27| I Tipi Di Amore
𝕬𝖛𝖊𝖛𝖆𝖒𝖔 𝖖𝖚𝖊𝖘𝖙𝖆 𝖋𝖆𝖓𝖙𝖆𝖘𝖎𝖆 𝖘𝖊𝖘𝖘𝖚𝖆𝖑𝖊 – 𝖗𝖆𝖕𝖎𝖗𝖊, 𝖛𝖎𝖔𝖑𝖊𝖓𝖙𝖆𝖗𝖊 𝖊 𝖚𝖈𝖈𝖎𝖉𝖊𝖗𝖊 𝖕𝖊𝖗𝖘𝖔𝖓𝖊 – 𝖈𝖔𝖘ì 𝖑'𝖆𝖇𝖇𝖎𝖆𝖒𝖔 𝖒𝖊𝖘𝖘𝖆 𝖎𝖓 𝖕𝖗𝖆𝖙𝖎𝖈𝖆. 𝖁𝖔𝖌𝖑𝖎𝖔 𝖉𝖎𝖗𝖊, 𝖊𝖗𝖆 𝖋𝖆𝖈𝖎𝖑𝖊, 𝖈𝖎 𝖘𝖎 𝖉𝖎𝖛𝖊𝖗𝖙𝖎𝖛𝖆 𝖉𝖆𝖛𝖛𝖊𝖗𝖔, 𝖕𝖊𝖗 𝖈𝖚𝖎 𝖕𝖊𝖗𝖈𝖍𝖊' 𝖒𝖆𝖎 𝖓𝖔𝖓 𝖆𝖛𝖗𝖊𝖒𝖒𝖔 𝖉𝖔𝖛𝖚𝖙𝖔 𝖋𝖆𝖗𝖑𝖔?
-Charlene Gallego
La libreria che Asteria aveva tanto amato, sulla quale aveva investito tutto ciò che aveva, andava ora a fuoco.
Le lingue rosse si allungavano in ogni dove, divorando la carta e il legno mentre distruggevano tutto.
Il suo cuore si era come fermato per poi riprendere a battere in maniera incontrollata e smaniosa. Senza pensare si era gettata verso l'unico scaffale che ancora non era stato raggiunto dal fuoco, afferrando tutto ciò che poteva.
"Asteria, vieni via da lì!"
Azef aveva spintonato diverse persone, facendosi largo tra la folla di spettatori. Non capiva come fosse possibile una tragedia del genere.
Di temporali non ve ne erano stati e quindi si doveva trattare di un incendio doloso, volontario e mirato esclusivamente alla distruzione della libreria.
La gente aveva iniziato a lanciarsi occhiate curiose, di sospetto, ognuno alla ricerca del colpevole.
Chi avrebbe mai potuto fare una cosa del genere ad Asteria? E perché?
La ragazza, però, non riusciva a riflettere lucidamente. Tutto ciò per cui aveva lavorato stava andando letteralmente in fumo e ora, con tre libri stretti al petto, era stata costretta ad allontanarsi.
Aveva risposto tutto in quella piccola attività; doveva essere il suo futuro, la sua fonte di guadagno sia a livello economico che spirituale.
Amava ogni tomo come fosse un figlio e ora, ora stava vedendo morire tutto quanto.
Cosa aveva fatto per meritare un simile affronto?
Sapeva che per ricostruire il negozio le sarebbero serviti molti soldi, più di quanto disponesse.
Le mani di Azef le avevano avvolto le spalle, trascinandola a qualche passo di distanza dall'incendio.
La polvere le aveva invaso i polmoni e macchiato le vesti, soffocandola e sporcandola al tempo stesso. Era uno spettacolo così pietoso da guardare che gli abitanti stessi avevano distolto lo sguardo.
Alcuni cittadini si erano muniti di pesanti secchi di sabbia, lanciandone il contenuto verso il fuoco in un tentativo di far spegnere le fiamme.
Ma ormai tutto era andato perduto e, nonostante la buona volontà, tutto ciò che si era salvato erano stati tre miseri libri.
Non le rimaneva nulla, assolutamente nulla, e insieme ai libri sembrava aver preso fuoco anche lei.
Tutto il suo corpo era immobile, costringendola a terra. Non riusciva nemmeno a piangere, tanto era lo shock.
Azef l'aveva stretta al petto per alzarla di peso, allontanandola ancora di qualche metro. Lei avrebbe voluto scalciare, dimenarsi e urlare in preda alla rabbia ma dal suo corpo non uscì niente.
"Andrà tutto bene." Le sussurrava l'amico, accarezzandole i capelli. Eppure Asteria non ci credeva nemmeno un po'.
Come avrebbe fatto a rimediare? No, non sarebbe andato tutto bene e lei se ne stava auto convincendo. Le sue unghie avevano perforato la sabbia in un tentativo di ricercare la calma ma, ahimè, quest'ultima non era arrivata.
Il suo petto era stato scosso da forti singhiozzi mentre la testa iniziava a pulsare in modo incontrollabile. La sua gola si era quindi seccata completamente, lasciandole una voce rauca e spezzata dal dolore.
Stava così male, così dannatamente male da credere che, da un momento all'altro, sarebbe morta.
Non era un semplice negozio, quello, ma bensì il frutto di sacrifici e di arduo lavoro.
Piegando la testa, Asteria aveva lasciato che dalla sua gola uscisse il primo, stridulo, grido.
Gli abitanti si erano come paralizzati nel vedere la solare ragazza così sconsolata e distrutta.
Si era quindi portata le mani ai capelli, urlando ancora una volta mentre agitava le gambe e dondolava avanti e indietro.
"No, no!"
L'aveva ripetuto talmente tante volte da non riconoscerne più il significato e ora, con la gola intasata di grida e lacrime, Asteria aveva iniziato ad afferrare Azef per il colletto.
"Chi è stato, eh? Chi è stato?!" Lo aveva scosso un paio di volte, puntando gli occhi su ogni singola persona presente.
Le sue pupille si erano dilate, inghiottendo l'iride e annegando quella graziosa scintilla che tutti amavano in lei.
Qualcuno, si qualcuno aveva distrutto parte di lei e ora voleva e bramava vendetta. L'amico le aveva afferrato le mani, imponendole di ascoltarlo, ma a nulla era servito il suo gesto.
Asteria non sentiva nulla e tutto ciò che riusciva a vedere era rosso.
Avrebbe ucciso il maledetto che si era permesso di farle tutto ciò e ah, si sarebbe accertata di farlo soffrire.
Dente per dente, occhio per occhio.
Forse avrebbe dovuto bruciarlo proprio come costui aveva fatto al suo negozio o, magari, lo avrebbe sepolto sotto alla sabbia, come i suoi preziosi libri.
In qualsiasi caso era certa che non avrebbe lasciato che la cosa andasse impunita.
"Non saresti dovuta tornare," tra la folla si era fatto largo il mercante del paese, un uomo di mezz'età con la pancia di chi ha i soldi e lo sguardo di chi non ha remore, "non dopo esser stata in compagnia di un mostro. Sono stato io perché questo, questo è ciò che merita una persona vicina al Re."
L'uomo aveva fatto due passi verso di lei fino a torreggiare sulla sua figura, osservandola mentre piangeva a terra.
Non le faceva pena, certo che no.
Le aveva dato ciò meritava e ora, mentre l'odore di bruciato gli infestava le narici, pensava a quanto stramba fosse divenuta la femmina stessa.
Asteria era rimasta in silenzio ma con il mento alto, fiero, impedendosi di abbassarsi al volere di un simile esserino.
Era un insetto, un semplice e pietoso verme che non poteva far altra fine che finire sotto al suo piede.
Lo avrebbe schiacciato a terra proprio come meritava, ricordandogli dov'era il suo posto.
I cittadini, intanto, avevano preso a borbottare e ad accusare l'uomo, stringendosi attorno alla ragazza. Mani familiari le avevano stretto le spalle e le braccia, accarezzandola in gesti di conforto che, purtroppo, non l'avevano calmata affatto.
"Hai forse dato di matto, vecchio?" Aveva strepitato una donna con in braccio un bambino, "non hai nessuna autorità, qui. Non sei tu, la legge!"
Le avevano dato ragione con colpi di piedi e battiti di mano, inneggiando allo sdegno generale.
Asteria non capiva il perché si agitassero tutti a quel modo eppure le scaldava il cuore.
La stavano proteggendo, smentendo le parole del mercante.
"Devi risarcirla!" Un uomo torvo e con la postura da soldato si era fatto avanti, allontanando con uno spintone l'incendiario dalla ragazza.
Altri uomini si erano quindi fatti avanti, chi con un bastone tra le mani e chi con i pugni chiusi, pronti a pagare il danno morale di Asteria.
Il verme, ora accerchiato e con un visibile pallore in viso, aveva fatto un passo indietro, puntando l'indice sull'ex libraia.
"Pensateci bene, dannazione! Convive con un mostro e chi ci dice che un giorno non lo diventerà lei stessa? State ospitando un possibile pericolo e non ve ne rendete conto!
Ha gettato sul nostro intero paese una maledizione, ci ha costretto alla sfortuna e alla malasorte!"
Il mercante aveva gridato con talmente tanto ardore da sentirsi la gola pizzicare, ma non gli importava. Tutto ciò che riusciva a vedere erano le decine di popolani arrabbiati, i loro volti distorti dall'ira e le loro mascelle serrate.
Pensava di aver ragione, che il suo compito fosse punire la ragazzina e salvaguardare la sua città ma loro, poveri stolti ai suoi occhi, non la pensavano in egual modo.
E perché mai avrebbero dovuto?
L'avevano vista crescere, giocare con i loro stessi figli e aiutare i più anziani. In lei riconoscevano un membro buono e meritevole della comunità mentre il mercante non era altro che un uomo ingordo, affamato di denaro e gonfio di narcisismo.
Lo avevano sempre biasimato perché ricco e odiato perché in salute, quella era quindi l'opportunità giusta, per i cittadini, di riversare su di lui tutta l'invidia repressa.
Asteria lo sapeva e, anticipando le loro mosse, si era alzata in piedi per attirare l'attenzione del villaggio.
Aveva finto di non trovar il giusto equilibrio sulle
gambe, reggendosi contro la spalla di Azef e rivolgendo gli occhi verso il più muscoloso tra gli uomini.
Lei non avrebbe potuto far fisicamente nulla, di questo era consapevole, ma poteva farsi aiutare seppur involontariamente.
Lo avrebbe schiacciato e non importava se non fosse stata lei l'autrice dell'azione perché sapeva che la mente del piano era proprio la sua.
"Hai distrutto tutto ciò che avevo," aveva mormorato lei, forzando le lacrime e usufruendo di un tono di voce rauca e rotto dalla tosse.
Gli sguardi impietositi delle donne l'avevano compiaciuta mentre quelli degli uomini, tristi ma vendicativi, l'avevano eccitata.
Erano suoi.
Pendevano dalle sue labbra e quella era l'occasione giusta di prendersi la sua vendetta, di colpire il maledetto maiale come lui aveva fatto con lei e il suo negozio.
Si era quindi piegata sull'amico, simulando degli ottimi singhiozzi mentre gridava un "non mi rimane più nulla!"
Aveva ripetuto quella frase per quattro volte, facendo sì che ognuna calasse di intensità per dare l'impressione di essere esausta e sfinita, rotta nell'anima e nel corpo.
Il villaggio era quindi esploso, caricato dalle parole di Asteria, e si era riversato verso il mercante, bloccandolo a terra.
Sandali e pugni avevano percosso il suo corpo, martoriandolo e riempiendolo di lividi e ferite interne, invisibili agli occhi ma percepibili dal fisico.
L'ultima cosa che l'uomo aveva visto, comunque sia, era stato il ghigno di Asteria mentre l'osservava soffocare.
**
Iblīs faceva uso di oppiacei, di tanto in tanto, per ridurre quella sensazione di tremendo torpore che gli appesantiva il corpo.
Non lo solleva completamente, certo, ma erano in grado di donargli un senso profondo di euforia. Spesso aveva pensato di sentirsi allegro solo sotto effetto di questi stupefacenti.
E cosa c'era di sbagliato in tutto ciò? Nulla.
Le persone ricercavano la felicità in qualcosa e lui, dopotutto, l'aveva trovata nelle droghe.
Era pur sempre qualcosa, no? Quindi non capiva il perché Nasser se ne dicesse tanto contrario. Aveva sempre rifiutato di farne uso nonostante fosse immortale, e quindi non soggetto a danni a lungo termine.
Dopo la loro ultima discussione, il consigliere se ne era andato e Iblīs era rimasto solo e circondato da luminosi ceri.
Non gli dispiaceva essersi isolato ma forse, e solo forse, avrebbe preferito passare il tempo con qualcuno. Per questo motivo aveva fatto chiamare Ehsan, chiedendogli, o meglio ordinandogli, di narrargli una storia.
Il fumo aveva appannato gli occhi sensibili del servo, costringendolo a strofinarseli convulsamente nel tentativo di non farli lacrimare.
Il Re non se ne era curato ma aveva comunque sia deciso di aprire una finestra, agevolando il giovane.
"Quale storia vorreste sentire, sire?"
Ehsan si era costretto ad abbassare gli occhi in segno di rispetto, aspettando tacitamente una risposta. Non ci sarebbe stata Asteria, quella volta, ad acconsentire alla sua narrazione.
Avrebbe dovuto trovare da solo una trama abbastanza convincente da esaltare il Re.
"Io e Nasser parlavamo d'amore, sai? Tu, tu credi in un sentimento simile?" Le dita del sovrano erano state fatte penzolare pigramente dal bordo del divano e, senza che Iblīs se ne rendesse conto, avevano percorso i motivi floreali.
Erano state disegnate delle camelie nere su di esso, assieme a delle maestose falene verdi che il Re avevano da poco fatto incidere.
Non ne ricordava però il motivo.
Il racconta-storia aveva aggrottato le sopracciglia, confuso dalla domanda. Voleva una storia o un'opinione?
"Credo esistano diversi tipi di amore, sire."
Iblīs aveva lasciato che un sorriso sadico, folle e inquietante si facesse largo sul suo volto. Quella era una risposta che non si aspettava e ora, incuriosito, voleva saperne di più.
Si era quindi sporto verso Ehsan, allungando una mano per incitarlo.
"Ebbene, raccontami del peggior genere che conosci."
Il servo aveva quindi scavato nella sua memoria, tentando di giungere a una storia abbastanza plausibile da raccontare.
Doveva rispecchiare un amore malato, brutto secondo l'opinione morale e pubblica, per esporla agli occhi di un uomo pazzo e insonne.
Non c'era storia migliore, quindi, della peggiore. Conosceva, solo per sentito dire, il masochismo del Re assieme alla sua forviante idea di affetto.
Non era un uomo normale, che traeva piacere dalle consone attività quotidiane ed Ehsan aveva quindi pensato che un tipo d'amore consono e giusto per il Re fosse mortale.
Mordendosi la lingua si era quindi concentrato, annusando l'odore dell'oppio e rilassando le spalle per sembrare il più rilassato possibile.
Tra lo sguardo del suo sovrano e l'aroma della droga, aveva narrato l'amore peggiore del mondo.
"Era un pomeriggio romantico, non è così?
Giacevamo l'uno nelle braccia nell'altra, circondati dall'odore acre del legno bagnato e lo scoppiettare del fuoco.
Tu ti divertivi ad accarezzare pigramente i miei boccoli d'orati, cedendo però alle mie carezze.
Ti fermavi, quindi, per ricevere e conservare quei piccoli gesti d'affetto e d'amore. Ero sempre io, alla fine, a coccolarti.
Eri sempre così calda e fragile, tra le mie braccia, da rilassarmi. Sembravi un angelo bloccato nella mia morsa, non è così?
Ricordo che aveva iniziato a piovere; il suono debole e monotono delle gocce avevano invaso le nostre orecchie e io me ne ero beato.
La mia stanza da letto era buia, illuminata solo da una debole Luna che tutto sapeva di noi. Ci accoglieva a casa e noi non facevamo altro che rilassarci e ascoltare il suono debole del vento e della pioggia.
O almeno questo era ciò che facevi tu.
Da qualche minuti, ormai, i tuoi occhi vagavano oltre la finestra e non più sulla mia figura. Mugugnavo quando me ne rendevo conto e tu, piccolo angelo in gabbia, sorridevi per guardarmi di nuovo.
Qualcosa ti stava distraendo e quel qualcosa non ero io. Il solo pensiero mi dava alla testa, irritandomi.
Il mio braccio ti avvolgeva la vita, ricordo ancora quanto piccola e delicata fosse.
Nonostante tu non fossi concentrata su di me, io lo ero su di te. I miei occhi non lasciavano mai il tuo corpo, te lo ricordi?
Rammento di essermi chiesto il perché non mi guardassi, non mi prestassi attenzione.
Non era forse io tutto ciò che avresti sempre dovuto guardare?
"Elska," avevi mormorato tu.
Il mio nome era rotolato fuori dalla tua lingua in maniera tanto soave da farmi desiderare che quello potesse esser l'unico suono in grado di uscire dalle tue labbra.
Se avessi mormorato solo il mio nome, se il tuo sguardo fosse stato puntato solo su di me, ora le cose sarebbero diverse, non è così?
Io ti avevo sorriso e tu, sciocca e innamorata, aveva ricambiato. Amavi il mio sorriso, vero?
"Che c'è?"
Non so come la mia voce fosse uscita in maniera tanto calma quando, in realtà, non lo ero affatto.
Con le dita avevo spostato una tua ciocca di capelli, scoprendoti il viso dalla forma ovale.
Volevi forse nasconderti da me con un simile tranello? No, io volevo essere in grado di vedere ogni tuo centimetro di pelle.
"Ti amo."
I nostri occhi s'erano incontrati e tu avevi sorriso, come se dire una frase simile ti sollevasse.
Non lo accettavo.
Volevo che ti sentissi completamente soffocata e avvolta dalla mia presenza, non libera da essa.
"Ti amo anche io."
Ma non importava, non è così?
Te ne saresti andata presto. Mi avevi detto che dovevi tornare a casa e sbrigare alcune faccende, ma quello che realmente volevi intendere era che volevi lasciarmi, non è così?
Avevi una vita al di fuori di questa casa, al di fuori di me.
Il mio sorriso era sparito gradualmente mentre i miei occhi lasciavano i tuoi.
Ma te non ti accorgesti di nulla e io andai su tutte le furie.
Se fossi stato io, al tuo posto, l'avrei certamente notato. Ma tu non prestavi attenzione a me, o non abbastanza per lo meno.
Ti avvicinasti di più al mio petto, lanciandomi uno sguardo dolce.
"È tardi, dovremmo dormire." Suggeristi te, massaggiandomi la spalla.
Ricordo di essermi ripreso dalla mia trance e di averti guardata mentre le tue dita giocavano con la mia cravatta rossa.
Cosa intendevi con 'dormire'?
Te ne saresti andata presto e l'unica cosa che volevi fare era assopirti? Perché, perché non volevi passare attivamente del tempo con me?
Non ti importava, forse, di non vedermi più?
"Girati di lato, amore."
Il rossore sulle tue guance era stato sufficiente per confermarmi che oh, avresti fatto di tutto per me.
Con la tua schiena davanti al mio petto avevi quindi sospirato, assecondandomi.
Non potevi vedermi, ora, e io non potevo vedere te.
Con una mano ricordo di averti accarezzato i capelli mentre con l'altra mi slacciavo la cravatta.
Eri così rilassata, tra le mie braccia, eppure volevi lasciarle.
Così mi piegai verso di te, avvicinando le labbra al tuo orecchio.
"Chiudi gli occhi, amore."
Avevi sentito il debole scivolare del cotone e, mentre dalle tue labbra sfuggiva un verso di sorpresa, i tuoi occhi avevano raggiunto i miei.
Per un solo secondo il tuo sguardo aveva incontrato la cravatta, saettando poi verso il mio sorriso.
Avevi ricambiato, certo, ma sapevo che qualcosa ti stava disturbando.
Rammento di averti vista schiudere la bocca per parlare ma ah, perché mai avresti dovuto farlo?
Io, di certo, non ti avevo accordato il permesso.
"Ti amo."
Fui io, questa giro, a dirlo per primo.
Fu più sincero e sentito della volta precedente e così mi piegai per baciarti la fronte.
Tu mi avevi sorriso e io avevo ricambiato, osservandoti mentre ti allungavi per baciarmi le labbra.
"Ti amo anche io."
I tuoi occhi si chiusero e la tua mente smise di pensare alla cravatta e a quella strana sensazione che ti attorcigliava lo stomaco.
Strinsi i pugni nel vedere la tua schiena voltarsi ancora e così mossi il braccio, lasciando che un sibilo rompesse l'aria.
Le tue palpebre si sollevarono di scatto quando la stoffa rossa si ancorò al tuo collo, strangolandoti.
Strinsi forte mentre saltavo fuori dal letto, trascinandoti dietro di me mentre ti sentivo grugnire e singhiozzare.
Le tue mani tiravano la cravatta, cercando di allentare la presa che essa aveva sul tuo collo, ma non ci riuscisti.
Una volta in piedi, quindi, diedi un forte colpo al tuo ginocchio e ti feci finire a terra.
Quella cazzo di donna proprio non ne voleva sapere di star zitta! Doveva proprio agitarsi e urlare a quel modo?
Ghignai e risi nel sentirti arrancare, dandoti un calcio dietro alla nuca.
Io non ti dissi nulla e rimossi le mani dalla cravatta per stringerle attorno al tuo collo, sbattendoti la testa contro il pavimento.
Magari in quel modo l'avresti piantata di essere così dannatamente rumorosa.
Alzandoti la testa guardai il tuo naso rotto e sanguinante, mormorando un 'shh shh'.
Eri in uno stato troppo delirante per dir qualcosa, quindi rimasi in silenzio.
Brava, stavi facendo la brava.
"Non tornerai in città."
Dalla tua gola uscì un verso strozzato; probabilmente ti doleva come pazzi.
Roteai gli occhi, trascinandoti verso la porta del seminterrato.
"Proprio come la precedente, no? Te ne andrai nonostante io sia diventato un uomo migliore? Anche dopo che ti ho detto quanto ti amo?"
La mia mano volò quindi sul pomello mentre te scuotevi la testa e il tuo corpo tremava in maniera incontrollabile. Aprii la porta e ti strattonai al mio fianco, fermandomi solo quando i nostri occhi si incontrarono.
I tuoi erano offuscati dalle lacrime e apparivano quindi ancor più blu di prima. La mia espressione si rilassò mentre osservavo quei così familiari occhi.
Misi quindi le mani sulle tue guance, facendoti alzare.
Ma tu non desideravi stare al mio fianco, non è così? E quindi mi colpisti e mi spingesti, correndo via.
Strinsi i pugni e urlai per la rabbia, aprendo la cassetta degli attrezzi per osservare la direzione verso la quale eri corsa.
Sapevo dove stavi andando, razza di idiota.
Corsi verso l'entrata principale, osservandoti mentre scavalcavi e uscivi dalla finestra aperta.
La porta era chiusa e solo io possedevo le chiavi.
Non ebbi il tempo di cercarle e così saltai oltre anche io, correndoti dietro.
Ti dirigevi verso la strada in maniera così bella da farmi capire che oh, mi stavi pregando di inseguirti!
So che mi sentisti gridare un "sei lontana miglia da casa," mentre grugnivo e correvo più veloce verso di te, "potrei picchiarti a morte proprio qui e nessuno ti sentirebbe!"
Afferrai il retro della tua maglia e ti spinsi a terra, ignorando questa volta i tuoi occhi e concentrandomi su quelle tue deliziose grida di paura.
"Ma prima...ma prima..." borbottai io, senza fiato.
Con la mano armeggiai verso la mia cintura, nella quale avevo incastrato il piccolo strumento che avevo preso a casa: un martello dal bellissimo e romantico manico rosso.
Ricordo di averti vista gattonare all'indietro mentre ti raggiungevo.
"Ti prego, Elska, ti prego fermati!" Piangesti tu. "Voglio tornare a casa. La mia famiglia, oddio ti prego, voglio vedere la mia famiglia un'ultima volta!"
Pregavi e pregavi, eccitandomi sempre di più.
Oh, quanto amo quanto mi pregano.
"Sono io la tua famiglia."
Le sorrisi prima di afferrarla dai capelli, sollevando il martello in aria.
Non ci furono altre parole, solo l'incontro dei nostri occhi mentre lasciavo che l'attrezzo si abbattesse contro la sua testa.
"Ti amo."
ATTENZIONE
Vorrei ritagliarmi questo piccolo angolo per dirvi che se siete o se vi troverete mai in relazioni tossiche, possessive, o PERICOLOSE per la vostra persona (sia a livello fisico che mentale): per favore chiudete la vostra storia.
Fatelo per voi, per favore, e lasciate le persone che vi fanno star male. Non è amore nonostante possiate pensare il contrario.
P.s: se non aveste nessuno con cui parlarne, nel caso vi servisse, io sono sempre disponibile.
Un bacio!
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