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Capitolo 5

Probabilmente baciare Darrell era sbagliato, ma non me ne curai. In quel momento niente aveva importanza, se non riuscire a sopravvivere al dolore che ci squarciava il petto senza pietà.

Il ragazzo rispose sicuro al tocco delle mie labbra, stringendomi di nuovo a sé e intrecciando le dita tra i miei capelli. I suoi movimenti accondiscendenti spedirono calore in ogni angolo del mio corpo, riempiendo un pochino il vuoto che si era formato dopo tutte quelle lacrime.

Mi ritrovai avvinghiata a lui senza capire bene come avessi fatto, ma non mi fermai a chiedermelo, continuando a premere contro il suo corpo nel disperato tentativo di sentirmici talmente vicina da essere ubriaca di lui.

Mi allontanai solo per riprendere fiato, fissando il suo petto che si alzava e abbassava rapido, a ritmo con il mio. Nei suoi occhi ora, al dolore si mescolava una scintilla misteriosa che li illuminava ancora di più, rendendoli unici.

Rimasi in silenzio, non c'era altro da dire. Non mi sentii in imbarazzo o sbagliata come mi era capitato le volte scorse in cui avevo baciato Darrell. Era stata una decisione quasi necessaria. Il mio corpo lo aveva capito prima della mia mente, e ora che ne ero del tutto consapevole non me ne pentivo.

Mi alzai con rinnovata fiducia sentendomi un po' meno sola, e trasmisi mentalmente a lui le mie emozioni. Volevo che sapesse.

Il ragazzo si mise in piedi dopo di me, sorridendomi debolmente. Mi sentivo sfinita, privata di ogni più piccolo brandello di energia che mi era rimasta, e avevo bisogno di riposo; tuttavia avevo troppa paura di soffrire di nuovo, per rimanere sola.

Puoi sdraiarti, se vuoi, mi suggerì lui inviandomi mentalmente l'immagine del letto.

Esitai. Baciarlo era un conto, dormirci insieme un altro...

Non toccarmi mai, gli intimai, vedendolo perplesso. Il ragazzo annuì con un sopracciglio leggermente alzato.

Mi sdraiai e Darrell mi si sedette accanto, mantenendo la promessa. Ebbi per un attimo la paura di averlo ferito, ma non me ne pentii. Era stato necessario, non volevo rischiare di avvicinarmi troppo a quel ragazzo ora che era l'unica cosa che poteva tirarmi un po' su. Dovevo assicurarmi che la nostra amicizia, o qualsiasi cosa fosse, non cadesse in uno stato di dipendenza l'uno dall'altra e non sfociasse in qualcosa di poco sano. Darrell non sembrava il tipo, ma eravamo entrambi feriti e spezzati nel profondo e una persona dall'animo a pezzi tende a ricucire male i suoi strappi.

Fu con i pensieri in subbuglio che mi addormentai senza nemmeno curarmi di che ore fossero, cadendo schiava delle palpebre che bruciavano e la testa che scoppiava.

Aprii gli occhi incontrando solo il buio più totale, che mi disorientò fino a farmi mancare il respiro. Dove mi trovavo? Cercai di respingere il panico e serrai le palpebre, saggiando gli altri sensi come mi aveva insegnato a fare Ace.

Trassi un profondo respiro, calmandomi. Con gli occhi chiusi sembrava tutto più naturale e meno spaventoso mentre gli altri sensi si ampliavano fino a raggiungere una maggiore percettibilità.

Il mio naso captò puzza di muffa e umidità, rivelandomi di trovarmi probabilmente in uno scantinato, o qualcosa del genere. Non vi erano altri odori che riuscivano a penetrare quella coltre umida, quindi provai a concentrarmi di più e inspirare nuovamente a fondo. L'odore stantio pizzicò ancora le mie narici, questa volta però, mischiato a qualcosa di metallico e salato... sangue? Il mio sangue. Stavo ancora sanguinando.

Mi agitai cercando di muovermi ma, per qualche motivo, mi ritrovai impedito a farlo, mentre dalla scapola mi arrivava una fitta lancinante, che percorse l'intera spalla fino a scemare sulla colonna vertebrale. Provai a spostarmi per diminuire il dolore, cercando di capire cosa ostacolasse i miei movimenti. In quel momento però mi accorsi di essere legato con entrambe le braccia al soffitto, mentre il mio corpo pendeva inerme verso il pavimento, dove i piedi erano saldamente ancorati al cemento tramite legacci d'acciaio.

Il sangue colava attraverso gocce calde dalle ferite che avevo sui polsi, laddove il ferro arrugginito solcava i tessuti, consumandoli nel punto in cui il peso del mio corpo premeva di più. Riaprii gli occhi d'istinto per controllare le ferite, ma il buio tornò ad assalirmi e fui costretto a tirare lunghi e profondi respiri per scacciare il panico che ne derivava.

Provai a tirare via le braccia, ottenendo come risultato solo un flusso maggiore di liquido caldo che mi colò sul viso e sulle labbra, impregnandosi tra i miei capelli.

Grugnii infastidito. In circostanze normali avrei rotto quei legacci senza batter ciglio, ma in quel momento il mio corpo era debole e dissanguato, impossibilitato a compiere anche il più piccolo degli sforzi.

Tesi le orecchie cercando di captare un nuovo indizio, ma un giramento di testa me lo impedì, ricordandomi ancora quanto fossi malconcio e facendo di nuovo sprofondare la mia mente nel baratro. Tentai di resistere ma il richiamo del buio era troppo potente, mentre io ero così debole che non riuscii a contrastarlo.

Il rumore di un tuono accompagnò il mio risveglio notturno, facendomi scattare seduta con il cuore in gola. Nel tentativo di calmarmi, cercai a tentoni la luce sul comodino e la accesi. Avevo bisogno di verificare di non essere al buio come nel sogno, solo in quel modo il mio cuore avrebbe fermato la sua corsa scatenata e la mia mente avrebbe accettato l'idea che fosse stato solo un incubo. Certo, molto realistico, ma pur sempre un incubo. Mi controllai i polsi per essere sicura di stare bene e tastai la mia schiena per confermare di aver sognato. Solo in quel momento, con una mano tra le scapole e il gomito sulla guancia, mi resi conto con orrore che quella era la stessa identica ferita inferta a lui nel momento in cui era stato colpito. Mi mancò improvvisamente il respiro constatando che la mia mente mi stesse giocando brutti scherzi, rigirando le peggiori immagini di cui era a conoscenza per creare il più spaventoso dei miei incubi.

Tremai sul letto quando un altro fulmine spezzò la quiete della notte, facendomi gemere. Avevo i nervi a fior di pelle e l'incubo mi aveva lasciato addosso una sensazione di malessere che non riuscii a scacciare.

«Tutto ok?» La voce di Darrell mi colse alla sprovvista, ricordandomi che mi ero addormentata nella sua stanza. Il sonno che la distorceva la faceva apparire molto più strascicata e roca del solito, rendendola quasi irriconoscibile.

«Sì, ho solo avuto un incubo» sussurrai, ricordando che il giorno precedente lui mi aveva detto la stessa cosa. Di nuovo, la sensazione che avesse mentito tornò a tormentarmi, ma non era il momento di pensarci.

Darrell si mise a sedere accanto a me, strofinandosi le mani sul viso per scacciare via il sonno. Mi sentii in colpa per averlo svegliato, ma l'egoismo mi impedì di dirgli di tornare a dormire. O forse era istinto di sopravvivenza.

«Gli incubi sono solo ciò che la nostra mente vuole mostrarci, non trovando altro modo di farlo se non mentre dormiamo. Se ci mandasse immagini mentre siamo svegli, verremmo catalogati come pazzi, mentre in realtà è solamente un'abilità della nostra mente più sviluppata delle altre. In ogni caso ti posso assicurare che è meglio così e non il contrario.» Parlò sicuro, per esperienza, spiegando l'origine del mio sogno e non facendolo più apparire tanto spaventoso. Sembrava intendersene parecchio, dopotutto era un Mentalista.

«Tutte queste cose le hai imparate a scuola perché sei un Mentalista?» gli chiesi, distogliendo l'attenzione dall'incubo e focalizzandola sulla sapienza del changer. Io ero cresciuta tra gli umani, perciò difficilmente avrei potuto raggiungere lo stesso livello di istruzione di uno qualsiasi di loro. A pensarci bene, sapevo davvero poco sul loro conto.

«No, le ho imparate per esperienza» rispose enigmatico lui, facendo cadere il discorso.

«Chi erano i tuoi genitori?» chiesi a bruciapelo, nuovamente curiosa di scoprire qualcosa sul passato di Darrell. Dopo l'incubo, non avevo alcuna voglia di tornare a dormire e il desiderio di fare altro mi impediva di smettere di parlare.

«Vuoi sapere i loro nomi?» La voce del ragazzo rimase tranquilla, ma non mi sfuggì il fatto che si fosse irrigidito istantaneamente.

Feci spallucce. «Voglio sapere qualcosa su di loro, su di te.»

«Mio padre era un bravo Mentalista. Non uno dei migliori, ma comunque bravo. Mia madre non eccelleva nella magia, però aveva un grande spirito combattivo» raccontò monotono, tenendosi sul vago.

«Quindi il tipo di magia è ereditario?» Era incredibile quante parole mi uscissero improvvisamente tutte insieme, come se le avessi tenute chiuse troppo a lungo e ora scoppiassero di botto. Mi sembrava che una volta mi fosse stato detto il contrario.

«Non ne siamo sicuri, ma sembra che i geni influiscano a volte sul tipo di magia.» Darrell si rilassò essendo uscito dall'argomento che lo riguardava, quindi gettò uno sguardo fugace fuori dalla finestra buia per aggiungere subito dopo: «Dovresti tornare a dormire. Non preoccuparti per il sogno. Non era reale.»

Solo in quel momento mi accorsi della sua mano che sfiorava il mio braccio sano e mi ritrassi d'istinto. Aveva ragione: dovevo tornare a dormire. Non me la sentivo però di addormentarmi con lui così tanto vicino. Mi alzai dal letto e lo vidi osservarmi con attenzione. Non c'era traccia di sorpresa nel suo sguardo, come se si aspettasse una reazione del genere da parte mia.

«Ci vediamo domani» mi salutò infatti subito dopo, mantenendo lo sguardo appiccicato al mio corpo.

Annuii varcando la porta e chiudendola alle mie spalle. Attraverso il buio mi diressi sicura verso la mia stanza senza nemmeno accendere la luce.

Riuscii a trascorrere la notte e il giorno successivo in tranquillità, evitando di entrare troppo in contatto con Darrell. Per quanto mi avesse fatto piacere percepirlo così vicino, speravo di non essere debole e non dovermi appoggiare a lui di nuovo per via del dolore. Era una cosa che dovevo superare con le mie forze, non sarebbe stato giusto usare lui per sentirmi meno sola. Darrell, come sempre, dimostrò di conoscermi molto bene, dato che intuì il mio bisogno e mi lasciò in tranquillità come gli altri giorni.

Mentre lui parlava con Ace, decisi di trascorrere il mio pomeriggio alla spiaggia. Mi lasciò andare da sola senza imporsi come mia ombra e, una volta arrivata, mi tolsi le scarpe e respirai a pieni polmoni la brezza marina, immergendo i piedi nell'acqua gelida che mi fece rabbrividire. Non amavo il freddo, ma questa volta era diverso. Sentivo che qualcosa in me quel giorno si era riacceso, donandomi speranza e accompagnandomi in una parte della mia vita ancora da scoprire. Ero una nuova Lucrezia e come tale sarei stata più forte. Imparai a trarre piacere da quel freddo nonostante mi indebolisse. Ciò che non uccide fortifica, dissi a me stessa, cercando di contrastarlo grazie al sole che mi baciava la pelle.

Con malinconia ricordai quando lui aveva promesso che mi avrebbe portata al mare. Feci perdere i miei occhi tra il blu dell'orizzonte, una linea indistinta che separava cielo e mare. Mi sarei beata di quella sensazione anche per lui. Lo avrei fatto perché si era sacrificato per dare la vita a me, quindi avevo maggiori responsabilità: dovevo vivere per entrambi. Non era giusto che io annullassi me stessa, che rifiutassi quell'esistenza per la quale lui aveva fatto tanto. La vita che mi aveva permesso di poter vivere privandosi della sua. Non avrei gettato il suo sacrificio al vento.

Strinsi i pugni e buttai fuori l'aria che non mi ero accorta di trattenere. Il sole stava calando e sarei dovuta tornare. Quanto tempo ero stata lì a contemplare l'apparente calma delle onde? Erano sembrati pochi secondi, eppure erano passate ore. Con i piedi intirizziti dal freddo, mossi qualche passo prima di riacquistare una salda andatura. Presi le scarpe in mano e ripercorsi a ritroso la strada che mi avrebbe portata alla casa. Era stata una giornata ferma, statica, ma dentro di me erano cambiate molte cose. Prima fra tutte, ero cambiata io. Avevo finalmente detto addio alla vecchia e tremante Lucrezia per accoglierne una nuova, più matura e segnata dalla sofferenza provata, dalla quale aveva tratto un insegnamento. 

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