Votazioni
Per queste votazioni non ci sarà la categoria "attinenza alla trama" e i miei voti saranno visibili nei commenti.
Ecco i testi della finale:
È da quando sono piccolo che non faccio che pensare a come sarebbe il mondo se qualcosa fosse andato diversamente, e continuo a pensarci ancora oggi, con trentacinque anni di vita, una cattedra di letteratura e un libro che non smetto di rigirare tra le mani.
Ho sempre amato leggere, e questa peculiarità mi ha inevitabilmente portato ad incrociare la strada del mondo letterario, nonostante le prospettive di carriera emergenti che hanno tutte a che vedere con il mondo delle tecnologie e del progresso scientifico; io ho preferito la vecchia carta ingiallita dei volumi stipati nella libreria di famiglia.
Qualche giorno fa ho letto un articolo sulla scienza e su come sarebbe molti passi più avanti se grandi risorse come, per esempio, la Biblioteca di Alessandria non fossero andate perdute, lasciava intendere che la cultura avesse perseguito in favore della scienza stessa.
L'articolo mi ha lasciato con la sensazione di dover far trasparire il messaggio anche ai miei studenti, così ho preparato per loro una lezione a riguardo.
Il commento di uno di loro, quando avevo suggerito di trovare una soluzione, mi ha lasciato per ore su questo divano a pensare.
"Professore dovrebbe trovare una macchina del tempo e un estintore"
Voleva essere un commento prettamente goliardico, ma si dia il caso che io conosca qualcuno che può davvero procurami una macchina del tempo, di questi tempi non è poi così difficile.
Le tecnologie sperimentali sono numerose e se uno dei tuoi più cari amici lavora proprio sulle ultime sperimentazioni, allora hai buone possibilità di viaggiare anche tu.
Si dice già che il prossimo passo, dopo i weekend estivi sulla Luna e le crociere in orbita, siamo proprio i viaggi temporali.
Avevo chiamato Trevor e avevo chiesto di poter utilizzare uno dei suoi prototipi. Aveva opposto un po' di resistenza, ma lo avevo convinto a farmene usare uno; ero certo di dover andare ai laboratori, ma mi aveva assicurato di poter portare la macchina direttamente alla mia porta.
Così mi ritrovo seduto qui, teso come una corda di violino, ad aspettare il suono del campanello.
Quando sento il suono alla porta, corro ad aprire.
"Will, dovresti chiamarmi più spesso per un'azione illegale"
"Non è illegale"
"Non se possiedi qualunque diritto su questo giocattolino"
Trevor mi da una pacca sulla spalla ridendo ed entra nel mio appartamento.
A volte non mi capacito di come il suo carattere da eterno Peter Pan vada a nozze con la sua mente brillante.
"Allora? Dove?"
Lo ammetto. Sono un po' nervoso, ma non vedo l'ora. Trevor prende qualcosa dalla tasca interna della sua giacca e lo appoggia sul basso tavolino in vetro al centro della stanza.
È un oggetto molto piccolo per essere una macchina del tempo futuristica: è solo un cilindro in metallo.
Non riesco a non guardare in modo scettico il mio amico.
"Trevor? Sei sicuro di stare bene"
"Oh amico, io sto benissimo"
Lo vedo premere un piccolo tasto sul cilindro e posarlo sul pavimento.
L'oggetto inizia ad espandersi davanti ai miei occhi come fosse sotto l'effetto di qualche incantesimo.
In pochi minuti il cilindro raggiunge le dimensioni di un essere umano, con una porta che si apre davanti ai miei occhi.
È una capsula.
"Dentro trovi un display, devi solo compilare i campi vuoti. Will, io ripongo molta fiducia in questo progetto, ma è tutto ancora in fase di sviluppo per il momento, sei la prima persona a testare la macchina. Io non vorrei che..."
Il suo tono è diventato così serio da fare quasi paura.
"Trevor, andrà benissimo."
Mi sorride.
"Dovresti indossare qualcosa di più pratico. Hai ancora il costume di Indiana Jones di quel carnevale al liceo?"
Ammetto di averlo quasi ucciso con lo sgaurdo, il carnevale di quell'anno fu il peggiore della mia vita, e lui ne è perfettamente consapevole dato che condividemmo l'esperienza.
Mi scuso con lui e vado ad indossare qualcosa che non sia una tuta di una marca inesistente in quel periodo: opto per un pantalone chiaro e una casacca color panna. È il meglio che sono riuscito a procurare.
Raccolgo quelle ricerche che avevo stampato da Internet e le conservo in una tracolla, insieme ad una bottiglia d'acqua, potrebbe servire. Non mi disturbo a portare il mio cellulare.
"Indiana Jones era molto meglio"
"Sì sì, adesso spiega come funziona dopo"
"Il viaggio non dovrebbe essere movimentato, ma non so in che condizioni meteo sarà la zona. Appena esci dalla capsula premi quel pulsante in basso e il cilindro tornerà di piccole dimensioni, non perderlo, non prima di tornare almeno. Per il resto, devi solo inserire le coordinate geografiche e temporali nel display, è facilissimo"
Annuisco convinto ed entro nella capsula, le pareti sono così sottili.
"Ah, giusto. Metti questo."
Mi passa una piccolo cerchio plastificato. In controluce si possono quasi vedere dei piccoli filamenti argentei."
"Devi metterlo sulla tempia, aderirà da solo. Ti aiuterà con le barriere linguistiche, a meno che tu non conosca l'antico egizio."
Poggio il cerchio alla tempia destra e lo sento premere contro la mia pelle, la zona inizia a bruciare un po', ma è sopportabile. Ricontrollo il punto in cui l'ho applicato, ma è scomparso del tutto.
"Quando lo premi contro una superficie viene assorbito facilmente"
"Geniale."
"Will, ricorda che sono le 18:37, ci vediamo tra un minito. Buona fortuna."
"Grazie Trevor, ci vediamo tra poco"
La parete della capsula si espande per chiudere la porta, poi un paio di secondi di buio, e subito dopo tutto si illumina di una luce azzurrognola.
Un display, rapido e intuitivo, mi chiede di inserire la destinazione.
Alessandria d'Egitto.
Un breve bip di conferma è seguito da una nuova schermata e un tastierino numerico.
Chiede data ed ora esatte.
Il primo incendio che colpì la Biblioteca Alessandrina fu nel 48 a.C, ma non causò molti danni, in seguito nel 415 d.C numerosi incendi la distrussero quasi totalmente, ma non potendo assaltare i muri in fiamme con un estintore, come il mio studente aveva caldamente suggerito, inserì la data.
1 Gennaio 415 d.C.; 05:30 AM.
Arrivare di mattina spero mi possa assicurare un po' di riservatezza.
Un altro bip di conferma mi avvisa che la macchina è pronta, ma è seguito da molti altri continui e sempre più vicini tra loro fino a fermarsi, poi la luce cambia in un colore verdastro.
Quando Trevor mi aveva assicurato un viaggio poco turbolento non immaginavo che non avrei avuto nemmeno l'impressione di muovermi. Era come non essersi mai spostati dal mio salotto.
Le luci si spengono e la parete del cilindro inizia a ritirarsi ricreando la stessa porta dalla quale ero entrato.
Fuori dalla capsula il paesaggio è mozzafiato, un sole rosso sta sorgendo dietro alte dune di sabbia smosse da un vento leggero.
Il contatto delle mie suole con la sabbia è sconvolgente, non tanto per la sensazione fisica in sé, quanto per lo straordinario evento che sta accadendo e per il suo forte significato: mi sono appena fatto beffa del tempo e dello spazio. È straordinario.
Provvedo subito a rimpicciolire la capsula e a conservarla nella mia tracolla.
Secondo le mie ricerche, e devo infinitamente ringraziare Wikipedia, nella prima metà del 415 d.C. numerosi tumulti ed assalti alla Biblioteca hanno distrutto quasi del tutto le sue raccolte. Ho letto anche del primo incendio avvenuto nell'età del grande Giulio Cesare, che però era stato domato prima di inghiottire altro che non fosse il deposito di alcuni volumi pronti al trasferimento.
La capsula mi ha condotto fino al confine di Alessandria: le sue mura si ergono alte e nascondono ad occhi esterni la città bassa, ma alcuni templi e santuari si ergono al suo interno e svettano verso l'alto.
Non riesco a vedere la porta delle mura, quindi inizio a camminare, affiancandomi ad esse.
Il mio orologio segna le 06:15 quando incontro qualcuno.
È una ragazza bassina con la carnagione olivastra, non riesco a intravedere di più per via di uno strato di stoffa che le cade morbido sulla testa e le copre un po' gli occhi.
Quando incrocia il mio cammino alza lo sguardo accorgendosi della mia presenza.
Ha gli occhi neri come la pece.
Ha un velo di paura nello sguardo e indietreggia di poco.
Piano vedo però la paura scemare e lasciar posto alla curiosità.
"Dove hai preso quegli abiti?"
Non so cosa risponderle, per un attimo, poi mi accorgo di capire perfettamente quello che dice. Parla la mia lingua e la parla in modo perfetto, il congegno di Trevor deve rielaborare i dati e tradurli automaticamente. Confido che abbia le stesse funzionalità per i suoni in uscita.
"Non ci crederai mai"
La ragazza sorride, sembra fidarsi del mio ottimismo.
"In ogni caso non riuscirai ad entrare in città da solo."
Mi capisce, funziona tutto perfettamente.
"Potresti per favore aiutarmi tu..."
"Amira. Il mio nome è Amira, e posso aiutarti, straniero."
"Sono William, e grazie"
Io e Amira percorriamo ancora un piccolo tratto di strada prima di arrivare alle mura.
"Da dove vieni quindi?"
"Da occidente"
Annuisce, ma è poco convinta; sembra un tipo molto scaltro.
"E sei qui per..."
"Ricerche, semplice diletto personale. Ho sentito molto parlare della vasta collezione di libri custodita ad Alessandria"
"Tutti ne hanno sentito parlare, ora resta in silenzio e lascia parlare me"
Amira inizia a camminare a passo spedito e disinvolto, ed io la seguo a ruota, tenendo il suo passo. Passa accanto alla guardia all'ingresso e fa un cenno di saluto che imito anche io.
"Ragazzina chi è questa persona?"
"È uno studioso dell'Occidente, è venuto in visita ad Alessandria per conferire con Ipazia."
"Garantisci tu, Amira?"
"Certo Madu"
"Andate dai"
Amira ringrazia la guardia in fretta e procediamo nel cammino.
Alessandria è una città dalle mille risorse, molto popolata e ridente , piena di numerose strade che pullulano di banchi di piccoli commercianti e con una meravigliosa risorsa costituita dal mare.
"Amira, perchè hai nominato proprio Ipazia?"
"Ipazia è una persona molto saggia ed influente nell'ambito culturale di questa città. Chiunque sia davvero uno studioso non può fare altro che conoscere ed ammirarla, tanto da venire qui dall'Occidente per conferire con lei. È anche una donna molto simpatica, devi conoscerla"
La sua non è una domanda e lei non esige, né aspetta, una risposta. Prevedo che conoscerò presto la famosa Ipazia.
È stata una grande scienziata del mondo antico, a capo dal 393 d.C. della scuola alessandrina sulle scienze mediche e matematiche, nominata e raccontata in molti antichi romanzi, e le si devono scoperte ed invenzioni quali quelle dell'aerometro, dell'astrolabio piatto e dell'idroscopio.
Camminiamo attraverso la città per una buona mezz'ora e di tanto in tanto Amira si ferma a conversare con qualche mercante. Ci fermiamo davanti una modesta abitazione: era divisa in due piani con un piccolo cortile dopo la cinta di ingresso; era di un colore rossiccio, con due piccole finestre al piano superiore. Nel cortile erano stipati dei contenitori per il grano e alcuni per l'acqua. I recipienti mi fanno ricordare la fine imminente della mia unica risorsa d'acqua, la bottiglia portata da casa.
"In fondo alla strada c'è un piccolo pozzo, ti serve dell'acqua, riempi questa"
Mi stava porgendo una borraccia in terracotta, con il tappo in sughero.
"Grazie"
"Torna qui poi, devi ancora spiegarmi cosa vuoi combinare davvero"
Avevo subito capito che Amira non era poco intelligente e di certo aveva un ottimo intuito. Credo che avere una guida in città sia la cosa migliore che potesse capitarmi; decido di potermi fidare.
Alla fine della strada trovo un piccolo pozzo, come lei aveva detto, e tirando su l'acqua con un ottimo sistema di carrucole riempio la borraccia.
Tornato da Amira, la ragazza non si disturba nemmeno a pormi ancora la domanda, si limita a fissarmi dall'altro capo del tavolo con aria di attesa.
"Non crederai mai a quello che io ti dirò"
"Farò uno sforzo, dai"
"Io vengo davvero da Occidente"
"Ma..."
"Ma dal futuro"
La sua faccia mutò dall'incredulità al divertimento, fino a ridere di me.
"E perché sei tornato proprio qui, viaggiatore del tempo?"
"Voglio impedire che la Biblioteca venga distrutta"
Nel suo volto nasce un'espressione di puro orrore.
"Stai scherzando vero? Posso accettare la storia del viaggio e tutto, ma se stai scherzando su una cosa così seria..."
"Nel mio tempo, si narra della grandezza della Biblioteca e delle numerose raccolte che conteneva, e si narra anche come andò distrutta completamente a causa di numerosi incendi."
"Ma c'è già stato un attacco, secoli fa. È stato sventato prima che colpisse l'interno, e da allora la Biblioteca è trattata con molto rispetto da tutti."
"Evidentemente non da tutti."
"Dobbiamo dirlo a qualcuno."
"Forse Ipazia potrebbe aiutarci"
Amira mi trascina per le strade di Alessandria, con la sabbia che entra nelle scarpe e a volte anche negli occhi.
Raggiungiamo un'altra abitazione, molto simile a quella di Amira.
Nel cortile una donna sta stipando dei cesti di grano in un angolo per far spazio a degli strumenti che non avevo mai visto.
La donna indossa una lunga veste bianca, ha dei lunghi capelli castano chiaro tenuti lontani dal volto da una treccia che le cinge la testa, ha la carnagione più chiara rispetto a quella tipica di Alessandria e i suoi occhi sono di un verde scuro brillante, acceso da una scintilla di genialità, e velato da uno strato di esperienza, come se quegli occhi fossero più vecchi della donna che li sfoggia.
Non si è ancora presentata, ma quella luce nelle iridi smeraldine mi fa dire che la famosa Ipazia è di certo lei.
"Amira, cara, ero convinta che la nostra lezione non fosse prima di domani"
"È esatto, maestra, ma avevamo urgente bisogno di parlarti"
Ipazia colse subito l'avvertimento nello sguardo di Amira.
"Entrate"
La seguiamo dentro casa, anch'essa piena di oggetti, strumentazioni, rotoli e rilegature.
"Amira, cosa è successo?"
"Quest'uomo è William, ha qualcosa di molto urgerte sulla quale avvertirti."
"William è un nome molto curioso"
Il tono della sua voce è pacato e indagatore.
"Sì, è un nome parecchio moderno."
Quasi sorrido al pensare quanto sia estremamente moderno per loro.
"Ipazia, ho sentito parlare molto della vostra intelligenza e conoscenza, e spero che anche la vostra mente sia tanto aperta quanto ho sentito. Sono venuto a conoscenza di alcuni fatti, che vorrei evitare che accadano, che riguardano la Biblioteca di Alessandria."
"Sta per arrivare qualche carico scomodo per la Biblioteca?"
"Lei è troppo intelligente per interpretare la mia inquietudine come per un semplice carico scomodo"
Ipazia mi sorrise, in modo enigmatico ma anche estremamente sincero. Stava forse apprezzando il mio spirito d'osservazione.
"Parlate chiaro, William. Sono sicura che se la cosa è davvero così grave, allora non c'e tempo da perdere"
"Ipazia, la Biblioteca brucerà e verrà distrutta prima dell'ottavo giorno del mese di Marzo."
"Come siete venuto a conoscenza di una cosa simile?"
"Lo so perchè da dove vengo io è già accaduto. Vi prego di credermi se vi dico che vengo da un futuro lontano "
Gli occhi della donna adesso si accendono di una luce in più, trepidazione forse, ma il suo volto è anche carico di terrore e apprensione.
"Non sono molto certa sul credervi o no, ma non posso permettermi di ignorare questi sospetti e di lasciare che un rischio così alto gravi sulle mura del più grande centro culturale del mondo. Andrò e parlerò con qualcuno che possa intervenire il prima possibile, spero che il re in persona mi riceva. Voi raggiungete la Biblioteca, visitate i suoi scaffali, ma prima presentate al sovrintendente il mio nome e riferitegli che deve immediatamente trasferire al sicuro i tesori che custodisce. William, potreste essere più preciso sulle date degli attacchi?"
"Purtroppo non ho nessuna fonte certa sulle date"
"Come fate a sapere che l'attacco terminerà l'8 Marzo?"
"Non sono sicuro di potervelo dire, ma confido nella vostra saggezza. Ipazia, i tumulti termineranno con la vostra morte"
Il suo volto diventa un po' più teso, ma lei non si scompone.
"Bene, andate adesso"
Io e Amira camminiamo per una buona ora prima di arrivare davanti le porte della Biblioteca.
Il suo interno è abbagliante: da numerose finestere entrano raggi di luce che illuminano quasi ogni centimetro del posto, scaffalature alte fino al soffitto sono colme di rotoli e rilegature, qualche banco con degli sgabelli si posa al centro della stanza. Numerose scalinate si diramano dal basso, affiancandosi agli scaffali e grossi registri sono posati su un tavolo alla destra dell'ingresso. Dalla stessa direzione sentiamo provenire un colpo di tosse sommesso.
"Posso esservi utile?"
Quello che immagino essere il sovrintendente è un vecchio saggio rugoso, con dei piccoli occhietti azzurri e vispi.
"Siamo venuti ad ammirare la Biblioteca e a riferire un messaggio al sovrintendente per conto di Ipazia."
"Dite pure"
"Ci ha pregato di riferirle che deve assicurarsi che i tesori della Biblioteca siano messi al sicuro immediatamente."
"Potete assicurarle che sono ben custoditi"
L'uomo sembra non fidarsi di noi, ci si rivolge quasi con ostilità.
"Ha detto che i tesori che custodisce devono essere trasferiti al sicuro. Penso intendesse ancora più al sicuro."
L'uomo storce un po' il naso e arriccia le labbra.
"È molto grave?"
"Si."
"Bene, sarà fatto. Leggete un po' e godetevi i volumi, ma vi prego di riporli al loro posto."
Il sovrintendente non ci da nemmeno il tempo di rispondere che è già andato via.
Iniziamo ad esplorare la Biblioteca salendo i gradini e leggendo i cartellini identificativi delle rilegature mano a mano che le dita sfiorano quella carta così antica.
Per anni sono stato affascinato dei vecchi libri dei nonni, ma questo supera ogni aspettativa che avevo su questa esperienza, sulla quale mi sono gettato a capofitto, senza nemmeno riflettere.
La luce delle finestre mi investe e, insieme alla forte emozione, mi fa sudare i palmi.
Spendo più di un'ora dentro quel posto, e sarei rimasto ancora per molto se non fosse per Amira, che insiste per andare a consumare il nostro pasto.
Prima di uscire mi accorgo che alcuni banchi adesso ospitano alcuni studiosi vestiti con lunghe tonache color panna e con la schiena china sui loro studi.
Non ho idea di quando inizieranno gli attacchi, le notizie che ho trovato non recano dati precisi se non che sono avvenuti durante quest'anno e sono terminati con l'aggressione e l'assassinio di Ipazia, ma di certo colpiranno il morale di queste persone, che dedicano la loro vita agli studi per l'umanità.
Il pranzo è semplice e modesto, consumato a casa di Amira. Conosco anche la sorella, Azale: entrambe si dedicano alla cultura e all'apprendimento.
Dopo pranzo Amira si offre di mostrarmi anche il porto di Alessandria, non molto lontano dalla Biblioteca.
Grandi e piccole imbarcazioni sostano al porto e marinai di buona lena caricano e scaricano casse di merci da esse.
Anche il porto è popolato di mercanti che vendono pesce sotto sale o oggetti per la pesca e per la cura delle navi.
Sulla punta più estrema il faro svetta verso l'alto, squadrato e imponente.
Le persone passeggiano lungo la strada, soprattutto donne che accompagnano i propri bambini a conoscere la vita del porto o magari per rivedere il buon vecchio padre marinaio; sono sicuro che la notte le strade sono altrettanto popolate.
Amira si ferma in un baracchino per comprare due boccali di una bevanda.
Ne sorseggia un po' invitandomi a fare lo stesso. Ha un sapore un po' amarognolo, ma con un retrogusto dolciastro e una nota fiorata, è leggermente frizzante e alcolica.
Mi ricorda molto qualcosa, ma non sono mai stato un grande estimatore dell'alcool.
Un'immagine però si fa strada nella mia mente fulminea, e mi lascia entusiasta.
"Ma questa è birra!"
"Noi non la chiamiamo così, ma la ricetta deve essere sopravvissuta fino ai tuoi giorni se l'hai riconosciuta."
Credo proprio che la ragazza si diverta a prendersi gioco di me, infatti se ne sta a ridere mentre mi guarda bere la mia birra, perché si, sono più che certo che sia birra nonostante il sapore grezzo.
Finito il nostro giro turistico decidiamo di informare Ipazia della conversazione con il sovrintendente e di sapere se avesse parlato con il re della situazione.
La donna ci accoglie in casa con il suo garbo, ci fa accomodare e ci offre un infuso di erbe che, dopo la strana birra, ci tocca rifiutare.
"Maestra, il sovrintendente era un po' reticente, ma lo abbiamo convinto a provvedere come aveva detto. Ha poi conferito con il re?"
"Fortunatamente il re oggi ha potuto ricevermi, e mi ha promesso un altissimo livello di sicurezza alle porte della Biblioteca e anche al suo interno. La rete di amministrazione è molto vasta, e gli addetti sono numerosi. Verranno tutti sottoposti a dei controlli, come anche chi vorrà accedere."
"È fantastico Ipazia, grazie infinite"
"William non dovete ringraziarmi, non è stato un favore nei vostri confronti, quanto più un dovere personale. Permettetemi una domanda da curiosa quale sono."
"Dite pure."
"Avete detto che venite dal futuro e da Occidente. Non parlate la nostra lingua lì, suppongo; eppure conversate con noi tranquillamente usando un linguaggio perfetto. Posso chiederle come è possibile?"
"È un particolare dispositivo che è stato integrato alla mia mente."
"Posso chiederle anche come è possibile che lei sia qui? Capisco che le nostre tecnologie si saranno evolute moltissimo nel futuro, ma come è possibile che abbiate viaggiato nel tempo e nello spazio?"
"Ho usato una capsula, non so dirle altro. È un processo che nemmeno io conosco, ideato e messo a punto da un mio caro amico. Io sono solo un insegnante di letteratura."
La donna sorrise emozionata all'idea di questo enorme passo avanti della quale è venuta a conoscenza.
"Vuol dire che noi antichi non conosceremo mai la gioia di esplorare il passato e le nostre origini."
Sorrido alla donna e quando inizia a conversare con Amira della relazione di alcuni concetti matematici e altre filosofie moderne, mi congedo aspettando la mia compagna di avventure nel cortile.
Mi perdo a pensare e a sperare che il preavviso che hanno ricevuto sia abbastanza per evitare la catastrofe.
"William, dovremmo andare"
Amira mi posa una mano sulla spalla per attirare la mia attenzione.
Io le rivolgo un sorriso e mi incammino seguendo i suoi passi.
Il tempo passato ad aspettarla mi ha lasciato anche da pensare sulla prossima mossa da fare.
Arrivati a casa le spiego la mia idea.
"Amira, io penso di aver concluso in quest'epoca, per il momento almeno.
Avevo però pensato di tornare, e sarei molto felice di poterti incontrare di nuovo."
"Quando devo tornare a prenderti?"
Le sorrido, enormemente grato.
"Andiamo"
La conduco nel punto in cui ero arrivato quella mattina. È stata una giornata straordinaria, e spero darà i suoi frutti migliori.
"Ci rivediamo qui, Amira. Il quinto giorno di Marzo, quando il sole è allo Zenith."
Lei annuisce.
"Ti dispiace se assisto alla partenza?"
In risposta esco il cilindro dalla tracolla e, poggiandolo sulla sabbia, premo il pulsante che mia aveva indicato Trevor.
La capsula si espande, e gli occhi di Amira si riempiono di rispetto e incredulità.
Entro nell'abitacolo e la saluto con un gesto della mano che lei ricambia.
Il portello si richiude, la destinazione è già settata sull'ultimo inserimento, la data è da modificare.
5 Marzo 415 d.C.; 12:00 AM.
Con Trevor non avevamo parlato di altri viaggi prima di quello del ritorno, ma devo prendere a carico questo rischio.
Pochi istanti dopo la capsula si riapre ed io rivedo la luce.
"Adesso non ho proprio dubbi, uomo del futuro. William, è stato incredibile."
Mi accorgo solo ora della presenza di Amira, a pochi passi da me, che mi guarda con la stessa incredulità con cui l'ho lasciata pochi istanti prima, ma per lei sono passati mesi: indossa degli abiti diversi e i suoi capelli sono molto più corti.
"Che hai fatto ai capelli?"
"È passato del tempo, li ho tagliati dall'ultima volta che ci siamo visti."
Lo ha detto come se fosse una cosa ovvia.
"Per me sono passati solo una manciata di secondi, permettimi di essere un po' stranito"
"Secondi? Davvero così poco?"
Ridiamo entrambi.
"Aggiornami Amira, e non darmi cattive notizie."
"Ci sono stati due incendi, ma nulla di grave. Sono stati spenti subito e non hanno fatto molti danni. Non sanno spiegarsi come sia potuto succedere."
"Ipazia?"
"Sta bene, ma è molto preoccupata. Sta dedicando quasi tutte le sue risorse per capire l'origine degli incendi, ma sembrano quasi essersi generati da soli."
"Capiremo meglio. Posso vederla adesso?"
Arrivammo a casa sua il più presto possibile.
La donna che mi trovo davanti è molto più magra di quando l'avevo vista l'ultima volta, il colore dei suoi capelli si è spento e i suoi occhi hanno perso un po' della loro vivacità anche se conservano ancora quell'aria saggia.
"Ipazia. Sono felice di rivederla."
"Anche io, William. Non avremmo mai presi quei focolari in tempo se non li stessimo aspettando. Ti dobbiamo molto."
"Non mi dovete nulla. State bene?"
"Sì, non preoccupatevi. È solo colpa di un po' troppa apprensione e qualche ora di sonno mancante. Posso offrirvi dell'acqua di miele?"
Questa volta accetto la sua offerta: la bevanda ha il sapore dolce del miele e un leggero accenno di lievito. È uno degli idromele più buoni che io abbia mai assaggiato, non che siano stati molti in realtà.
"Ipazia, io spero di non avervi sconvolto l'ultima volta che abbiamo parlato degli attacchi?"
"Si riferisce forse alla mia morte?"
È molto diretta, troppo. Bevo un sorso del mio idromele con disagio.
"William, io non temo la morte. Di certo vorrei che la mia vita durasse ancora, ma se non posso sfuggire al destino che mi attende, non tenterò di scappare da esso."
"Vi ammiro molto, sapete?"
"Molte persone dicono di ammirare la mia saggezza o la mia arguzia oppure ancora la mia intelligenza. Io non ne dubito, ma dovreste ammirare la vostra persona prima, perchè tra voi non c'è nessuno che, pur di umile scuola, non abbia nei suoi occhi una scintilla di saggezza."
"Siete ricordata e ammirata anche nel mio tempo. Nel futuro si continua a fare il suo nome a scuola, e i giovani più curiosi svolgono ricerche sui suoi studi. È stato davvero bello potervi conoscere e, se devo essere del tutto sincero, anche la bellezza è una virtù che possedete."
Le sue guance si sono leggermente arrossate, ma lei non perde la sua compostezza, si limita a sorridere e ringraziarmi, dando poco peso al suo aspetto.
Dopo aver scambiato alcuni convenevoli con Ipazia, ed essere stato ancora una volta affascinato dalla sua intelligenza e cordialità, decido di voler rivedere la Biblioteca.
Amira si offre ancora una volta di accompagnarmi, ormai la sua è ufficialmente la figura costante in questo viaggio attraverso il tempo, e le sono infinitamente grato per la sua compagnia e per il suo aiuto.
Un sole pallido illumina la strada che percorriamo, tutto è al suo posto ma qualcosa mi suggerisce che dall'ultima volta che sono venuto qui le cose sono cambiate.
"La gente ha paura, gli attacchi hanno lasciato un'ombra di timore sul tetto delle case di queste persone."
Amira deve essersi accorta del modo in cui mi guardo intorno mentre camminiamo.
"Tu sai perché vogliono darle fuoco?"
"No, non ne ho idea. Ma dobbiamo evitarlo."
Nel giro di poco arriviamo davanti le porte della maestosa Biblioteca.
Due guardie all'ingresso ci fermano per il controllo.
Temo che uno di loro possa chiedermi di svuotare la mia tracolla, non saprei come spiegare il piccolo cilindro, le pagine stampate e una bottiglia di plastica.
Una delle guardie sta per parlare, ma la testa del sovrintendente che sbuca dal suo fianco gli assicura che abbiamo più che buone intenzioni e che garantisce per noi.
Esulto mentalmente con tutta la gioia possibile, ma mi limito a ringraziare semplicemente l'uomo prima di addentrarmi nella biblioteca.
Oggi nessuno dei maestri che avevo visto la scorsa volta è seduto al banco, è completamente sgombro se non per qualche pergamena e qualcosa che somiglia ad un tagliacarte e gli sgabelli sono abbandonati lungo il lato.
Un ragazzo sta trasportando dei rotoli in una cassa da spostare e, appena finito, la trascina lungo la stanza fino ad un ingresso laterale.
Inizio a girare per quelle scale, come l'ultima volta. Ho sempre adorato sfiorare la carta, senza aprire il volume, come se contenessero segreti inviolabili.
Dopo un po' mi accorgo che Amira non è più al mio fianco, ma sta dialogando con l'anziano sovrintendente; lei mi da le spalle, mentre posso vedere bene l'espressione dell'uomo segnata dal tempo.
Nel giro di pochi secondi l'uomo si allontana con le guardie.
Il portone si chiude pesantemente e Amira si volta a guardarmi, ma il suo volto non è sconcertato quanto il mio, è rilassato e la sua voce è gelida.
"William, mi dispiace molto, ma non posso permetterti di tornare indietro ancora. Deve essere fatto."
Non riesco a comprendere il significato delle sue parole fino a quando non apre uno dei pugni che teneva lungo il fianco e lo apre davanti al suo viso.
Sul suo palmo danza una piccola fiammella che le illumina gli occhi di una calda luce e li trasforma in gelide ombre di quelli che avevo conosciuto.
Corro giù per le scale verso di lei, spaventato, e la fiamma inizia ad espandersi.
Lei apre anche l'altra mano, divide il fuoco tra le due e allarga le braccia.
Entrambi i suoi palmi si incendiano e muovendo le mani il fuoco distorce le figure.
Mi accorgo della sua voce: sussurra piano delle parole che nemmeno il mio traduttore futuristico riesce a riportarmi.
I suoi occhi si chiudono e i miei si spalancano di terrore.
"Amira, stai prendendo fuoco"
"È il fuoco della Dea che alimenta la mia vita. Sono stata chiamata a questo."
"Quale Dea? Amira non puoi farlo. Ti prego, fermati."
Il caldo nella sala diventa insopportabile, la mia fronte inizia a sudare e i miei occhi a lacrimare.
"AMIRA"
Urlo il suo nome, ma è quasi come se il crepitare della fiamma superasse il volume della mia voce.
"Questo posto nasconde qualcosa di oscuro, di incomprensibile. Lei non può permettere che le rubino il suo trono, Lei ha investito la mia anima del potere del fuoco perchè io possa porre fine all'inizio di un era di tragedia."
"Chi è lei, Amira?"
I suoi occhi si riaprono, ma al posto delle orbite bianche due profonde ossidiane ardono riflettendo le fiamme.
"Anupet, protettrice delle anime defunte al fianco di Anubi, sta proteggendo il suo regno e la sua gente. Nessuno prega in suo nome, nessuno erige templi in sua memoria, ma lei siede sul trono e le anime la acclamano come loro regina e la chiamano madre. Io ho conosciuto la mia regina molti anni fa e lei mi ha donato una seconda vita per difendere i miei fratelli e tornare da lei."
"Cos'è che minaccia il trono di Anupet?"
L'ossidiana mi guarda senza parlare, è silenziosa e potente. Il fuoco sta risalendo lungo le sue braccia, ma non le divora la pelle.
"AMIRA DIMMELO"
"QUESTA BIBLIOTECA È STATA BENEDETTA DALL'OSCURITÀ. IL SEGRETO DELLA VITA ETERNA È STATO NASCOSTO QUI PER SECOLI. COME PUÒ ANUPET GOVERNARE SE LE SUE ANIME NON POSSONO PIÙ RAGGIUNGERLA?"
Il segreto della vita eterna.
Un brivido mi percorre le vene e fa tremare le mie mani.
Una scoperta di questo calibro è la rivoluzione della fisica e della metafisica.
Una Dea dei morti, una ragazza in fiamme e il segreto della vita eterna da distruggere.
Ho viaggiato fino a qui con le ali della scienza e adesso il mio cammino incrocia mito, religione e leggenda.
È la cornice perfetta per il mio viaggio.
"La prima volta che ho tentato quest'impresa, il mio corpo non era ancora pronto ad accogliere il fuoco della mia anima e la mia pelle mi ha tradita, consumandosi e uccidendomi. Purtroppo il fuoco ha solo scalfito la superficie.
Adesso sono pronta a tutto questo."
Il fuoco si estende al suo volto, scende lungo il suo collo e i suoi vestiti prendono fuoco diventando cenere; la sua pelle inizia ad assorbire le fiamme.
Quella che in poco tempo mi ritrovo davanti non è Amira ma una ragazza la cui pelle è un mosaico di colori: arancione, rosso e giallo in tutte le loro sfumature.
I suoi capelli sfidano le leggi della fisica, alzandosi verso l'alto, il suo corpo emana il calore di un enorme falò e i suoi occhi di ossidiana continuano a scrutarmi.
Io ho già raggiunto il salone quando lei volge lo sguardo al soffitto, e in un attimo comprendo meglio la situazione.
Sto per morire.
Lei non permetterà mai che io sopravviva. Potrei tornare indietro ancora e ancora fino a quando non l'avrò fermata, e lei deve aver calcolato l'alternativa.
Mentre il suo sguardo è ancora alto provo l'unica cosa che riesco a pensare.
Lei ha detto di essere morta la prima volta che ha tentato.
La Biblioteca non è ancora in fiamme.
Forse sta ancora finendo la sua trasformazione in arma letale.
Forse può ancora morire.
Prego con tutto il mio cuore che gli anni passati giocando a freccette siano serviti a qualcosa e con uno scatto afferro il tagliacarte sul banco e lo lancio nella sua direzione.
Vedo il suo corpo sollevarsi da terra, l'alone di calore espandersi e poi la lama entrare nel suo petto.
La prima cosa a tornare normale sono i suoi occhi, poi il suo corpo crolla sul pavimento, la sua pelle inizia a sbiadire, a perdere la tonalità del fuoco e un rivolo di sangue inizia a sgorgare dalla ferita aperta.
Mi prendo alcuni secondi per guardare il suo volto senza vita, per rimpiangere di aver ucciso la mia compagna di viaggio, prima di ricordare che lei era la causa indiretta di questa distruzione mentale che mi sta trattenendo qui.
Mi lancio verso l'uscita e ne spalanco le porte, poi corro a perdifiato attraverso la ridente, storica Alessandria e verso le sue mura.
Penso ad Ipazia: morirà tra pochi giorni ed io non posso neanche dire addio al suo genio innato e alla sua pura bellezza.
Arrivato al punto in cui ho solcato per la prima volta la terra di questo passato non esito ad aprire la capsula.
Vi entro, digito la destinazione, la data e l'ora esatta in cui tornare.
18:38.
Con i vestiti sporchi della cenere di quelli di Amira, la fronte e i palmi sudati e la mente ancora volta alle assurdità che ho vissuto oggi, non posso non pensare che l'incendio è inevitabile.
Amira è già morta nel tentativo ed è tornata una seconda volta.
Tornerà anche la terza, per completare l'opera, ed io non interferirò: l'incendio darà fuoco alla Biblioteca e la verita verrà insabbiata con un evento storico.
Il segreto della vita eterna è una delle più grandi leggende ed incognite dell'umanità, ma deve restare tale: se tutti ne approfittassero causerebbe sovrappopolazione, carestie, disordini, rivolte per i viveri e chissà cos'altro ancora.
Sarebbe una condanna piuttosto che un miracolo.
La parte più curiosa della mia personalità, d'altro canto, vorrebbe tanto sapere cosa è.
Immagino che anche i viaggi nel tempo debbano considerarsi pericolosi: oltre al fatto che ho appena rischiato la morte, se fossi davvero riuscito a salvare la Biblioteca, ignaro di ciò che custodisce, cosa ne sarebbe stato del mondo in cui sono cresciuto?
Niente grandi cambiamenti; devo suggerirlo a Trevor, magari lo inserirà nei termini e condizioni d'utilizzo.
Con un piccolo sorriso sulle labbra confermo i dati inseriti nella capsula.
Anteprima del racconto "Ermengarda"
Decimo mese 771 d. C.
Il cinghiale era grosso, imponente, con il corpo robusto rilassato e le zanne giallognole. Era in fondo a un basso pendio erboso e tendeva il collo tozzo verso le acque limpide del Mosa.
Carlo Magno e Efestione erano gli unici ad essere in groppa ai loro cavalli, mentre i battitori procedevano a piedi, le lance sguaiate.
Il rumore degli zoccoli, però, era attutito dal tappeto di foglie autunnali bagnate e i cani della muta, invece, erano addestrati al silenzio.
Forse per questo che il cinghiale non li sentì arrivare, o forse perché era troppo impegnato a dissetarsi per occuparsi di ciò che lo circondava, finché non fu troppo tardi.
Fu Carlo a vederlo per primo e lo indicò agli altri con un cenno del mento, prima di portarsi l'indice alle labbra.
Sfilò piano la balestra dal tascapane e incoccò la freccia.
Gaf s'irrigidì sotto di lui e raschiò il terreno, nervoso.
I cani furono più lenti. Reagirono solo quando udirono lo schiocco della corda e il sibilo del dardo che fendeva l'aria.
S'immobilizzarono sul posto, le teste alte, le orecchie dritte e le zampe pronte all'attacco.
Anche se il tiro non risultò perfetto, perché la freccia si piantò nella zampa posteriore dell'animale, il cinghiale lanciò un verso strozzato di dolore e cadde nel fiume.
L'acqua si colorò di rosso.
« Addosso!» urlò il re, mettendo via la balestra e impugnando la lancia di frassino.
Immediatamente i battitori mollarono i guinzagli.
I cani scattarono in avanti e i cavalli si lanciarono al galoppo dietro di loro, senza essere sollecitati.
Tagliarono in due il Mosa e saltarono sulla riva opposta.
Il cinghiale, che nel frattempo era riuscito a lottare contro la corrente e a uscire dal fiume, scomparve tra la vegetazione, lasciando una lunga scia di sangue dietro di sé.
Mentre Gaf scartava e saltava, facendo attenzione alle radici nodose che spuntavano dal terreno, Carlo chinava la testa sotto i rami bassi e seguiva con il proprio corpo i movimento del suo cavallo, gli stivali ben saldi nelle staffe e la schiena dritta.
Se c'era una cosa che amava della capitale del suo maestoso regno, l' Aquisgrana, era proprio la caccia. Perché uomini come lui erano nati per combattere. Per vincere sempre.
E siccome non c'era una guerra ogni anno, Carlo e i suoi uomini sfogavano nella caccia i loro istinti che, se ignorati, finivano per sfociare nella noia e rendere fiacco e pigro chi li aveva accuditi dentro il suo cuore.
Di solito uccidevano cervi, volpi e di tanto in tanto qualche raro lupo che aveva osato aggirarsi tra i confini.
Spesso, però, cacciavano anche i cinghiali, nonostante fossero più difficili da abbattere; non c'era molta carne nei maiali selvatici, ma era eccitante seguirli perché assicuravano sempre una bella battaglia.
Quando si trovava davanti a uno di loro, Carlo sapeva che non avrebbe vinto facile e quella sera sarebbe tornato a casa pieno di ferite e graffi. Ma sarebbe tornato orgoglioso di aver avuto la meglio su un animale grosso quasi il suo triplo.
Per questo colpì nuovamente i fianchi di Gaf, chiedendogli uno sforzo supplementare, la lancia protesa davanti a lui.
Il cavallo balzò in avanti e divorò il terreno, lasciandosi alle spalle i battitori.
Ora lo vedeva.
E lo vedeva anche il suo braccio destro.
Il cinghiale si era creato un passaggio tra i cespugli e adesso correva lungo un sentiero in discesa, nonostante si stesse indebolendo minuto dopo minuto.
Prima che il re potesse ordinargli qualcosa, Efestione sollevò l'arco e scoccò la seconda freccia.
Il tiro stavolta fu più preciso. Il dardo, dopo aver descritto una corta parabola per aria, scese in picchiata e penetrò nel fianco dell'animale.
Il cinghiale ululò di rabbia e perse l'equilibrio, rotolando giù per il pendio erboso.
E in un istante i cani gli furono addosso.
Carlo strattonò con forza le rendini e Gaf frenò la sua folle andatura, un attimo prima di lanciarsi a sua volta giù per la discesa ripida.
Efestione si fermò al suo fianco.
« Mio signore ...» cominciò affannato « ... Do l'ordine di scagliare le lance?»
Carlo si deterse il sudore dalla fronte col palmo della mano e scostò con fastidio le lunghe ciocche fulve dal viso. Aveva perso il nastro nella corsa e ora i capelli gli spiovevano davanti agli occhi e si attaccavano dietro la nuca.
« No, aspetta. Vediamo cosa succede.»
Fece un cenno ai battitori che si affrettarono a disporsi ai lati dei due cavalli.
Poi guardò giù.
E strinse fino a sbiancarsi le nocche la lancia, pronto a tirarla in qualsiasi momento.
Il cinghiale, nonostante sanguinasse copiosamente dalle numerose ferite che la muta gli aveva inflitto e da quelle provocate dalle frecce, lottava con energia disperata contro frotte di cani che lo assalivano instancabili da ogni parte.
Ma Carlo capì che non sarebbe riuscito a resistere ancora a lungo.
Il sangue scorreva a rivoli sulle foglie secche e i suoi attacchi di difesa si facevano sempre più deboli.
Ancora qualche secondo e quel maiale selvatico sarebbe stramazzato al suolo e i battitori avrebbero avuto via libera per dargli il colpo di grazia.
O forse il colpo di grazia glielo avrebbe dato lui stesso. Quel giorno fremeva dalla voglia di fare del male a qualcuno e a portare a casa l'ennesimo trofeo di caccia.
Voleva vedere l'orgoglio negli occhi della sua giovane moglie. Quella moglie sempre malinconica e con il viso da eterna bambina, che solo quel mattino lo aveva supplicato di non andare a cacciare.
« Cosa ti hanno fatto quei poveri animali? Perché vuoi accrescere il tuo dominio anche su creature innocenti? Le cucine traboccano di cibo, perché vuoi uccidere ancora?» aveva esclamato agitando per aria i piccoli pugni. Era raro vederla animata davvero da qualcosa, lei che di solito stava sempre in silenzio e obbediva a ogni suo ordine senza alzare la testa.
Ma questo non era bastato a distoglierlo dal suo proposito. Anche se gli sarebbe piaciuto stare con Ermengarda e ricoprirla di baci, fino a perdersi, aveva comandato che gli sellassero il cavallo ed era uscito, salutandola solo con un veloce cenno del mento.
Ciò che sua moglie non capiva era che cacciava anche per lei. Era per farle vedere che di lui poteva fidarsi e che se si fosse mostrata orgogliosa non sarebbe stato un peccato. Era per farle vedere che l'uomo con cui si era sposata non era un debole e se qualcuno gli lanciava una sfida, non si faceva problemi ad accettarla.
Anche quando si trattava di uccidere animali in fuga.
Era anche una sorta di prova di coraggio.
Una prova di coraggio che lui avrebbe portato a compimento anche quel giorno.
Forse, finalmente, Ermengarda avrebbe smesso di vederlo come un assassino e un sadico e avrebbe cominciato ad apprezzare le sue doti. Forse avrebbe smesso di fuggire ogni volta davanti ai piatti, colmi di carne succulenta, che la servitù le metteva davanti e di restare sveglia la notte, singhiozzando come un bambina e rigettando perfino l'anima.
« Sire!»
Carlo sbatté le palpebre un paio di volte e tornò alla realtà, scacciando dalla mente l'immagine di sua moglie. A lei avrebbe pensato dopo.
Si girò verso Efestione, che fissava con cipiglio nervoso la scena sottostante.
Lo fece anche lui.
E vide.
Vide un cane lanciarsi contrò il cinghiale e mordergli una zampa.
Vide il grosso animale scrollarselo di dosso con una poderosa spinta che lo fece finire contro un albero.
Vide le zanne insanguinate rilucere alla luce del sole.
Vide il cinghiale scattare in avanti e la muta ritirarsi spaventata ai lati.
Lo vide avanzare, folle e furioso di dolore.
Lo vide correre.
Veniva verso di lui.
****
« Mia signora, vi prego non siate triste.» la supplicò Gemila, posandole una mano sul ginocchio ossuto.
Ermengarda sospirò e appoggiò la tempia alla parete, tirandosi le gambe al petto e sfuggendo al contatto della sua giovane dama di compagnia.
Non era colpa sua se era nata triste. Se i suoi occhi si riempivano facilmente di lacrime e se gli angoli della sua bocca erano costantemente piegati all'ingiù.
Non era colpa sua se la vita aveva deciso di strapparle la felicità, togliendole prima la madre e poi costringendola a sposare un uomo che non era minimamente interessato a lei.
« Perché non sorridete, mia signora? » continuò imperterrita la ragazza « Avete una vita meravigliosa, un marito coraggioso e tutte la dame del regno vi invidiano. Cosa vi turba, dunque? »
Tutto, avrebbe voluto rispondere, ma allo stesso tempo niente.
Quando suo padre, tempo prima, le aveva dato la notizia lei non si era opposta. Nemmeno nell'istante in cui aveva scoperto che sua sorella Ansberga sarebbe finita in un convento per il resto della sua vita. Non aveva detto di no, non aveva fatto i capricci né lo aveva pregato di non mandarla in sposa a un re che non aveva mai visto prima d'allora.
Nemmeno Adelchi, suo fratello, era intervenuto per far cambiare idea al loro intransigente papà.
Semplicemente aveva incassato le spalle, abituata a fare solo quello, e solo quando era stata al sicuro nelle sue stanze, protetta dal buio della notte e certa che nessuno l'avrebbe udita, era scoppiata in un pianto silenzioso.
E aveva pianto anche mentre era seduta sulla carrozza reale, che l'avrebbe condotta ad Aquisgrana, nascondendo il volto aggraziato dietro il ventaglio di piume di pavone.
Non capì mai il motivo di tutte quelle lacrime. Forse piangeva perché stava dicendo addio alla casa in cui era cresciuta fino d'ora. O forse perché era terrorizzata all'idea di finire in moglie a un uomo molto più vecchio di lei, violento e ingiusto, che avrebbe sfogato su di lei ogni suo istinto animale.
Ma poi aveva conosciuto Carlo e l'idea che si era fatta su lui e che l'aveva tormentata per giorni, era scomparsa. Cancellata dal vero Carlo che avrebbe sposato: non era eccessivamente avanti con gli anni, l'aveva trattata col giusto rispetto e aveva promesso che non l'avrebbe mai costretta a fare qualcosa che lei non avrebbe gradito.
Nonostante la bella impressione, Ermengarda aveva giurato a se stessa che non gli avrebbe mai donato il suo cuore e che sarebbe stata sua solo come moglie, ma mai come donna.
Poi qualcosa aveva cominciato a cambiare.
La gelida indifferenza iniziale, che li seguiva dal giorno del loro sfarzoso matrimonio, si era incrinata fino a sciogliersi del tutto.
Avevano cominciato a chiacchierare. Non come moglie e marito, quanto piuttosto due timidi amici.
Avevano cominciato a fare lunghe passeggiate a cavallo e a sedersi insieme sulle rive del Mosa.
La loro rigida lontananza si era accorciata fino a quando le loro mani si erano intrecciate insieme.
Poi avevano cominciato a scoprire l'uno il carattere dell'altra, a raccontarsi qualche sprazzo della loro infanzia, mescolando la realtà con una goccia di menzogna.
Carlo aveva preso a farla sorridere, per cancellare l'eterna malinconia dal suo viso; Ermengarda a supplicarlo di passare del tempo con lei.
Poi c'era stata la prima discussione, lei era scoppiata in un pianto a dirotto e suo marito l'aveva stretta a se.
Alla terza invece, l'aveva baciata sulle labbra.
Un gesto che era risultato veloce tanto quanto improvviso e sconcertante, dato che non era mai successo prima d'allora.
Ma dopo quello ne erano seguiti altri.
E infine Carlo l'aveva fatta sua. L'aveva fatta sua moglie, infrangendo così la muta promessa della ragazza. Perché Ermengarda, oltre ad avergli aperto il suo cuore, gli si era concessa anche come donna. Senza mai pentirsene.
« Mia signora?»
La giovane regina si voltò verso Gemila, che non aveva smesso per un istante di fissarla preoccupata.
« State bene?» domandò con la sua voce dolce.
Ermengarda si sfregò gli occhi stanchi e costrinse se stessa ad annuire.
Giusto per tranquillizzare la sua dama di compagnia e sottrarsi a quello sguardo pietoso.
« Sì. Andiamo fuori.» ordinò in un sussurro così basso da rischiare di non essere udita nemmeno da se stessa.
Si alzò e attraversò la stanza fino ad arrivare alla bassa porticina che dava direttamente sul terrazzo.
Però, prima di aprirla, il suo sguardo venne catturato dallo specchio rotondo appoggiato alla parete.
« Vai prima tu. Ti raggiungo. » mormorò distrattamente, rivolta a Gemila.
Non si voltò a controllare se se ne fosse andata davvero o se fosse ancora lì. Non le importava.
Abbassò la mano e fissò il proprio riflesso.
Ma non si riconobbe. La ragazza che la guardava tristemente dal basso non era lei.
I lunghi capelli biondi, acconciati in una morbida treccia e ornati con gemme preziose, non erano i suoi.
Il diadema delicato poggiato sul capo non le apparteneva.
Gli occhi spalancati, del colore degli abissi, erano di qualcun altro.
Lei era un'altra persona.
Solo che la vera lei era morta nello stesso istante in cui aveva permesso che le sue idee venissero ignorate e la sua dignità calpestata. Nello stesso istante in cui anziché dire di no e opporsi ai futili ordini di suo padre, aveva chinato la testa e accettato ogni cosa che le venisse imposta. Nello stesso istante in cui aveva deciso di condannare la sua coscienza per il bene degli altri.
La vera Ermengarda non esisteva più.
Al suo posto era rimasta solo una bambola di pezza che veniva lasciata in balia degli eventi.
La regina chinò il capo, ricacciando indietro le lacrime, e uscì sulla terrazza.
Le tre ancelle, tra cui anche Gemila, si zittirono appena la videro e si affrettarono a piegare le ginocchia in un piccolo inchino.
Ermengarda quasi non le notò. Avanzò sulle mattonelle di cotto e si appoggiò alla parete, osservando il panorama.
L' Aquisgrana si perdeva a vista d'occhio.
Scorse in lontananza la Cappella Palatina e la Cittadella e osservò assorta i contadini affaccendati, camminare rapidi per le strade acciottolate e i bottegai aprire le bancarelle.
Le sarebbe piaciuto svegliarsi un giorno e trovarsi nei panni di una popolana. Povera sì, ma sarebbe stata anche felice e libera. Libera da un amore non ricambiato. Libera da costrizioni e obblighi. Libera da un'esistenza ricca materialmente ma carente di relazioni vere.
Poi l'occhio le cadde sul fitto bosco che circondava il castello.
E lo vide.
Di solito odiava assistere alle scene di caccia, ma quel giorno ci fu un'eccezione.
Il cinghiale si era liberato dagli attacchi della muta e ora stava correndo come un forsennato verso suo marito.
II re se ne accorse troppo tardi.
« Carlo! »
****
Il maiale selvatico non riuscì a raggiungerlo.
Le lance saettarono sulla sua testa più o meno nello stesso istante in cui un grido femminile risuonò nel bosco e spezzò il silenzio.
Carlo si appiattì contro il dorso del suo pomellato e attese che quella pioggia mortale cessasse per pungolare i fianchi di Gaf e spostarsi di lato.
Il cinghiale non ebbe scampo. Crollò sul tappeto di foglie con un ultimo gemito di dolore, gli occhi spalancati e il sangue che ruscellava fuori dalle ferite.
Le lance lo colpirono quasi tutte contemporaneamente, a parte un paio che lo sfiorarono di striscio e basta.
Mentre i battitori correvano a sfilare le aste dal corpo ormai immobile dell'animale, Efestione tirò le rendini e affiancò il suo cavallo a Gaf.
Si tolse i guanti di cuoio e sfregò i palmi sudati sui calzoni di tela grezza.
« Allora, mio re, come vi è sembrata questa battuta di caccia? »
Carlo si passò una mano tra i capelli sporchi, scostandoli dagli occhi.
« Stancante, ma sono soddisfatto.» replicò con l'ombra di un sorriso sulle labbra.
Efestione sorrise a sua volta.
Per alcuni interminabili minuti il silenzio venne riempito solo dalle urla e dalle imprecazioni dei battitori che si affannavano a cercare un modo per sollevare il cinghiale, poi Carlo decise di spezzarlo.
« Hai sentito anche tu l'urlo? » chiese, senza riuscire a celare una punta d'affetto nella voce.
Efestione continuò a tenere gli occhi fissi sulla scena, ma come un cenno del capo gli fece capire che aveva sentito la domanda.
« Dovreste andare da lei, mio re. » rispose serio.
Carlo sollevò il viso e si schermò gli occhi dalla luce del sole con una mano.
« Pensi che...» esitò «... Lei mi ami? »
Non aveva paura di esprimere i suoi dubbi ad alta voce. Il suo braccio destro era più di un amico per lui. Era un fratello, soprattutto ora che Carlomanno non c'era più.
Era l'unico con cui davvero si apriva, l'unico che lo capiva, l'unico che era certo non l'avrebbe mai tradito.
Anche sua moglie, per certi aspetti, sarebbe potuta diventare la sua confidente, la sua spalla, ma non n'era in grado.
Semplicemente Ermengarda era troppo debole, troppo bambina, per riuscire a scavare in fondo al cuore di suo marito e capire i suoi timori. Troppo debole anche per occuparsi di se stessa.
Finalmente Efestione smise di guardare davanti a sé e gli dedicò tutta la sua attenzione.
« Tutti vi amano, mio re. Vostra moglie compresa. » replicò con una strana luce nello sguardo. Indicò la collina su cui si ergeva il palazzo reale « Guardate, mio re. La regina odia la caccia eppure ora sta assistendo dall'alto delle mura. Ed è preoccupata per la vostra incolumità. »
Carlo seguì la direzione del suo dito.
Era vero. Ermengarda era uscita dalle sue stanze e si aggrappava al parapetto di granito con entrambe le mani, quasi volesse buttarsi giù.
Era circondata dalle sue ancelle, ma lui vedeva solo lei.
Nonostante la distanza, gli sembrò quasi di leggere sul suo viso sentimenti contrastanti e di vedere una tempesta in quelle iridi cerulee.
Per la prima volta da quando l'aveva conosciuta, lui la vide bellissima.
La vide sua moglie.
Quasi avvertendo l'intensità dei suoi pensieri, Ermengarda sollevò un braccio e lo agitò per aria.
Carlo le sorrise.
Buona fortuna e buone votazioni!
Mrs. F
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro