Votazioni
Ecco i vostri testi.
Solo la metà di voi ha consegnato il proprio testo per cui questa vale come semifinale.
Vi ricordo che i vostri voti vanno da 1 a 5.
Le categorie da votare sono:
-attinenza alla trama;
-struttura e creatività;
-grammatica ed errori ortografici (più sono gli errori più il voto è basso).
Commentate accanto al testo da votare e specificate le categorie. Naturalmente non potete votare il vostro 😂
Non litigate per i voti perché ci saranno da sommare poi i miei.
Ed ora i testi.
I miei passi si susseguono veloci rimbombando in questo silenzio assordante.
Non so il giorno, l'ora ne tanto meno l'anno.
Un'epidemia ha sterminato l'umanità molto tempo fa e da allora credo di non aver visto più nessuno, probabilmente ci saranno altri superstiti nonostante io abbia molti dubbi su questo.
L'unico scenario che riesco a scorgere sono case barricate con assi di legno, molte delle volte rotte dato che i contagiati saranno entrati a cibarsi di chi c'è all'interno.
Ormai è molto tempo che non vedo nemmeno uno di loro: sono esseri abominevoli con gli occhi insanguinati che mangiano gli esseri umani.
Non so come sono riuscita a scampare da questo orrore ma tutti i miei cari non ce l'hanno fatta.
Mi butto a terra in questa strada di ghiaia e sabbia fissando il cielo e pensando a quando tutto era normale: il calore dei genitori, la normalità del lavoro, un banale abbraccio che ora mi sembra così lontano, così surreale.
Ripenso a mia madre e a mio padre, alle loro facce segnate dal tempo mentre mi sorridevano, a mio marito mentre mi stringeva a se, mentre mi diceva che tutto sarebbe passato e ai suoi occhi colmi di paura mentre un mutante lo divorava, la sua voce rotta che mi implorava di scappare, le sue urla.
Non avrei mai pensato che in un millesimo di secondo mi sarei ritrovata sola e colma di paure.
Sapete? Essere soli fa proprio schifo.
Nessuno ti considera quando parli o quando stai male. Nessuno si accorge delle tue lacrime o dei graffi sulle braccia, che ti sei fatto nel tentativo di proteggere tua sorella dall'ira cieca di tua madre. Perché è come se non esistessi.
Peggio ancora, inizi a prendere un po' di forma quando poco prima di una verifica qualcuno ha bisogno di una penna o di un foglio e si rivolge a te. Tu sei disponibile, devi averli per forza.
E quando ti ringraziano, magari con un bacio appiccicoso sulla guancia che sa di tabacco, o con una forte pacca sulle spalle, la tua evanescenza diminuisce ancora.
E tu sorridi, speranzoso. Credi che finalmente ora avrai un po'più di considerazione o degli amici.
Ti completi totalmente quando, durante il compito, inizi a sentire i sussurri, i bisbigli che dicono il tuo nome. " Ehi, mi dici la numero quattro? E la dieci?". Passano i primi bigliettini e i primi bianchetti, mentre il professore gira accigliato tra i banchi.
E tu li aiuti. È giusto così.
Alla fine della verifica, ti ringraziano. " Bella fra, dammi il cinque. Sei stato grande". Poco prima di tornare a casa lì saluti con un sorriso larghissimo: ti sei fatto degli amici!
Torni a casa e pensi alla giornata trascorsa, mentre i tuoi genitori litigano nell'altra stanza.
Il rumore dei piatti rotti e delle sedie capovolte non ti distrae. Sei sempre stato solo, a casa, la ora forse hai degli amici.
Il giorno dopo ti presenti a scuola: saluti tutti, ma nessuno risponde. Alzi le spalle, non ti avranno sentito, non c'è problema dai.
La stessa cosa, però si ripete giorno dopo giorno. Arriva l'altra verifica e di nuovo tutti gentili.
Tu nel frattempo inizi a scomparire un po'. A tornare evanescente.
Decidi di metterli alla prova: forse se non ti vedono per un po' si preoccupano.
Stai a casa due settimane, tanto tua madre è mezza ubriaca di là e non se ne accorge. Nessun messaggio. Nessuna chiamata.
Quanto torni in classe, niente è cambiato, solo un mucchio di compiti in più da fare e altre verifiche.
...
Avete capito perché essere soli faccia schifo?
Perché nessuno si rende conto di niente. Nemmeno quando decidi di farla finita. Una corda, delle pillole, un coltello. Un modo lo trovi.
Io l'ho trovato.
Continuavo a volere lui e nessun altro e non mi interessava che per tutto questo tempo mi avesse soltanto usata. Mi mancava e lo volevo con tutta me stessa. Volevo sentire la sua voce profonda, il profumo del dopobarba e i suoi baci che mi facevano infiammare tutto il corpo. Mi diceva sempre che non mi avrebbe mai lasciata e invece lo aveva fatto, di nuovo e di nuovo. Ogni volta io lo accoglievo con le braccia aperte pregando che non mi lasciasse più, ma infondo lo sapevo che non era così, ero io che speravo che lo fosse. Si sa la felicità si alternava con momenti di tristezza. E i miei momenti di felicità erano quando lui stava con me e quelli di tristezza quando lui non c'era. Tutti mi dicevano di smettere di perdonarlo come se non ci avessi provato, certo che lo aveva fatto, ma lui era più forte, era l'unico con cui mi sentivo completa e senza di lui non ero io, mi sentivo vuota e sola. Non mi piaceva usare la parola sola perché infondo cosa ne sapevo della solitudine. Se dicevo di essere sola ero anche una bugiarda perché non era così; avevo una famiglia e degli amici disposti a sacrificare molto per me, però non mi bastavano per colmare il vuoto che lui aveva lasciato e quindi usare la parola "sola" era un segno di ingratitudine ed un offesa a quelli che lo erano per davvero. E poi la solitudine che cos'era? O chi era? Come si faceva a capire se qualcuno era veramente solo o stava fingendo. La felicità si manifestava con un sorriso o una risata, la tristezza con il pianto, l'amore con le farfalle nello stomaco, la rabbia con qualche pugno o calcio o anche verbalmente, la paura con i batti che acceleravano e così via... Ma con la solitudine non riuscivo proprio a trovare niente. Cosa voleva dire essere soli infondo? Si poteva non avere qualcuno con sé e non sentirsi soli e avere un centinaio di persone con sé e sentirsi lo stesso soli. Ma poi cosa m'importava di che che cos'era o meno la solitudine, sapevo soltanto che lui non era qui con me e che senza di lui non ero niente. Ancora pensavo che non avrei dovuto permettere che le cose fra di noi arrivassero fino a questo punto. Era praticamente un punto di non ritorno perché lui sarebbe ritornato da me e io lo avrei ripreso. Un deja vu.
La casa era gremita di gente; non c'era una sola stanza che non fosse affollata da adolescenti ubriachi alle prese con i loro bicchieri di plastica rossa, colmi di birra scadente o alcool stucchevole alla fragola, o impegnati a scambiarsi saliva in modo disgustoso contro ogni superficie. Camminavo tra un ambiente e un altro della piccola villa come se le gambe si muovessero da sole, ero un automa, triste latta tra mille cuori pulsanti. mi sentivo come uno spettro, pallido e senza futuro, invisibile ali altri, testimone di quello che avrebbe potuto essere se qualcosa non lo avesse strappato prepotentemente alla realtà.
I miei amici mi avevano invitato per poter staccare la spina, allontanarmi dalla realtà per qualche ora, ritrovare lo spirito che si sposa alla mia età, ma io non la pensavo come loro. Sono andato alla festa per cortesia, per non deludere il loro genuino desiderio di aiutarmi, ma trovai presto un angolino in giardino dove potermi sedere e affondare la testa tra l'erba morbida, per avere un po' di silenzio.
Le stelle brillavano tutte quella sera, e il mio cuore si chiese se lei fosse li tra loro, mentre la mia mente continuava a torturarsi.
Nevicava. Non molto forte, i fiocchi scendevano leggiadri, morbidi ed eterei dalle nuvole grigie e si posavano sulla coltre di neve caduta durante tutta la settimana. Era una giornata così banale, vuota e anonima, come molte di quelle che erano state.
Uscì per incontrare il gruppo di studio di biologia alla caffetteria dietro l'angolo, vicino al parco dove andavo sempre da piccolo.
Una lacrima calda scese sulla mia guancia e cadde sulle foglie, come rugiada in primavera.
Passai un bel pomeriggio, tra una risata e l'altra, sorseggiando cioccolata calda e sgranocchiando friabili biscotti al burro. il tempo volò come se avesse consistenza e la sera era ormai scesa da un bel po' mentre la nevicata sembra mutarsi piano in tormenta. mia madre mi chiamò al cellulare preoccupata e si offrì di venire in auto a prendermi, nonostante casa nostra non fosse così lontano. cercai infatti di rifiutare, ma lei fu irremovibile. La aspettai per un'ora intera, quasi due, colme di telefonate senza risposta e segreterie telefoniche, ma lei non arrivò mai. La sua auto era uscita fuori corsia ad un centinaio di metri prima del parco, a causa del ghiaccio, e si era scontrata contro un autobus che le veniva incontro.
La festa sicuramente aveva fallito nell'intento dei miei amici, ma ero contento di essere li, a fissare le stelle, perché mi ricordavano i momenti più belli che avevo passato con mia madre, anche i litigi sembravano meravigliosi, e avevo bisogno di ricordarla. Ne avrò sempre bisogno. Il suo ricordo era come linfa vitale, diede un po' di consistenza a quello spettro vagante tanto da farlo alzare dal prato. Non stavo tornando alla festa però, tornavo a casa da mio padre e dal mio gatto, per mangiare i toast che mamma faceva sempre la domenica sera e guardare un film, per ottenere quell'agognato sprazzo di normalità e di condivisione che inseguivo, per dare allo spettro il futuro che brama, partendo dalla cosa più bella ed elementare che avevo: la mia famiglia.
Buona fortuna a tutte!
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