21| Il Cuore Del Re
𝕹𝖊𝖑𝖑𝖆 𝖒𝖎𝖆 𝖛𝖎𝖙𝖆 𝖍𝖔 𝖚𝖈𝖈𝖎𝖘𝖔 21 𝖊𝖘𝖘𝖊𝖗𝖎 𝖚𝖒𝖆𝖓𝖎, 𝖍𝖔 𝖈𝖔𝖒𝖒𝖊𝖘𝖘𝖔 𝖒𝖎𝖌𝖑𝖎𝖆𝖎𝖆 𝖉𝖎 𝖋𝖚𝖗𝖙𝖎, 𝖗𝖆𝖕𝖎𝖓𝖊, 𝖎𝖓𝖈𝖊𝖓𝖉𝖎 𝖉𝖔𝖑𝖔𝖘𝖎 𝖊, 𝖚𝖑𝖙𝖎𝖒𝖔 𝖒𝖆 𝖓𝖔𝖓 𝖒𝖊𝖓𝖔 𝖎𝖒𝖕𝖔𝖗𝖙𝖆𝖓𝖙𝖊, 𝖍𝖔 𝖈𝖔𝖒𝖒𝖊𝖘𝖘𝖔 𝖘𝖔𝖉𝖔𝖒𝖎𝖆 𝖘𝖚 𝖔𝖑𝖙𝖗𝖊 1.000 𝖊𝖘𝖘𝖊𝖗𝖎 𝖚𝖒𝖆𝖓𝖎 𝖉𝖎 𝖘𝖊𝖘𝖘𝖔 𝖒𝖆𝖘𝖈𝖍𝖎𝖑𝖊. 𝕻𝖊𝖗 𝖙𝖚𝖙𝖙𝖊 𝖖𝖚𝖊𝖘𝖙𝖊 𝖈𝖔𝖘𝖊 𝖓𝖔𝖓 𝖘𝖔𝖓𝖔 𝖒𝖎𝖓𝖎𝖒𝖆𝖒𝖊𝖓𝖙𝖊 𝖕𝖔 '𝖉𝖎𝖘𝖕𝖎𝖆𝖈𝖎𝖚𝖙𝖔.
-Carl Panzram
Iblīs aveva afferrato il pugnale che portava al fianco, liberandosi della veste per rimanere a petto nudo.
Stava male, mai in vita sua si era sentito così vuoto. Cosa gli stava accadendo? Credeva che se non avesse fatto qualcosa, sarebbe morto.
Non gli era mai importato, in realtà, di morire. Considerava quest ultimo avvenimento come una benedizione, un dono divino.
Cosa poteva mai esserci di migliore al sonno eterno? Avrebbe dato di tutto, fino a poco tempo prima, per disintegrarsi nel nulla.
Quindi perché, ora, aveva il disperato bisogno di confermare a se stesso d'esser vivo? Si era pizzicato il braccio, avvertendo la leggera pressione contro la pelle.
Ma non era, ecco non era sufficiente a soddisfarlo.
Cosa provava una persona viva? Amore, felicità, tristezza.
Iblīs era certo di non possedere nessuna di quelle emozioni. Doveva pur esserci qualcosa, qualsiasi cosa, dentro di lui.
Si rifiutava di pensare che fosse stato ridotto a un guscio vuoto, una conchiglia senza il suo paguro.
E le persone se lo sarebbero portato all'orecchio per udire la sua canzone ma lui, oh lui non cantava affatto.
Era un grido, forse un gemito rauco, e risa sguaiate e isteriche che le persone scambiavano erroneamente per sinfonia.
Che stupidi che erano! Non capiva il perché si illudessero che vi fosse qualcosa, in lui, di puro e luminoso.
Nessuno pareva volersi rassegnare all'idea che Iblīs
fosse completamente e senza ombra di dubbio spento, appassito e vuoto.
Per lo meno era così che si sentiva, o così che non si sentiva.
Gli serviva qualcuno per sfogarsi, chiunque pur di poter infliggere su di loro un minimo di sofferenza. A quel punto anche loro avrebbero capito che esisteva, che era lì e che si erano sbagliati sul suo conto.
"Non sono una brava persona," aveva mormorato il Re, guardando il suo riflesso.
Si sentiva nauseato da sé stesso, dalla sua espressione smarrita e debole.
Era debole? Oh, così fragile, fragile, fragile.
Prima che riuscissero a romperlo, però, li avrebbe spezzati. Distruggere prima di esser distrutti, era questa la tecnica che il padre gli aveva insegnato.
Non importava chi vi fosse davanti a lui, ciò che contava era avanzare.
Ma come stava avanzando, Iblīs? Si trascinava sulle ginocchia, i palmi premuti al pavimento e il respiro mozzato.
Andava avanti ma era stanco, dannatamente stanco, sia fisicamente che psicologicamente. In quante parti era diviso il suo cervello?
Il Re se lo immaginava come un cassetto diviso in centinaia e centinaia di parti, ognuna di esse ospitante di ricordi.
Ma, ahimè, aveva smarrito la chiave e ora quei suoi preziosissimi barlumi di coscienza erano andati persi.
Aveva stretto la presa sul pugnale, puntandoselo contro il fianco. Sapeva che erano lì vicino, che aspettavano di esser riaperte.
Con la mano libera si era accarezzato la schiena, trovandole: segni gonfi e stomachevoli di frustate, decine di colpi inflitti contro una carne che, un tempo, era stata giovane.
Suo padre lo aveva educato così, gli aveva insegnato che quello era l'unico momento in cui sarebbero potuti stare assieme.
Doveva stare in ginocchio con le labbra serrate, gli occhi ben aperti e le mani sulle cosce. E doveva contare, ogni singolo colpo andava etichettato da un numero fino a quando il supplizio giungeva al termine.
In quei momenti era vivo, presente, e dolorante.
L'ultimo punto, però, non era da considerare con malignità: Iblīs aveva imparato ad apprezzare il male fisico.
Con la lama del coltello aveva quindi praticato un lungo taglio orizzontale, seguito da un altro e un altro ancora.
Doveva raggiungere le profondità di sé stesso, scavare a fondo fino a quando non avrebbe trovato la sua essenza.
Sperava di trovare un anima, lì dentro.
Non importava che fosse annerita e spoglia, a lui bastava che ci fosse.
Ma quanta pelle avrebbe dovuto tagliare, e quanto sangue avrebbe dovuto versare prima di trovarla?
Plick, sul pavimento si erano create costellazioni vermiglie. Iblīs pensava che fosse meglio di un dipinto e che quindi, per gentil cortesia, avrebbe dovuto mostrare quella sua opera ad Asteria.
Dove si trovava la fanciulla? Aveva dimenticato la sua partenza, la richiesta di andarsene e Pazuzu che la trascinava via.
Si era guardato attorno, sconsolato, adocchiando i miriadi di specchi che tappezzavano la stanza. Chi era stato a metterli lì?
Lui odiava specchiarsi, odiava vedersi, lui-chi diamine era? Non riusciva a, ecco lui non riusciva a distinguere sé stesso dai mille riflessi che vedeva.
Aveva premuto le mani contro la superficie di uno specchio, lasciando che il pugnale cadesse a terra con un rumore sordo.
Iblīs si trovava al centro di un'enorme stanza, la
quale ospitava decine di specchi enormi. Non importava da che parte si girasse: il suo riflesso era sempre lì a guardarlo.
Ma perché, oh- perché lo fissava come se ne fosse spaventato? Il Re si era chiesto se forse, e solo forse, non fosse intimorito da sé stesso.
Chissà cosa avrebbe detto, l'Iblīs di qualche anno prima nel vederlo ridotto a quel modo.
Avrebbe voluto strapparsi gli occhi con il solo aiuto delle mani e donarli al suo riflesso.
Non voleva più esser cosciente, guardarsi per così tanto tempo lo stava nauseando e infastidendo.
"Hai sempre avuto un'espressione da stupido."
Nello specchio davanti a lui aveva osservato il modo in cui il fantasma di suo padre gli si era avvicinato, stringendogli le spalle in una morsa dolorosa.
Era stupido? Iblīs se lo era chiesto fino al punto in cui le parole avevano perso di significato, rotolandogli giù per la lingua come sassi in una frana.
Stupido, ah!
"Non sono stupido." Aveva mormorato il Re, abbassando lo sguardo. Perché continuava a vedere il padre? Avrebbe preferito la glaciale presenza degli altri demoni.
Avrebbe dovuto convivere con il padre per il resto della sua vita? Eppure era morto così tanti anni fa.
Desiderava liberarsene, sganciare quelle catene che gli pesavano addosso ed esser libero.
"Sei solo un folle Re," il padre gli aveva inclinato la testa all'indietro, imponendogli di guardarlo, "incapace di portare onore a tale titolo perché troppo stupido. Dimmi: lo sanno, i tuoi sudditi, cosa vedi?"
Iblīs aveva deglutito aspramente, sentendosi male.
Suo padre aveva ragione; non era nulla se non un fallimentare esempio di umano.
Un mostro, ecco cosa era.
"Hai ucciso tua madre."
"Ho ucciso mia madre."
Al Re parce di aver perso l'ultimo bullone che lo teneva fermo, precipitando in un buco senza fine.
"Assassino."
I fantasmi gli gridavano che era un assassino, un morto che camminava e una delusione.
Dove erano, ora, le falena di Asteria?
Perché non veniva a salvarlo? Aveva bisogno che scacciasse via i suoi fantasmi, i suoi demoni, e che si lasciasse divorare da lui.
L'avrebbe uccisa per essersene andata, per averlo lasciato da solo. Era Re, poteva farlo, giusto?
Certo che poteva, ma cosa era, quindi, a fermarlo?
Aveva nuovamente alzato la testa, osservando il suo riflesso distorcersi nello specchio. I suoi capelli si allungarono e i suoi tratti facciali di ricomposero, dando vita a un'altra persona: sua madre.
"Ti ho uccisa." Le aveva bisbigliato lui, sull'orlo delle lacrime.
Perché non lo abbracciava? Se fosse sopravvissuta al parto, magari suo padre l'avrebbe amato.
Se solo non fosse mai nato, se solo...
La donna aveva scosso la testa, privandolo dell'opportunità di udire la sua voce.
"Diglielo, digli che ti ha uccisa!" Il padre di Iblīs aveva urlato, vaneggiando e strepitando a più non posso verso la figura della donna.
Ma quest'ultima non rispose, limitandosi a rivolgere un sorriso verso il figlio.
Voleva sua madre, voleva che qualcuno si prendesse cura di lui. Forse, e solo forse, era divenuto così a causa di ciò che gli era stato fatto.
Non era una giustificazione, certo, ma sembrava proprio che Iblīs fosse il risultato di anni e anni di abusi.
Si chiedeva che persona sarebbe stata se, molti anni prima, suo padre l'avesse amato. Ma la storia non poteva esser cambiata e doveva quindi arrendersi alla verità dei fatti: era diventato ciò che da bambino odiava di più.
"Sei morto abbastanza, figlio mio." Aveva sussurrato la donna, allungandosi verso di lui.
Per un attimo credette che sarebbe uscita dallo specchio per strangolarlo o, magari, per stringerlo a sé.
"Adesso è tempo di vivere." Il riflesso di sua madre si era tramutato in dolci onde azzurre, svanendo come spuma.
Iblīs non capiva.
Lui non era morto e al tempo stesso non era vivo.
Costretto nel suo limbo, il Re si era piegato in due sul pavimento, gridando e piangendo come un infante.
Era così, oh, così stanco da pensare che si sarebbe addormentato proprio lì, a terra, circondato dai mille riflessi del suo volto.
Da fuori la stanza Nasser aveva udito i gemiti e i colpi, agitandosi. Con la mano sul pomello aveva quindi aperto la porta, osservando con sgomento la figura del suo sovrano.
Iblīs era seduto sul suo letto, lo sguardo fisso sul soffitto e il volto placido, quasi calmo, e impassibile.
Era tutto nella sua testa.
Non c'erano lacrime, fantasmi o grida e, sopratutto, in quella stanza non vi era nemmeno un singolo specchio.
**
Asteria aveva alzato gli occhi dal libro con espressione confusa e persa mentre si affrettava a riporte l'oggetto nella sua sacca.
Non aveva mai creduto nella magia, a malapena riusciva a confidare negli dei, ma lo scrittore pareva esser profondamente convinto di ciò che aveva scritto.
Possibile, quindi, che uno dei tanti cavalli della stalla fosse Ciril? E se si, perché era sotto la custodia di Iblīs anziché di Uraeus?
Durante la sua permanenza a castello non aveva mai notato la presenza di un corvo.
Dove era Basil?
Si era abbandonata contro la sua seduta, esausta.
Razionalmente non riusciva ad accettare l'idea che esistesse davvero una maledizione simile; eppure pareva che Iblīs fosse immortale.
Sarebbe diventata così anche lei?
Non voleva impazzire e perdere il senno della ragione, l'idea di finire come il Re le faceva paura.
Si era quindi concentrata sul battito del suo cuore, distraendosi.
Tum-tum-tutum.
Avvertiva la pulsazione delle sue vene, lo scorrere placido del sangue e il rumore dei battiti contro il cranio.
Più si concentrava, però, e più qualcosa le suonava stonato e sbagliato. C'era qualcosa, si, qualcosa che non andava.
Asteria sentiva due cuori.
Si era ridestata velocemente dal suo stato catatonico, trattenendo la bile in gola. Stava impazzendo? Era impossibile avere due muscoli cardiaci.
Aveva portato le mani contro il petto, tastandosi per assicurarsi che fosse tutto normale. Ora ne avvertiva di nuovo uno solo.
Forse era stato uno scherzo dettato dalla sua agitazione. Si, doveva-ecco doveva essere quella la spiegazione.
Per qualche secondo si era sentita spaesata dai suoi stessi pensieri, come se la sua mente le stesse sfuggendo.
Era, per fortunata, durato poco.
"Stai bene?" Il viso abbronzato di Azef le si era parato davanti agli occhi, scuotendola dalla sua apparente confusione.
No, non stava bene ma come poteva dirglielo? Non sapeva cosa le stesse prendendo e non avrebbe quindi saputo come spiegarglielo.
Di certo non poteva esordire con un "sento cose che non ci sono!"
"Si, sono solo stanca." Asteria aveva quindi afferrato il suo tè freddo, prendendone un sorso abbondante.
Il sapore dolce e intenso della bevanda le era esploso in bocca, solleticandole il palato. Le era mancata la compagnia di Azef e il suo prendersi cura di lei.
Forse avrebbe dovuto dirglielo prima di andarsene.
L'amico aveva annuito, sedendosi davanti a lei con un'altra tazza tra le mani. Era così strano, per lui, riaverla intorno.
Credeva che non si sarebbe mai abituato alla mancanza di Asteria e, in quel caso, di Alisha.
Adesso che entrambe erano lontane, lui era rimasto solo.
Certo, conosceva altre persone ma loro due erano state la sua famiglia per anni. Cosa avrebbe dovuto fare? Non voleva permettere ad Asteria di tornare a palazzo, ma poteva davvero interferire?
Era sicuro che il Re avrebbe mandato qualcuno a ucciderlo, se solo ci avesse provato. Forse era solo paranoico o magari il lavoro lo aveva stressato.
"Vuoi che ti prepari il letto?"
Asteria avrebbe voluto rispondere di no. Desiderava rimanere sveglia tutta la notte a conversare con lui, farsi raccontare tutto ciò che si era persa e aggiornarlo su cosa le era successo.
Aveva solo due giorni e poi sarebbe dovuta tornare a palazzo, da Iblīs.
Le monete d'oro e d'argento che le erano state offerte valevano, ora, meno di niente. Era stata costretta a barattare la sua libertà e la sua sanità mentale con dei soldi che, con tutta probabilità, non sarebbe mai riuscita a usare.
Sapeva che ogni due mesi sarebbe potuta tornare a casa, ma avrebbe resistito per così tanto tempo? Era alla soglia del primo mese e già si sentiva instabile.
"Si, per favore. Ti dispiace se vado a controllare come sta Pazuzu?"
Voleva accertarsi con i suoi stessi occhi che quello fosse solo un cavallo e niente più. Poi sarebbe tornata a casa, da Azef, e magari avrebbero dormito assieme come quando erano bambini.
Non c'era imbarazzo tra di loro, né malizia, quindi dormire insieme non avrebbe infastidito nessuno dei due.
Il ragazzo aveva sorriso, alzandosi per avviarsi verso la stanza della ragazza. Era sempre stato uno di poche parole, lui, e mai aveva indagato sulle intenzioni di Asteria.
Ora che ci pensava, credeva che le avesse sempre permesso di fare e pensare ciò che più desiderava. Era una situazione strana, ai tempi.
L'uomo era abituato a dettare legge, a manovrare le menti femminili e a considerare le donne come degli oggetti.
Non tutti erano così, certo, ma la maggior parte si.
Gli anni dell'indipendenza femminile erano ancora lontani, forse troppi, ma sembrava che le donne iniziassero ad alzare un pochino di più la testa.
Asteria si era quindi alzata a sua volta, aveva afferrato la sua tracolla e si era diretta verso la porta d'uscita. Sarebbe rimasta poco, giusto il tempo di studiare meglio l'animale, e poi avrebbe dimenticato tutto ciò che era successo quella notte.
Appena uscita da casa, l'aria fresca e umida della città le aveva colpito il viso. Se non avesse avuto il suo velo verde a coprirle i capelli, si sarebbero sfatti.
Aveva osservato le torce in alzarsi davanti a ogni casa, illuminando passivamente il sottile strato di sabbia. Su ogni porta, poi, vi erano affissi dei numeri per permettere agli abitanti di riconoscere la propria abitazione.
Le strutture venivano costruite in modo simile, era lo stile del tempo, ma di tanto in tanto gli abitanti si stufavano e trovavano il modo di modificare i muri.
Alla finestra di camera sua, per esempio, erano stati posizionati dei cactus.
Le stalle si trovavano dietro l'abitazione, di fianco al forno, e ospitavano all'incirca dieci cavalli.
Azef aveva iniziato a farsi pagare, qualche anno prima, per affittare i piccoli spazi a chi ne aveva bisogno.
Era un peccato, però, visto che in pochi possedevano animali simili. Asteria poteva considerarsi benestante rispetto ai suoi concittadini.
Aveva annusato l'odore del mangime e le sue orecchie avevano percepito il rumore degli zoccoli contro il terreno.
Sembrava che due o tre cavalli stessero nitrendo mentre si muovevano con ardore. Si erano forse agitati?
Asteria aveva sospirato, pensando a cosa fare.
Come poteva assicurarsi che quell'animale fosse, in realtà, Ciril?
Con la mano che le tremava aveva aperto la porta delle stalle, cercando con gli occhi il suo cavallo.
Si dispiacque nel constatare che aveva svegliato i restanti animali e cercò quindi di fare il meno rumore possibile.
Pazuzu era in fondo alla stanzetta, dritto e fiero nella sua postura mentre inclinava il muso verso di lei, sbuffando.
Asteria aveva fatto qualche esitante passo in avanti, aspettando che la riconoscesse, per poi portare una mano verso il collo dell'animale.
Quest ultimo aveva smesso di sbuffare, permettendole di slegarlo e portarlo fuori.
Le stelle erano perfettamente visibili da lì; si stagliavano in alto e brillavano con talmente tanta intensità da sembrare fuoco.
La ragazza pensò che persino l'animale se ne fosse accorto visto il modo in cui le squadrava. Ne era affascinato? Era possibile, per un cavallo?
"Ho letto di te, o almeno credo di averlo fatto." Aveva mormorato lei, lanciando una veloce occhiata agli occhi scuri di Pazuzu.
La bestia aveva abbassato la testa, pestando gli zoccoli a terra un paio di volte. Riusciva a capirla?
"Ti chiami Ciril, non è forse così?"
A quel punto cadde il silenzio e, insieme a esso, giunse la rabbia. Il cavallo aveva iniziato a nitrire e a sbuffare, puntandola come se volesse farle dal male.
Aveva scosso la testa, posando il muso contro la fronte della ragazza. Asteria era rimasta immobile sul suo posto, non volendo aizzare ancora di più l'equino.
Con la mano aveva provato a lasciargli qualche carezza sul collo possente, tentando di rilassarlo. Non voleva di certo uscire da quella situazione con delle ferite.
"Perché ti agiti tanto, Pazuzu?" Il cambio di nome aveva calmato la bestia, zittendola.
Possibile che fosse l'appellativo a infastidirlo? Ma perché?
Se Ciril era il suo vero nome, allora come mai ne era tanto disgustato?
Asteria non sapeva cosa stava facendo né se il cavallo fosse davvero l'ex servo di Uraeus.
"Non voglio farti del male," aveva sussurrato lei, baciandolo sul naso, "desidero sapere se sei realmente te il servo di Uraeus. Se riesci a capirmi, volta la testa verso destra."
Si sentiva così stupida a parlare in quel modo con un cavallo, ma aveva bisogno di risposte. Se ciò che il
libro diceva era vero, significava che tutti gli animali del palazzo erano in realtà persone sotto l'effetto di una maledizione.
Il respiro le si era bloccato in gola quando aveva
visto Pazuzu, o Ciril, obbedire al suo comando con gli occhi lucidi e tristi.
Aveva ragione lo scrittore.
Diamine, come poteva esser vera una cosa simile? Non voleva crederci eppure la risposta era proprio lì, davanti i suoi occhi.
"Non puoi parlare, non è così?" Il cavallo aveva annuito, facendo scontrare ancora una volta la testa contro il corpo di Asteria.
"Mi dispiace così tanto." Aveva continuato lei, accarezzandolo senza fine. Provava così tanta pena per Ciril da sentirsene sopraffatta.
Da quanti anni era in quelle condizioni? Un umano bloccato nelle spoglie di un animale, che cosa triste.
Chissà quanti pensieri gli offuscavano la mente e chissà quanto dolore provava, il povero Ciril.
Leggendo la storia aveva pensato che se lo meritasse; dopotutto aveva tentato di uccidere un membro della famiglia reale. Ma poteva davvero biasimarlo?
Era stato un servo, e cos'altro possono fare i servi se non obbedire al proprio padrone?
"Esiste anche Basil? È stato realmente tramutato in corvo?"
Asteria era sicura di averlo visto roteare gli occhi, ma ci passò sopra. Forse provava ancora del rancore verso il cugino.
Ciril aveva annuito per la seconda volta, colpendola con la coda per poi puntare lo sguardo verso la sua borsa.
Nitrendo si era scostato da lei, quasi disgustato, mentre annusava l'aria. Cosa c'era che non andava, nella sua tracolla?
Aveva infilato una mano dentro di essa, vedendo il cavallo allontanarsi il più velocemente possibile. Si era quindi fermata, senza parole.
Cosa aveva fiutato di così stomachevole.
Asteria aveva quindi portato l'estremità della sua veste verso il proprio naso, annusandosi. Non proveniva da lei, l'odore nauseabonda, ma allora da cosa.
"Vuoi tornare dentro?"
In risposta aveva ricevuto un forte nitrito di assenso. Sconfitta e rassegnata gli aveva aperto la porta, assicurandosi che riuscisse a tornare al proprio posto anche da solo.
Avrebbe voluto porgli altre domande ma Ciril sembrava troppo scosso e incattivito per sostenere un'altra conversazione.
Il giorno dopo sarebbe tornata da lui e, a quel punto, gli avrebbe domandato tutto ciò che poteva.
Chiudendosi la porta della stalla alle spalle si era ritrovata a poggiarcisi contro, esausta. Che ore erano? Probabilmente piuttosto tardi vista la stanchezza che provava.
Il suo sguardo era quindi ricaduto sulla sua borsa e, senza pensarci troppo, ne aveva estratto la scatola nera che Iblīs le aveva donato.
L'avrebbe aperta proprio lì, distante dagli occhi di tutti.
Asteria si era accovacciata a terra, stringendo tra le mani la fonte del fastidioso odore, per poi aprirla.
Per un attimo credette di svenire mentre osserva la
pozza rossa al suo interno, il rumore pompante e triste che ne scaturiva e il colore nero, a tratti bluastro, di ciò che stava osservando.
Aveva ripensato a pochi minuti prima, in casa, quando aveva avvertito dei rumori sospetti.
Non era impazzita, dio lei non era pazza ma oh, stava per diventarlo!
L'isteria le aveva scosso il corpo, lasciandola sola e tremante contro il terreno sporco. Le veniva da piangere e, al tempo stesso, da ridere.
Con le punte delle dita aveva toccato il dono di Iblīs, trasalendo nel sentirne la consistenza molliccia e umida.
Il suo cuore, Iblīs le aveva donato il suo cuore.
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