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Votazioni [seconda tranche]

Num. 5
Missfortune21

Quel pomeriggio di dicembre un semplice ragazzo come tutti è seduto su una panchina del parco di Chicago.

È tutto coperto di bianco e il laghetto davanti a lui, ci scommette tutto ciò che ha, entro domani si ghiaccerà vista la temperatura polare.

Da poco ha persino ricominciato a nevicare, ma lui non ha nessuna intenzione di muoversi da lì.

Sbuffa seccato per la millesima volta creando davanti a sé un'altra nuvoletta.

Solo al ricordo di quel professore che lo ferma dopo l'esame d'ingresso all'università, gli prudono le mani.

Era il solito lavoro.

Entrare, fare il test e spacciarsi per il ragazzo che lo ha assunto per fare l'esame al suo posto.

Semplice e lineare.

Gli piace leggere di tutto, impara in fretta e a scuola non ha mai avuto problemi, quindi perché non usare le sue capacità per guadagnare qualcosa in più?

D'altronde il suo lavoro come muratore non bastava per mantenere i suoi fratellini e qualcosa doveva pur fare.

A lui poco importava fosse sbagliato.

Guadagnava tanto grazie a quei cretini e andava benissimo.

Qualche giorno prima, però, un professore si era da un po' accorto del gioco e, a fine test, lo ha fermato.

Non lo ha punito e né sgridato.

Gli ha fatto delle domande rimanendo a dir poco meravigliato dalle sue capacità, nonostante la sua situazione economica e famigliare spiacevole.

E, sorpresa delle sorprese, gli ha offerto una borsa di studio!

Inutile dire che gli ha riso in faccia.

Non gli sono mai interessate quelle cazzate da fighetti, e tanto meno entrare nella solita vita monotona e noiosa che gli sarebbe toccata dopo la suddetta laurea.

In sintesi, ha rifiutato e lo ha mandato a quel paese.

Deve badare ai suoi due fratellini, non ha tempo di studiare ancora, lui.

"Quello stronzo..."

Pensa ancora Isaac prendendo una sigaretta e accendendola.

Appena fa il primo tiro sente i nervi stendersi e rilassarsi, chiude persino gli occhi.

Eppure, nonostante abbia detto no, quella discussione è come un tarlo insopportabile nel suo cervello.

È come se una parte di lui in realtà volesse mettersi in gioco, dimostrare al mondo che anche lui esiste senza sparire come un'insulsa macchietta nell'oblio.

Il terrore di finire però come tutti, in giacca e cravatta dentro un ufficio, gli fa venire i brividi.

Poco dopo sente qualcuno sedersi al suo fianco attirando la sua attenzione.

Apre gli occhi squadrando l'uomo rimanendo abbastanza colpito.

È abbastanza robusto, con barba sul viso coperto da lievi rughe.

Indossa un giaccone scuro come il suo e un vecchio capello verde militare in testa.

Al contrario di Isaac il quale, invece, indossa un berretto rosso a coprire i capelli corvini mettendo anche in risalto gli occhi grigi.

Rimane a guardarlo di sbieco per un po' ancora a braccia incrociate e stravaccato sulla panchina come ipnotizzato.

D'un tratto anche l'uomo prende una sigaretta per poi ricercare nelle sue tasche. 

In seguito si volta verso Isaac.

- Hai da accendere?- chiede facendo sorprendere il ragazzo.

- Eh? S-Sì...ecco a lei.- gli porge l'accendino recuperato dalle tasche.

L'uomo ringrazia concedendogli un lieve sorriso.

Si accende la sigaretta rimanendo in silenzio ancora per un po' prima di parlare.

- Sei giovane...frequenti l'università di Chicago?- spezza il silenzio voltandosi a guardarlo.

Isaac lo guarda ancora più sorpreso mettendosi seduto più dritto sul posto, quasi a disagio.

- No, faccio il muratore.-

Stavolta, a quella risposta, è l'uomo a fissarlo sorpreso.

- Ah sì? Non mi sembri il tipo.- sorride appena lui, come se fosse divertito.

Il corvino, non sa perché, ma ridacchia pure lui facendo un altro tiro.

- Dice?-

- Dico, dico. Mi sembri fin troppo sveglio per quel mestiere.- annuisce fumando anche lui dalla sua sigaretta.

- Bè, è un bel lavoro. Non c'è niente di male.-

- Sì, lo so. Facevo il muratore quindi ne sono consapevole. Io però non ero intelligente, a scuola ero un disastro.- spiega divertito.

- Cosa le fa dire che io sia intelligente o sveglio? Mi conosce da cinque minuti.-

- Istinto. Di solito non sbaglia mai. E poi sei giovane, dovresti stare sui banchi a costruirti un futuro, non sui campi da lavoro.- replica con un'alzata di spalle.

Isaac a quel punto non riesce a trattenere una mezza risata.

- E finire a marcire in un'azienda o in un ufficio? No, grazie. Non voglio finire come tutti.-

- Come tutti?- chiede curioso ma perplesso.

- Sì, come tutti. Come se...fossi morto dentro.-

Non sa perché, ma quell'uomo gli ispira fiducia.

Non si vergogna a confessargli certe cose.

È strano ma è così.

L'uomo resta zitto per un paio di secondi che ad Isaac sembrano eterni, poi, dopo un altro tiro, parla.

- Com'è che ti chiami?-

- Isaac.-

- Bè, Isaac, non devi per forza restare bloccato in un ufficio.-

- Sono una testa calda, non posso restare bloccato da nessuna parte a prescindere.-

- Esistono tanti lavori che potrebbero essere perfetti per te. Il mondo ne è pieno. E, a dire il vero, rimanere in fase di stallo senza nemmeno provare a superare i propri limiti e le proprie paure è già morire un po' dentro. Mi sembra tu stia sparendo senza rendertene conto.- parla schiettamente l'uomo lasciando quasi a bocca aperta l'altro.

Lui poi si riprende guardando il lago davanti a sé sbuffando una nuvoletta di fumo.

- Mi hanno offerto una borsa di studio.- confessa.

- Allora avevo ragione. Insomma...se hai delle potenzialità perché non usarle a tuo piacimento e per te stesso? Potrebbero essere utili anche ad altri. Di certo però non sfruttandole rendendo te stesso il tuo stesso limite...bè, mi sembra stupido. Io non sono intelligente ma fino a qui ci arrivo.-

Isaac serra le labbra pensando alle sue parole.

Ai suoi fratellini.

A se stesso.

Non ha mai pensato a ciò che voleva o gli piaceva, solo a ciò che doveva e non voleva.

Se quel professore gli avesse fatto quel discorso...cazzo, gli avrebbe detto sì.

Isaac si alza in piedi di scatto guardando l'uomo con occhi diversi.

Più vivi.

Più decisi e sicuri.

- Grazie...lei come si chiama?-

L'uomo gli sorride sincero spegnendo la sigaretta ormai finita.

- Non è importante.-

Num.6
Moongirl_2017

"che fortuna " " vorrei essere al tuo posto" queste erano le frasi che mi sentivo dire fin da quando ero piccola, fino ad allora. Provengo da una famiglia ricca, così ricca da farti vomitare , quando hai un padre avvocato e una mamma sindaco , le aspettative sono molto alte .

Mia nonna mi diceva sempre che ero uno spirito libero , che odiava ricevere ordini , e che prima o poi avrebbe superato i suoi limiti.

Era ormai da 10 giorni che mi nascondevo: a casa di amici o qualche casa abbondanata . Mi nascondevo da i miei genitori, sembra strano dirlo , ma era proprio da loro che volevo scappare e non volevo essere trovata.

Mio padre feriva mia madre e mia madre feriva me , e io ? Io volevo realizzare il mio sogno , volevo superare i miei limiti, più di quanto avessi mai fatto.

Un giorno, uscii dalla finestra di camera mia senza valigia , l'unica cosa che avevo intenzione di portarmi dietro era: la ragione .

La ragione per cui dovevo partire , non c'è l'avevo ancora , ma sapevo che prima o poi l'avrei trovata.

Dopo essere salita sull'autobus guardai in direzione diretta, volevo solo guardare avanti , e mentre pian piano mi allontanavo da quella che era la mia città , da quella che era la mia casa , la mia scuola , il mio rifugio , la mia famiglia.

Non avevo nessun rimpianto.

Come altre persone oltre che i miei genitori, io voltai pagina.

Da piccola, quando la mia tata mi leggeva le storie , io ero talmente curiosa , che leggevo sempre prima la fine , così mi sarei preparata al peggio.

Ma sapere come andrà a finire, quanto condizionerá il viaggio, in quel preciso istante, mi chiedevo proprio quello. Peccato, che non sapevo come sarebbe andata a finire.

Quando finalmente arrivamo a New York , la città che sognavo fin da bambina di andarci , e imploravo i miei genitori per portarmi con loro per il lavoro.

Scesi dall'autobus , e vidi una città diversa da Chicago , scorsi altre facce , nuovi sorrisi , nuove persone , una nuova vita .

Avevo già preso un appartamento in affitto , così mi diressi verso la mia nuova per così dire casa "Ashley" sentii dire da una voce dietro di me , quando mi girai ,vidi un ragazzo moro alto quasi quanto me " ti devo portare nella tua nuova casa" disse, io lo guardai con aria sospettosa " ho non mi sono presentato, sono Alexandro ,se preferisci puoi chiamarmi Alex o Andro , ma ora che ci penso nessuno mi chiama in questo modo " "primo il mio nome non è Ashley ma è Samantha, secondo chi sei ?" " Sono un taxista " in quel momento mi ricordai che non avevo prenotato un taxy , ma farsi perdere un'occasione del genere sarebbe stato meschino così gli dissi " cioè in realtà Ashley è il mio secondo nome " " beh signorina Samanta Ashley Grey , dobbiamo andare" mi portó alla macchina e mi apri la porta "Grazie" dissi con tono sicuro .

Parlammo per tutto il viaggio , e non era così male come pensavo , si era dimostrato un ragazzo sicuro e divertente ma non troppo sveglio .

" Arrivati " mi apri di nuovo alla porta, ma stavolta quella opposta .

Era un bellissimo hotel a 5 stelle, sembrava un castello, era stranamente più grande della mia casa a Chicago.

Quando andai a fare il check-in gli dissi " ho prenotato come Grey" che del resto non era neanchè il mio vero cognome .

"Ma certo" mi porse una chiave con su scritto 10 , senza indugiare la presi " buona permanenza" io ho saputo solo rispondere con un cenno .

Era la prima volta che infrangevo la legge in questo modo, ma in un certo senso, mi piaceva.

Visto che stare nella mia immensa camera mi annoiava, scesi per prendere un po' d'aria.

In quel momento scorsi un volto famigliare , era Alex , l'idea di andare a fare un giro in taxi mi eccitava, così cercai in tutti i modi di attirare l'attenzione , ci riusci ma attirò l'attenzione di un agente fuori servizio, che beveva il suo caffè , non potevo crederci , il vecchio era lì , davanti a me , pregavo dio che non mi avesse riconosciuta , ma malgrado le mie preghiere attraversò la strada è si diresse verso di me , in quel momento corsi verso Alex entrai in taxi e gli urlai di partire "perché hai tutta questa fretta" "ti spiego dopo ma per favore corri"

Subito dopo mi accorsi che anche mio padre era salito in macchina , e aveva acceso le sirene " la polizia mi sta inseguendo , devo fermarmi" " non fermarti , non è la polizia è mio padre" " tuo padre?" " Si ma ti prego accellera" Alex dopo tutti i miei continui lamenti parti come un razzo , attraversò con il rosso, ormai eravamo su tutti i giornali .

Dopo che spiegai ad Alex tutta la storia non ci mise molto a capire che io non ero Ashley è che quindi quello che ci stava inseguendo non era il signor Grey .

Ci eravamo messi in bel guaio , mio padre credeva che ero morta , mia madre gliela fatto credere in questo modo lui non mi avrebbe picchiata , così mi teneva nascosta in camera , non potevo uscire , non potevo vedere nessuno , questo per circa 3 anni fino a che quel giorno scappai .

Ora vivo in un mondo migliore, e devo tutto a mio padre, quello che mi ha uccisa.

Num.7
Fogliabianca

Come tutte le mattine, il mio breve sonno venne interrotto dall'incessante "bip" della sveglia che come un martello pneumatico rimbombava nelle mie orecchie ogni volta decidessi di chiudere nuovamente gli occhi per qualche secondo.

A differenza delle altre mattine, però, non scaraventai la sveglia malefica giù dal comodino accanto al mio letto, ma, al contrario, mi misi a sedere e la spensi con uno sbuffo, per poi farmi una coda disordinata e correre in bagno.

Mi spogliai e in tutta fretta entrai nella doccia senza soffermarmi sull'immagine riflessa nello specchio.

Sentii i brividi diffondersi lentamente su tutta la lunghezza della mia colonna vertebrale e d'impulso portai le braccia a circondare il mio esile corpo.

Appena le mie dita affusolate entrarono in contatto con le ossa sporgenti delle costole, una smorfia di disgusto si impossessò del mio volto e senza pensarci accesi il getto dell'acqua.

Terminata la doccia, mi vestii in tutta fretta e presi lo zaino in spalla.

Non persi tempo davanti allo specchio né per pettinarmi, né per truccarmi.

Ero consapevole del fatto che le mie occhiaie fossero troppo scure e profonde per poter scomparire con l'aiuto di un po' di correttore e che non avrei mai voluto osservare per più di un secondo i miei zigomi scavati.

Provavo una sorta di ripudio verso me stessa. Odiavo quello che stavo facendo, ma odiavo di più quella che ero e io sentivo di meritare quella fine.

Sentii le lacrime pungermi gli occhi e ci volle un respiro profondo per ricacciarle indietro.

Sciolsi la coda disordinata di prima e ne feci un'altra.

Ciuffi biondi fuoriscivano dall'elastico nero che doveva tenere legati i miei capelli e pensai che quell'aggeggio mi assomigliasse davvero tanto, o che, forse, fossi io ad assomigliare a lui.

Entrambi tentavamo di contenere qualcosa, di tenere sotto controllo la situazione, ma nessuno dei due ne era davvero in grado.

Smisi di pensarci per un secondo e corsi giù dalle scale, ma, a metà, sentii un dolore lancinante comprimere lo sterno e i muscoli delle gambe tremare come le foglie in autunno.

Tentai di rimanere in piedi, ma la vista appannata non me lo permise e caddi sull'ultimo gradino facendo il baccano che da tutta la mattina cercavo di evitare.

Mia mamma corse immediatamente a vedere cosa fosse successo e sgranò gli occhi quando mi vide a terra con gli occhi velati di lacrime.

Nel suo sguardo intravidi apprensione e, forse, perfino delusione.

In un secondo la tristezza fece spazio alla rabbia che covavo dentro da tempo e ringhiandole contro andai verso la porta e la sbattei con tutta la forza che avevo in corpo dopo essere uscita da quella maledettissima abitazione.

Il tragitto in pullman fu snervante, quella mattina.

Sentivo gli sguardi di tutti puntati addosso.

Forse era per la maglietta più grande di almeno quattro taglie o per le dita ossute delle mani, o, forse, per le occhiaie nere che contornavano i miei occhi.

Non volli prestare attenzione alle risatine delle due ragazze che avevo di fronte o ai commenti dei ragazzi che mi sedevano a lato.

Appena il pullman si fermò alla fermata degli autobus di fronte alla mia scuola superiore, scesi a testa bassa.

Erano le 7:58 e mancavano solo due minuti all'inizio della lezione.

Per mia sfortuna, la mia classe si trovava in fondo al corridoio e fui costretta a correre per arrivare in orario.

Sentivo il cuore battere all'impazzata, il sangue rombare furioso nelle orecchie e goccioline di sudore scendere lentamente dalle tempie nonostante fosse pieno inverno.

Dopo qualche secondo mi ritrovai davanti alla porta della mia classe e col fiatone entrai senza salutare nessuno.

«Singorina Harrington, non si saluta più?» ironizzò la professoressa di matematica, con un sorriso inaspettato a tirarle le labbra.

«Mi scusi, buongiorno» biascicai con il fiato corto.

Mi sedetti al mio posto e, solo in quell'istante, alzai lo sguardo sulla cattedra.

Su di essa vi era una quantità immane di cibo spazzatura.

Torte, patatine, caramelle, popcorn e bibite zuccherate erano poste in bella vista davanti ai miei occhi e io sentii lo stomaco contorcersi su se stesso e il bisogno di piegarmi, quasi qualcuno mi avesse appena tirato un pugno.

«Auguri prof!» urlò Chad, il classico stereotipo del liceale.

«Non dovevate, ragazzi! Davvero, non dovevate!» disse la prof con voce concitata, fingendosi sorpresa.

«Siete stati voi?» sussurrai a Maddie, la mia compagna di banco, indicando con un gesto del capo le leccornie presenti sulla cattedra.

«Si, abbiamo deciso di fare una sorpresa alla Bradford visto che oggi è il suo compleanno» mi rispose con lo stesso tono di voce.

«Ah, quasi dimenticavo: dopo mi devi dare due euro»

Sbuffai.

Sentivo i conati di vomito salire ogni volta che la lama del coltello affondava nell'impasto fin troppo soffice della torta e ogni volta che una patatina croccante zeppa d'olio veniva messa in bocca e masticata senza ritegno.

«Ei Harrington, tu non mangi?» mi domandò Chad con sguardo derisorio.

Ero l'unica a non avere in mano un pezzo di torta o delle patatine.

Iniziai a sentire il respiro diventare affannoso e gli occhi riempirsi di lacrime, ancora.

«Su, piccola Harrington, festeggia con noi! Non vorrai mica fare un torto alla nostra prof preferita!»

Sentivo tutti gli occhi su di me e ogni secondo che passava gli sguardi mi parvero sempre più derisori.

Mi parve di sentire perfino un: "questa ha qualche rotella fuori posto".

«Mangia! Mangia! Mangia!» intonarono in coro i miei compagni di classe.

La vista divenne appannata e le immagini iniziarono a diventare sempre meno nitide, sempre meno precise, fino a sembrare semplicemente tante macchie colorate.

Non riuscivo a capire se fosse la classe a girare, o se fossi io.

Riuscii a vedere solamente qualcuno porgermi un pezzo di qualcosa che io, prontamente, scansai con uno schiaffo sulla mano.

«Vi prego, basta!»

Queste parole vennero da me pronunciate prima di rendermi conto di averle anche solo pensate.

Mi lasciai andare ad un pianto liberatorio e, accasciandomi sul pavimento, con le risate di sottofondo, mi abbondonai alle tenebre.

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