli conferma di quanto fedele gli fosse e per chiedergli scusa, perché per molto tempo l'aveva considerato un folle.
L'ho fatto per te, gli avrebbe detto lei.
No, l'hai fatto per entrambi. Avrebbe replicato lui.
C'era un che di amorevole nell'uccidere per lui e un che di macabro nel realizzare che le era piaciuto, che nello stomaco aveva sentito esplodere mille farfalle.
Forse solo lui l'avrebbe capita, forse solo lui avrebbe condiviso quel pensiero.
Uccidere era come un orgasmo, e quello era stato il migliore della sua vita.
Talmente era presa dalla visione del cadavere che nemmeno si era resa conto della lotta tra Nasser e l'altro.
Aveva estratto il pugnale dalla gola dell'uomo, immaginandosi di sentire le sue corde vocali suonare come corde di un violino.
Voltandosi, aveva visto Nasser pugnalare allo stomaco la seconda guardia, liberandosene pochi secondi dopo.
Si erano osservati per pochi secondo, entrambi soffermandosi sul disastro vermiglio che li imbrattava.
Lui non le aveva detto nulla mentre si incamminava verso l'interno del palazzo, facendole strada.
La verità era che, per la prima volta da quando la conosceva, aveva avuto paura di lei. Nasser aveva ripensato agli avvenimenti di un'ora scarsa prima, quando lo aveva colpito col bastone, realizzando che avrebbe potuto fare la stessa fine della guardia.
Gli pareva di star osservando il cammino di una dea in Terra, scesa per portare distruzione e morte, e adorarla e pregarla sarebbe stato ciò che lui avrebbe giurato di fare.
Se gli avesse chiesto di togliersi la vita e di pugnalarsi proprio in quell'istante, lo avrebbe fatto.
L'avrebbe ringraziata dell'ordine e si sarebbe ucciso, come un fedele accolito.
Asteria lo aveva seguito in religioso silenzio, ancora con un piccolo, quasi impercettibile, ghigno sul viso. Adesso, aveva pensato lei, toccava a Uraeus.
Il problema di fondo, però, era che anche il principe aveva perso la sua mortalità. Come poteva ucciderlo, quindi?
Nello stesso modo in cui pianificava di assassinare Iblīs. Ma avrebbe funzionato? Osiride avrebbe accettato uno scambio simile?
L'anima di Uraeus al posto di quella del Re.
Era l'unica soluzione che Asteria era riuscita a trovare. Ma non importava. Se non fosse riuscita a ucciderlo, allora l'avrebbe rinchiuso.
Avevano percorso le ale silenziose del castello che, come percependo l'assenza del proprio sovrano, era adornato da cupe ombre scure.
Ogni passo era sempre più leggero, più impaziente di raggiungere Iblīs, fino a quando l'irrequietezza di Asteria non l'aveva spinta ad afferrare il braccio di Nasser.
"Corriamo," aveva sibilato lei, sentendo la pelle dell'uomo ardere sotto le dita, "non possiamo permetterci di farlo aspettare."
Lui aveva impiegato tre secondi per capire e analizzare la frase, poi aveva annuito e, afferrandole la mano, aveva iniziato a correre.
Asteria aveva riconosciuto la strada: l'aveva vista in sogno. Si era data della stupida per non aver capito prima ciò che la madre di Iblīs aveva voluto dirle.
Poi aveva mentalmente maledetto lo spettro, incolpandolo di tutto. Se la donna non avesse barattato la sua anima con Osiride, il Re avrebbe vissuto una vita normale.
Avrebbe regnato sull'Egitto con saggezza e...sarebbe morto.
Il cuore di Asteria si era stretto, battendo all'unisono con quello di Iblīs che ancora era appeso alla tracolla che portava al collo.
La morte le pareva ingiusta, improvvisamente, perché aveva deciso di non prendersi il sovrano quando poteva e aveva invece scelto di sottrarglielo quando ormai l'aveva incontrato.
Aveva immaginato una vita senza Iblīs, con un nuove Re a comandare sull'Egitto. Lei e Azef avrebbero continuato a convivere, il suo negozio avrebbe ingranato e lei...già, lei avrebbe trovato un uomo rispettabile da sposare.
Ma nulla era andato così, e le andava bene.
Sperava solo di fare in tempo.
**
Iblīs non si sentiva.
Avvertiva il proprio corpo disconnesso, come se gli avessero amputato ogni centimetro di pelle, lasciandogli solo lo spirito.
E quello, ancor più rotto e cupo dell'involucro corporeo, altro non faceva che piegarsi su sé stesso.
Era stato drogato, lo capiva solo perché, in passato, aveva fatto uso della medesima sostanza. L'odore dolce, il sapore simile al miele e gli effetti calmativi erano tutte caratteristiche di ciò che gli era stato dato.
In un certo senso, Iblīs era grato di non esser presente. Gli risparmiava moltissima fatica e gli annebbiava la mente, permettendogli di non ascoltarsi.
Nonostante questo, poteva ancora vedere tutto.
"Non sei in grado di regnare," aveva borbottato Uraeus a braccia conserte, osservando il modo i cui il sacerdote aveva iniziato a creare un largo cerchio con la salvia, "ma sai, in parte voglio solo sbarazzarmi di te. Per essere un sovrano, bisogna anche essere egoisti, non trovi?"
Si erano guardati per un attimo solo, senza mai capirsi. Il fato aveva scelto per loro due strade diverse, e nessun ponte avrebbe potuto arginare la distanza.
"Loro," aveva indicato i membri della servitù, "loro non sono mai morti, Iblīs, e tu non li hai mai uccisi. Io e Nasser abbiamo messo in scena un'ottima recita, devo dire. Talmente ottima da averti fatto credere di aver assassinato decine di persone. Anche se, devo ammetterlo, la tua pazzia ha contribuito alla tua stessa fine."
Gli si era inginocchiato davanti, dandogli un leggero buffetto sulla guancia.
"Suppongo di doverti ringraziare, fratello."
Il sacerdote aveva acceso due bastoncini d'incenso e poi, con un secco cenno della testa, aveva dato l'ordine a Uraeus di portargli il Re. Era tutto pronto per l'incontro con gli dei, con Osiride, e l'uomo non stava più nella pelle.
Aveva sognato quel momento per anni, pregando di poter riuscire nell'intento, e ora era finalmente in grado di prendere il posto di Iblīs. Quest'ultimo, ancora stordito dalla droga, non aveva fatto altro che boccheggiare, emettendo suoni strozzati.
Si sentiva soffocare, ma in maniera piacevole. Gli ricordava il mare, il muoversi placido delle onde mentre inglobano la sabbia nelle loro larghe e invisibili bocche.
Il pensiero era corso a Nasser, all'uomo che molti anni prima gli aveva giurato fedeltà. Il saperlo un traditore lo aveva genuinamente fatto ridere.
Aveva spinto la testa all'indietro, sentendo la saliva riempirgli la bocca per poi fuoriuscire dalle labbra.
Ammetteva di esserci casato, e quindi gli dava atto di furbizia. Era stato ingannato da qualcuno che credeva vicino, solo per scoprirlo lontano. Imparare, Iblis avrebbe dovuto imparare a giudicare meglio le persone.
Si era sentito afferrare e trascinare per i piedi e, ancora una volta, era finito col battere la testa contro il pavimento duro, freddo e lurido. L'odore di muffa assomigliava sempre più a quello di morte, ma a lui non importava.
La droga somministratagli aveva fatto il suo pieno lavoro, lasciandolo in balia di sé stesso. Ora non vedeva e non sentiva nulla, il mondo era lontano dai suoi sensi e solo il profumo di sua madre poteva raggiungerlo.
Non la incolpava di nulla, nonostante il desiderio di farlo fosse enorme. Era anzi felice della scelta che aveva fatto.
Se il patto con Osiride non fosse mai esistito, lui non avrebbe mai stretto la mano scheletrica della madre, non avrebbe mai scoperto cosa il velo della morte nascondeva e, in fine, non avrebbe mai conosciuto Asteria.
Si era chiesto se anche lei avesse contribuito a tutto ciò, ma poi aveva scacciato il pensiero. Voleva ricordare altro, senza perdersi in inutili supposizioni.
Era strano come in quel momento di totale apatia, Iblīs si sentisse più sano che mai. I pensieri sdoppiati, sconnessi e macabri lo avevano lasciato.
Anche loro, in fine, se ne erano andati.
Anche quando il sacerdote gli toccò la fronte, lui rimase in religioso silenzio.
Aveva la calma che solo i morti possedevano, una tranquillità che i vivi gli avrebbero invidiato.
L'uomo mascherato aveva ormai sfoderato il pugnale, tracciandogli il palmo con la punta fino a quando il vermiglio non gliela aveva imbrattata.
Che disastro, aveva riflettuto il Re. Gli era capitato un carnefice che proprio non sapeva come aprire un taglio lineare.
Gli sarebbe rimasta la cicatrice?
"Ai tuoi dei ti mando," aveva sussurrato il sacerdote, parlando una lingua che non era la loro ma che Iblīs, in qualche modo, riusciva ugualmente a comprendere, "perché a loro sfuggi da troppo. Alle braccia di Osiride ti consegno, perché egli possa abbracciarti come fossi un suo figlio."
Se ne fosse stato in grado, il Re avrebbe riso.
Lui aveva avuto un padre solo, ed era certo che gli fosse bastato. No, avrebbe preferito tenersi stretto il suo titolo di orfano piuttosto che finire nelle mani di qualcun altro.
"Alla morte ti affido, perché più clemente della vita che ti è stata data."
La voce del sacerdote si era spezzata, rotta dall'emozione, mentre puntava gli occhi espressivi in quelli di Iblīs.
Le iridi opache dell'uomo erano state l'ultima cosa che aveva visto, prima di sentirsi cadere verso il centro della Terra.
Al Re parse di aver appena trovato, e al tempo stesso perso, la prima persona che l'avrebbe ucciso per pura bontà.
Perché la vita era stata ingiusta con lui, e allora sarebbe toccato alla morte essere comprensiva e materna.
Ingannare la morte, dopotutto, era stata l'unica cosa che aveva fatto per anni.
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