Votazioni [seconda tranche]
Num. 6
saralt99
《Noo》
Un gridò uscì dalle labbra del ragazzo mentre si svegliava di soprassalto.
Ancora.
Ancora quel benedetto incubo.
Andrew si strinse ancora di più nella coperta, cercando come una sorta di rassicurazione.
Tutto quel buio che lo circondava sembrava come soffocarlo nella sua gelida morsa di solitudine e dolore finché dalla sua bocca non sarebbe uscito più neppure un suono.
E forse se lo meritava.
Sentiva come un peso al petto che lo portava sempre più in giù nel proprio dolore.
E perché anche quell'oscurità sembrava avere i suoi occhi?
Spaventato accese di scatto la luce e la figura che aveva visto nel buio scomparve di colpo.
《S-stai t-tranquillo Andrew》mormorò a sé stesso alzandosi tremante dal letto.
Mosse qualche passo verso la porta, ma poi arrivato alla maniglia, pronto ad abbassarla per correre dai suoi genitori esattamente come faceva da bambino, si ritrasse.
Loro avrebbero detto solo che era troppo grande per avere paura.
Ma come si fa ad essere troppo grandi per una cosa come questa?
Loro non capivano e mai l'avrebbero fatto.
La paura non si può regolare a seconda dell'età e lui era terrorizzato.
E solo.
Soprattutto la seconda cosa.
Se solo avesse avuto qualcuno disposto ad ascoltarlo, qualcuno di cui si potesse fidare.
Eppure tutti a scuola lo evitavano, senza provare neanche per un attimo a mettersi nei suoi panni.
Non sapeva più come uscirne fuori.
Si addormentò così quando esausto si lasciò cadere sul pavimento gelido.
Lo trovò in questa bizzarra posizione sua madre la mattina dopo quando venne a svegliarlo.
Non riusciva più a capire cosa passasse per la testa di suo figlio e questo la preoccupava, le sembrava così distante in quelle ultime settimane.
Aveva provato di tutto, ma nulla aveva funzionato.
Scosse delicatamente Andrew e lui aprì gli occhi guardandola attraverso quegli occhi verdi spenti che le facevano stringere il cuore.
《Buongiorno》Esclamò la madre con un sorriso mentre il figlio si alzava dolorante da terra.
《Giorno》rispose solamente lui avviandosi a pezzi verso la cucina.
Dieci minuti dopo essersi preparato e aver preso il suo zaino, stava correndo fuori di casa.
Quel luogo lo opprimeva fin troppo e aveva bisogno di un po' di respiro.
Andrew iniziò a correre, respirando a pieni polmoni quell'aria mattutina e per un brevissimo attimo si senti quasi...bene.
Si fermò nei pressi di un parco e i suoi occhi furono subito attirati da una vecchia panchina e un sorriso amaro comparve sul suo volto stanco.
Poi una voce:《È stata tutta colpa tua》
Si girò, ma non vide nessuno.
Doveva esserselo immaginato.
Ma qualunque cosa fosse, diceva una verità così vera e allo stesso tempo così terribile che lui voleva solo allontanarla sempre di più da sé.
Sentiva di nuovo quel peso dentro immerso stavolta in sensi di colpa sempre più dolorosi.
Scosse la testa superando il parco.
Doveva smettere di pensarci.
Doveva smettere di pensare a lei.
Immerso in questi pensieri arrivò davanti a scuola.
《Oh guarda, lo strambo》 commentò ridendo Davide.
Andrew non rispose, continuando a camminare, ma qualcuno lo afferrò per il braccio.
《È vero ciò che si dice in giro? 》 chiese con un sorriso malefico l'altro ragazzo. 《Che hai paura di ogni cosa e i tuoi genitori non sanno che fare? Che stupido.》
I ragazzi vicino a loro iniziarono a ridere mentre Andrew rimaneva immobile.
Non doveva ascoltarli.
Ma quando alzò lo sguardo verso Davide, trattene per poco un grido.
Il volto non era più quello del ragazzo che lo prendeva in giro, ma il suo.
Anzi tutti avevano il suo volto.
I suoi capelli neri contornavano quegli innocenti occhi marroni che si erano spenti quella notte di qualche tempo prima.
Basta.
Doveva smettere.
Lei era morta e lui non ci poteva fare più nulla.
Perché doveva continuare a torturarlo in questo modo?
Che aveva fatto di male?
Anzi quello lo sapeva.
Se solo quel giorno lui fosse stato con lei, non sarebbe successo.
Era tutta colpa sua, come gli ricordavano quegli sguardi accusatori che lo stavano circondando.
Non ce la faceva più.
Era come un ritornello che gli risuonava continuamente nella testa, facendolo svegliare ogni sera urlando.
Un ritornello fatto solo di quattro parole: 《È tutta colpa tua》
Se lo sentiva ripetere continuamente, ogni santo giorno.
Il ragazzo crollò in ginocchio e la realtà sfumò ancora di più.
Improvvisamente divenne tutto buio, c'erano solo i suoi occhi che lo cercavano ancora nell'oscurità e stavolta non aveva nessuna luce da accendere.
《Basta》 mormorò con la voce rotta.
《Non ce la faccio più》
Andrew si raggomitolò su sé stesso mentre quel buio lo circondava sempre di più.
E finalmente dal giorno dell'incidente il suo volto era inondato dalle lacrime che bagnavano il suo collo e la maglietta.
Forti singhiozzi scossero il suo corpo stanco mentre lui lasciava andare tutte quelle emozioni che si teneva dentro da quel giorno.
Era tutto maledettamente nero.
E a volte non esiste più neanche la luce in fondo al tunnel.
Ci sarà sempre e solo la notte.
Un grido pieno di rabbia e disperazione uscì dalla sua gola mentre i suoi singhiozzi non accennavano a fermarsi.
Non si era mai sentito così tanto solo.
Non era ormai niente per nessuno.
Era tutta, tutta colpa sua.
《No》
Improvvisamente una voce invase il suo universo buio.
《Non è stata colpa tua》
《Sì, che lo è.》Sentiva il suo stesso cuore andare a pezzi, frantumarsi mentre dalle labbra uscivano queste rotte parole.
《No》
Qualcuno lo afferrò, stringendolo stretto a sé mentre il buio intorno a lui cominciava a sparire.
Andrew alzò lo sguardo verso la luce che aveva i suoi stessi bellissimi occhi e il mondo tornò ad avere i suoi colori.
《Andrew! Ti sei svegliato.》Il caldo abbraccio della madre lo fece sentire per un attimo al sicuro, vivo, anche se in quel letto di ospedale.
E forse aveva capito ora.
Ci sarebbero state sempre persone che in un modo o nell'altro se ne sarebbero andate, ma loro nel suo cuore ci sarebbero state sempre.
Perché sarebbero state sempre con lui, solo in un modo diverso.
Appena tutti quelli che erano venuti a vederlo uscirono dalla stanza, Andrew si diresse alla finestra, lasciata semi-aperta e, preso un foglio da un tavolino, costruì uno di quegli aereroplanini di carta che a lei erano sempre piaciuti tanto.
Respirò profondamente mentre l'aereo di carta prendeva il volo nel cielo azzurro di quel giorno.
Il ragazzo seguì il suo percorso finché non sparì alla sua vista, gli occhi luminosi come non lo erano da tempo.
Poi sorrise, finalmente in pace.
《Addio Camille》
Num. 7
LaVampy
Che ero strano lo sapevo da tempo, o meglio lo sospettavo. Vivere con quella sensazione che non riuscivo a togliermi dalla testa. L'unico trent'enne al mondo che non si faceva la doccia in palestra, ma preferiva puzzare di sudore e rischiare una polmonite, ma farla a casa, al sicuro da tutto e da tutti.
Non che non ci avessi mai provato, anzi, all'inizio era quasi un'abitudine, avendo orari particolari a lavoro mi capitava di andare in palestra o alla mattina presto o alla sera tardi. E spesso le docce erano deserte, ma non quella sera. Non la sera in cui capii definitivamente che in me, c'era qualcosa di sbagliato . Quando vidi il corpo di James, il meccanico della ditta per cui lavoravo, nudo sotto la doccia, e un dolore all'inguine quasi mi piegò in due. Quella fu la prova definitiva.
Al lavoro avevo salvato le apparenze, mi occupavo di gestione del personale di una grande officina di mezzi industriali, e il mio ufficio era un piccolo porto di mare: lamentele, cambi turni, buste paga sbagliate, ferie. Tutto in mano a me. Circondato da poster di donne ammiccanti totalmente nude che sorridevano felici, scatenando i peggiori commenti dei meccanici e clienti.
Ma il corpo nudo di James, mi perseguitava di notte, ad ogni ora. Mi bastava intravederlo per eccitarmi come un ragazzino in piena crisi ormonale. Avevo cercato di porci rimedio con internet e per un apio di sere era bastato, ma non riuscivo a togliermelo dalla testa. Forse dovevo cambiare lavoro: un finocchio non dichiarato innamorato del capo officina etero, e in attesa del terzo figlio. Dio, che fallimento. Ero un fallimento, aveva ragione mio padre. Non avrei mai concluso un cazzo nella vita, e che diavolo, aveva ragione. Aveva sempre avuto ragione.
Sono un fallimento, ecco cosa sono: un mezzo uomo, o forse nemmeno mezzo. Un essere senza senso. Avevo pure smesso di rispondere alle telefonate di mia madre. Ogni volta la stessa domanda: quando ci porti a pranzo la tua ragazza? Ah vero, non l'avevo detto, e non potevate saperlo: ma oltre ad avere l'ufficio tappezzato di donne nude, avevo anche mentito a mia madre inventando Sandy. Perché era più semplice mentire, con tutti, che affrontare il mio demone interiore. Anche se ero stanco di nascondermi, di vivere una vita non mia. Di accompagnare i colleghi negli strip club, ubriacandomi ogni volta. Volevo solo essere me stesso. E questo mi spaventava a morte. Ogni giorno si leggevano sul giornale di uomini picchiati, insultati o peggio: diseredati dalla propria famiglia. Io non ero coraggioso come loro. Io ero semplicemente io: il più grande fallimento. E la notte sentivo la mia coscienza ridere, alimentando il fuoco del demone dentro di me. Cosa mi restava in mano la mattina? Solo i segni della notte insonne, e le battute dei miei colleghi sulla presunta donna che mi aveva tenuto sveglio tutto la notte. Oh come sarebbe stato tutto, dannatamente, più semplice se solo fossi stato normale. Perché io normale non lo sono. Non lo sono mai stato.
Poi all'improvviso un giorno, mentre correvo ad un ritmo sostenuto, con la musica che mi spaccava le orecchie, incrociai gli occhi neri più belli che avessi mai visto. Il ragazzo mi sorrise, alzando la mano e arrossendo appena. Inciampai nei miei stessi piedi, imbarazzato corsi negli spogliatoi afferrando la tuta e scappai verso la fermata della metropolitana. Ero un coglione, ma del resto lo avevate già capito. Cosa era successo in quella palestra? Per voi nulla, per tutto. In quei pochi secondi mi ero immaginato normale. Avrei atteso che il ragazzo si avvicinasse, mi togliesse le cuffie e mi baciasse, lì davanti a tutti e io sarei stato l'uomo più felice del pianeta. Invece ero stato solo in grado di scappare dall'unico posto dove riuscivo a sfogare la mia rabbia. E ora, come ci sarei ritornato? E il mio demone sogghignava, lo sentivo ridere mentre affondava gli artigli nel cuore, maciullandolo.
Toccai il fondo quella sera, attaccandomi ad ogni bottiglia presente in casa, l'unico obiettivo era cancellarmi dalla mente chi ero. Ero sbagliato e non potevo andare avanti così. Continuai a bere, fino a scordarmi come mi chiamavo, ma per quanto bevessi per poi correre in bagno, la sensazione di impotenza non mi lasciava. Ero un perdente. Ero un fallimento e forse, era meglio se sparivo. Avrei smesso di soffrire. Mi alzai con un mal di testa assordante, chiamai il lavoro dandomi malato, era la prima volta in cinque anni che mi prendevo un giorno di malattia. Afferrai il barattolo delle Aspirine, presi la bottiglia e tracannai un sorso di Vodka. Calmai il respiro, permettendo così allo stomaco di abituarsi senza vomitare per l'ennesima volta, mi lasciai cadere sul divano.
Mi svegliai alcune ore dopo, la bocca impastata ed amara. Lo sguardo cadde il mio portatile per terra, la pubblicità di un locale lampeggiava insistente, illuminando la stanza buia. Lo raccolsi. Forse era un segno del destino. Forse l'universo cercava di dirmi qualcosa. Non seppi nemmeno come, ma mi ritrovai due sere dopo, davanti alla porta del locale. Ogni volta che qualcuno entrava o usciva, il vociare divertito, l'aria di festa mi attirava. E il mio demone gemeva, impaurito, mentre prendevo coraggio e passo dopo passo mi avvicinavo.
Quando varcai la soglia mi sentii attraversare da una corrente elettrica, osservandomi intorno non vidi nulla di sbagliato. Su un divanetto due ragazzi si stavano abbracciando, ascoltando la musica. C'era chi ballava sulla pista o chi semplicemente si guardava intorno, come lui. E per la prima volta in tutta la mia miseria esistenza, mi sentii in pace con me stesso. Lì in mezzo ad altri come me, ritrovai la forza, o forse semplicemente mi accettai. Ero gay e in me non c'era nulla che non andava. Ero speciale, e avrei combattuto per quello.
-Ciao, sei nuovo. Non ti ho mai visto-. Mi disse il barista quando mi servì la birra che avevo ordinato.
-Si. Ho appena accettato chi sono-. Gli risposi sorridendogli, felice di questo mio piccolo traguardo.
-Allora è una serata importante. La birra la offro io-. Si allontanò servendo il cliente successivo, come se nulla fosse.
La birra scorreva fresca, annegando io mio demone. Non avevo più paura, perché quando tocchi il fondo, non hai altra alternativa se non risollevarti. Passai una serata piacevole, conobbi altri ragazzi e tutti mi diedero consigli. Io giorno dopo avrei chiamato mia madre e le avrei detto tutto.
Io non sono un fallimento, sono un essere speciale e merito di essere felice.
Num. 8
Manuele9
Marinette crollò sulla chaise-longue che si trovava in camera sua mentre la sua amica Alya insisteva nel farle vedere l'ennesimo video di Ladybug, la supereroina di Parigi.
"Guarda, guarda, guarda" disse la mora mettendo il suo cellulare troppo vicina alla faccia della sua amica.
"Alya basta, sta diventando un ossessione per te...e una tortura per me" disse la corvina allontanando il dispositivo che per poco non la accecava.
"A volte mi chiedo come fai a sopportarla" commentò Nino, il ragazzo di Alya.
"Me lo chiedo anch'io, e poi ci sarà un motivo se Ladybug vuole tenere segreta la sua identità" rispose Marinette.
"Beh se conoscessi la sua vera identità, manterrei il segreto, potrei persino aiutarla e diventare sua amica" spiegò Alya.
"A proposito di amici, sai che giorno è oggi?" domandò Marinette.
"Il dieci Aprile?" rispose la mora.
"Si!" esclamò la corvina.
"Cosa ha di speciale?" chiese Nino incuriosito.
"Sono esattamente tre anni che io e Alya ci conosciamo" spiegò la corvina.
"Sembra solo ieri quando ci siamo conosciute" disse la mora.
"E visto che è un giorno speciale, ti ho preparato una cosa" disse Marinette raggiungendo la sua scrivania e aprendo un cassetto.
"Mi hai preso un regalo?" chiese Alya avvicinandosi a lei.
"Ta daa!" esclamò la corvina tenendo in mano un pacchetto avvolto da una carta da regalo blu.
"Oh non avresti dovuto" disse la mora afferrando il pacchetto e aprendolo velocemente "Wow una maglietta di Ladybug!"
La maglietta era interamente rossa e a pois neri, frontalmente c'era disegnato la supereroina di Parigi e dietro il simbolo della coccinella.
"È davvero fantastica!"
"Non è poi un granché" disse Marinette.
"Stai scherzando spero" pronunciò Alya, sapeva che il sogno della sua amica era di diventare una grande stilista e si vedeva che ci sarebbe riuscita.
Le due amiche si abbracciarono brevemente.
"Il mio regalo saranno i biglietti per il concerto di Jagged Stone" disse la mora.
"Sarebbe stupendo ma i biglietti sono esauriti da mesi" spiegò la corvina.
"Tu non ti preoccupare, so io come procurarmeli" rispose Alya.
"Sono invitato anch'io giusto?" domandò Nino.
"Sbagliato, è una serata fra me e Marinette" rispose la mora mettendosi a ridere insieme alla corvina vedendo l'espressione delusa del suo ragazzo.
-•-•-
Il giorno dopo, Marinette e Alya si stavano dirigendo verso l'uscita della scuola che era finalmente finita per quel giorno.
"Ehm...perché indossi quella maglietta?" le chiese la corvina notando che non era quella che aveva fatto.
La mora si fermò "Ho questa maglietta addosso perché ti ho portato questi" rispose mostrandole i biglietti per il concerto.
"OH! Ma è incredibile, come hai fatto a trovarli? Erano esauriti" disse Marinette con un enorme sorriso.
"Ehi ragazze, come mai siete così felici?" chiese Nino avvicinandosi a loro e Alya mostrò i biglietti anche a lui "Wow ma dove li hai presi?
"È quello che le stavo chiedendo anch'io" commentò la corvina.
"Li ho presi da Ivan" rispose la mora semplicemente.
Ivan era un ragazzo alto e grande, all'apparenza sembrava un bullo ma invece era il classico gigante buono e se avevi bisogno di qualsiasi cosa, lui l'aveva....al prezzo che richiedeva.
"Ma allora ti sono costati una fortuna" disse Marinette.
"Neanche un centesimo, li ho scambiati con la tua maglietta di Ladybug" rispose Alya.
Il sorriso della corvina svanì immediatamente a quelle parole "Gli hai dato la maglietta che ti avevo regalato?
"Beh non gliel'ho proprio regalata, l'ho scambiata per qualcosa che volevi e che potevamo fare insieme" spiegò la mora.
"Ma quella maglietta era speciale per me, ci ho messo una settimana per realizzarla, da te non me lo sarei mai aspettato" commentò Marinette iniziando ad arrabbiarsi.
"Ehm...ragazze" Nino sentì che l'atmosfera fra le due ragazze stava cominciando a diventare tesa.
"Senti, mi regali un altra maglietta e poi andiamo al concerto" disse Alya.
"Io con te non vado a nessun concerto"
"Oh adesso diventi ridicola"
"Tu hai riciclato un mio regalo, hai idea di quante volte sono rimasta incastrata nei fili di stoffa?" domandò la corvina sempre più arrabbiata.
"Non è colpa mia se sei un imbranata totale!" esclamò la mora facendole spalancare gli occhi.
Da quel momento la situazione precipitò, le due ragazze cominciarono a urlarsi contro e a insultarsi, Nino provò a calmarle ma venne zittito da entrambe con un sonoro "tu stanne fuori!"
Notando che stavano attirando l'attenzione degli altri studenti, Marinette e Alya uscirono dalla scuola, infastidite e sopratutto arrabbiate, prendendo strade separate.
-•-•-
L'indomani, l'atmosfera fra le due ragazze era ancora tesa e non migliorò quando Ivan ringraziò la mora per la maglietta.
Volendo evitare un altra discussione, la corvina se ne andò in classe.
Dopo essersi seduta e essersi calmata un po, riflette su questa situazione, Alya non la avrebbe mai ferita intenzionalmente, in effetti questa era la prima volta che litigavano da quando si erano conosciute.
Guardando la porta, vide la sua amica entrare in classe, loro sedevano allo stesso banco ma ora la mora esitò a sedersi.
Con un espressione arrabbiata, Marinette le fece cenno di sedersi.
"Marinette ascolta io-" Alya fu interrotta dall'abbraccio della corvina.
"Dispiace anche a me, ho capito che entrambe l'abbiamo fatto per far felice l'altra" le disse.
La mora sorrise "Amiche come prima?"
"No" rispose Marinette "Più amiche di prima"
Le due ragazze si abbracciarono di nuovo.
Fine seconda tranche
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro