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Ultima votazione

Ecco i due testi della finale.

saralt99

L'amicizia.

Credo sia sempre stata la cosa più importante, intorno alla quale è  vorticata la mia intera esistenza, più di qualunque altra virtù.

Ho sempre creduto e sempre continuerò a credere nei veri amici, non importa quante volte possano ferirmi.

Io ci credo.

È una delle poche cose di cui sono sempre stata certa, una delle cose che ho sempre voluto.

Volevo soltanto degli amici e, anche quando non vedevo soluzione, trovavo il modo di averli.

Perché sì, mi piace rendere felici le persone.

Verso i miei amici farei qualunque cosa perché, non so per quale motivo, mi fido di loro.

A volte perdo, a volte vinco, ma ho scoperto di essere spesso abbastanza brava a scegliere di chi circondarmi.

L'importante nell'amicizia è non arrendersi mai:

non importa quanti rifiuti riceverai dalla persona che hai di fronte.

Se credi che sia la persona giusta da farti amica, fattela amica.

Niente è facile, ma nulla è impossibile.

Questa frase ha sempre riassunto la mia vita in ogni modo.

Detesto arrendermi e amo vincere lealmente.

E in ambito di amicizia ho scoperto che spesso l'amicizia più difficile, quella per cui spesso pensavi che ti stavi solo complicando la vita, è quella che alla fine ne vale più la pena.

Te ne rendi conto anni dopo forse, ma te ne rendi conto.

Te ne accorgi solo quando vedi tutto intorno a te crollare e non vedi, tu che l'hai sempre vista in ogni cosa, la luce per risalire.

Allora spunta quell'amicizia tanto difficile, tanto complicata, che riesce ad alleviare ogni tuo dolore, ogni tristezza e ti rendi conto che, più di tutti, ci sarà sempre per te, qualunque casino tu faccia, anche a costo di affondare con te pur di salvarti.

Dicevano che l'amicizia è legata al bisogno, ma non è esattamente così.

Siamo legati alle persone perché abbiamo bisogno di loro, certo, ma è quando smettiamo di avercelo questo bisogno che dobbiamo renderci conto, se davvero teniamo a quella persona, se davvero c'è affetto.

A volte è così, non c'è altro che un bisogno, che può essere compensato da qualcos'altro da un momento all'altro.

Altre volte invece non c'è solo quello, c'è affetto e questa, solo questa è la vera amicizia.

L'amicizia è esserci l'uno per l'altro, voler solo vedere felice la persona che ti sta accanto.

E soprattutto non aspettarsi mai nulla.

Più ti fai idee su quello che potrebbe accadere, meno quella determinata cosa accade.

Lasciati stupire, cammina sicura nell'ignoto, apprezzando la bellezza del mistero.

E ti ritroverai a sorridere, a sorridere come una stupida, quando una persona ti dimostra che c'è, che ti vuole bene e che continuerà ad ascoltarti nonostante i suoi problemi.

Ho scoperto in questi ultimi tempi anche un'altra cosa:

A volte non sono le persone più estroverse, quelle che all'apparenza sembrano essere l'amicizia perfetta ad esserlo davvero.

È l'amicizia di quelli più chiusi, quelli che se fai un passo falso ti taglieranno le strade per sempre, quelli che, nonostante tutto, ancora è un miracolo se ti fanno un commento su come stanno davvero.

Loro sono l'amicizia più vera, più, per così dire, perfetta anche se non lo è affatto.

Diciamo, per definirlo meglio, che nessun'amicizia che ti rende felice sarà mai perfetta.

Perché anche la stessa felicità non è perfetta, è fatta di tanti errori, di piccole gioie che ti fanno sorridere.

Il sorriso, l'arma più grande che l'essere umano possa avere.

Un sorriso, un sorriso vero e sincero, può cambiare tutto, può letteralmente salvare una persona dal cadere nel baratro.

Non bisogna mai sottovalutare il potere di un sorriso, di un amico o semplicemente di un gesto gentile.

Possono sconvolgere del tutto la vita di qualcuno, possono aiutare la tua.

L'affetto porta affetto, non può portare odio.

Quindi se c'è una cosa da fare è credere in ciò che sogni, ma soprattutto non temere il rischio.

La vita stessa è fatta dal rischio, se non c'è, non è più vita.

Basta non arrendersi mai, anche quando tutto sembra essere un disastro completo e, in particolare, anche se ti sembra di non vederla, ci sarà sempre, sempre la luce in fondo al tunnel.

Credimi.

Lady_Of_Darkness99

Può la vita di un essere umano dipendere da una lampadina? Sì hai capito bene, una lampadina. Hai presente, no? Le lampadine. Quelle che si accendono e si spengono con un interruttore. Quelle che dopo averle usate si consumano in silenzio, morendo lentamente e facendo tornare l'oscurità. Quelle che compri in un negozio fatiscente a buon mercato. Quelle che non durano molto, ma almeno con la loro luce giallognola scacciano la paura e i demoni di una notte buia e tempestosa.

Ecco. Immagina, ora, che la tua esistenza sia legata a quella di una lampadina. Immagina di pagare qualsiasi cosa, anche del caffè in un bicchiere di plastica, con la tua luce. Immagina che ogni tua cattiva azione equivalga a una tacca che si spegne senza accendersi mai più.

Nel mio mondo non esistono soldi, paradiso o inferno. Esisti solo tu e la tua lampadina. Lei pensa, lei decide, lei ordina. Lei e basta.

Tu sei solo un burattino nelle sue mani.

Se all' improvviso lei decidesse che non sei abbastanza importante da meritare la vita, si spegne. Senza che tu possa farci nulla.

O se, al contrario, sei qualcuno, hai potere, ricchezza, fascino lei puoi brillare anche per l'eternità.

Non è giusto, vero? Ma è così che il nostro mondo è diviso: ci sono i Teyran , i potenti, e ci sono i Werio, i deboli. I primi dominano e i secondi obbediscono. I primi hanno tutto, i secondi solo loro stessi.

Perché ti dico questo? Perché ho bisogno del tuo aiuto. Non te lo chiederei se fossi una Teyran o se avessi deciso di lasciare tutto come prima. Se non mi fossi ribellata, ora non starei camminando sul filo del rasoio. Ma l'ho fatto e la mia lampadina sta diventando nera ogni giorno che passa.

...

La mia famiglia è Werio da generazioni. Siamo così deboli che la nostra media di vita non supera mai i quarant'anni. Mio padre si è spento due anni fa, mia mamma invece ha compiuto trentacinque anni lo stesso giorno in cui la lampadina di mio fratello si è consumata, tre mesi fa. Era nato da appena un giorno, ma a quanto pare non valeva abbastanza da meritare una vita, con dei sogni e delle speranze. Quando mia madre l'ha dato alla luce, nessuno si è illuso più di tanto: la sua lampadina era per metà già scura. Si è spento in silenzio, senza nemmeno emettere un suono e prima ancora che potessimo dargli un nome. Sul vaso che contiene le sue ceneri, infatti, è inciso solo: al bambino mai vissuto.

Mia madre avrebbe voluto chiamarlo Julian, come il papà, ma quando la sua lampadina si è scurita del tutto era talmente distrutta dal dolore da non riuscire a pensare a niente che non fosse il figlioletto cinereo che stringeva tra le braccia. Né io né il suo nuovo compagno siamo riusciti a consolarla. Ha pianto per giorni, riducendosi sempre più a un apatico scheletro vivente. E la sua lampadina ha assecondato il suo dolore, passando da giallognola a marroncina. Sia io che il mio patrigno sappiamo che continuando così, mia madre si spegnerà presto.

Io non voglio che ciò accada. Perché appena mia mamma si ridurrà in cenere, come il bambino mai vissuto, io comincerò a invecchiare. È sempre stato così e così sarà. Se tutti i componenti adulti di una famiglia si sono spenti o si stanno spegnendo giorno dopo giorno, allora anche i più giovani li seguiranno. Non importa che alla tua nascita la tua lampadina fosse luminosa, se gli altri muoiono muori anche tu.

Per questo ho deciso di dare una svolta alla mia esistenza e di iniziare a vivere, nel vero senso della parola.

Per questo ho deciso di salvare me stessa e mia madre da una morte imminente. Perché lei da sola non ce la farà mai, è troppo debole.

Per questo ho deciso di strappare il destino ingiusto che mi è stato affibbiato ingiustamente e di costruirne uno nuovo, ribellandomi alle stupide regole del mio mondo, alla mia famiglia e alla mia lampadina.

Per questo ho deciso di abbandonare i Werio e diventare una Teyran.

Perché io voglio vivere. Io devo vivere.

...

La mia lampadina si chiama Lia. Non so quale sia il motivo che mi ha spinta a darle un nome, so solo che mi sembrava giusto. Anche se lei non è giusta per niente con me. Ogni volta che infrango una regola, si rabbuia e perde luminosità. È molto severa. Se avesse un volto e un corpo umano, sarebbero sicuramente quelli di una vecchia donna scorbutica e bacchettona. Una vecchia ripugnante e acida.

Quando l'ho raccontato, una sera, a mia madre, sperando di farle tornare il sorriso, lei è impallidita e mi ha costretta a sciacquarmi la bocca e a chiedere scusa a Lia. Io, un po' per orgoglio un po' per testardaggine, non l'ho fatto. Peccato che il giorno dopo, per ripicca, la mia lampadina abbia annerito una sua tacca.

Se fossi stata una Teyran, lei non l' avrebbe mai fatto. I potenti non devono mai preoccuparsi delle loro parole o delle loro azioni.

A volte la odio. Altre la disprezzo. Non mi è mai indifferente. Più volte mia mamma ha tentato di farmi cambiare idea. Dice che noi dobbiamo amarle, venerare, riempirle d'attenzioni. Ma io non ci riesco. Come posso provare affetto per qualcosa che mi vuole morta? Che ce l'ha con me, per il semplice fatto che sono nata nella fazione sbagliata? Non ho chiesto io di essere Werio.

E Lia lo sa bene.

La cosa che mi fa più male è pensare alle possibilità che i potenti hanno. I Teyran sono pieni di opportunità, mentre noi non ne abbiamo nemmeno una. Loro possono diventare chiunque, noi dobbiamo solo sperare di restare noi stessi.

Perché il nostro mondo deve essere così? Perché non possiamo essere tutti uguali?

Perché i Werio devono pagarsi il pane con una tacca della loro vita, dicendole addio per sempre, mentre i Teyran possono permettersi qualsiasi cosa, senza mai consumarsi?

Mi sono sempre posta queste domande, senza mai trovare la risposta. E quando, una sera, ho provato a farle emergere, il mio patrigno mi ha dato uno schiaffo così forte da farmi finire a terra, il labbro spaccato e le lacrime agli occhi.

« Non dirlo mai più!» ha sibilato. E mia madre non mi ha difesa. Non mi ha coccolata, non ha cercato di farmi smettere di piangere. Semplicemente si è alzata dallo sgabello ed è uscita dalla cucina. Come se non bastasse, il giorno dopo ho scoperto che un'altra tacca di Lia se ne stava andando.

Dopo quella sera ho capito che non sarei mai riuscita a scoprire la verità, quella verità che ogni Werio o Teyran si ostina a nascondere sotto una coltre di indifferenza, se mi fossi appoggiata agli altri. Se lo facessi mi spegnerei subito. Senza nemmeno aver avuto una vita.

...

« Una likia grazie» borbotta il fornaio, fissandomi annoiato.

Con un sospiro di impotenza gli porgo il polso sinistro, cercando di non pensare al fatto che per vivere sono costretta ad uccidermi. Oggi mia madre mi ha mandata a prendere il pane. Sarebbe andata lei, ma io l'ho fermata. Con cosa avrebbe pagato se la sua lampadina è marrone?

L'uomo mi afferra la mano e passa un dito sulla sagoma evanescente di Lia. Ogni persona, Werio o Teyran che sia, ha la propria lampadina tatuata sul polso, zona che non è troppo vicina né troppo lontana dallo sguardo. Così nessuno si dimentica della sua sorte, dice sempre mia madre.

Io però non voglio ricordare ciò che mi aspetta. Io voglio cambiare ciò che mi aspetta.

« Una Likia è tanto... » mormoro sovrappensiero.

« Questa è la legge, ragazzina» Il fornaio mi lascia andare e avvolge le due pagnotte rafferme, che ho comprato vendendo me stessa, in un foglio spiegazzato di giornale.

Afferro la mia roba e biascicando un veloce e incomprensibile saluto, infilo la porta, fiondandomi in strada.

A quest'ora non c' è quasi nessuno in giro, fatta eccezione per qualche cane randagio e qualche bambino Werio, o forse è la zona che è poco frequentata. In fondo il mio villaggio è sommerso da paludi, acquitrini fangosi e rigagnoli sporchi.

I Teyran abitano nella parte alta della città, quella che ha tanti negozi e tanti supermercati. Quella che ha tantissimi parchi dove la gente può organizzare pic- nic o rilassarsi in tutta tranquillità su una panchina. Quella che è piena di villette lussuose e palazzi maestosi. Quella che noi Werio non meritiamo.

Mi stringo al petto le pagnotte, tiro su un lembo della gonna sformata e avanzo saltellando verso casa.

La strada non è lunga solo faticosa da percorrere.

Ma non faccio che due passi che vengo fermata da un uomo ricoperto di stracci.

Questo, se possibile, è ancora più Werio di noi. I capelli radi sale e pepe sono unti, incollati alla fronte e alla nuca, gli occhi velati, le labbra screpolate, il viso scavato. Non ha i piedi, i moncherini sbucano dai pantaloni sfilacciati. Non deve essere neanche tanto vecchio, ma considerando la sua situazione sembra quasi un redivivo fuggito dalla tomba.

Si trascina pesantemente fino a me e allunga un braccio sottile verso il mio viso. Spalanca la bocca per parlare, ma ciò che emette non sono altro che rantoli confusi e respiri strozzati.

Spaventata faccio qualche passo indietro, portandomi fuori dalla sua portata. Mi sembra innocuo, fragile, eppure non riesco a impedire al mio cuore di battermi impazzito contro la gabbia toracica e la bile bruciarmi la gola. Lui intanto continua a osservarmi, biascicando parole incomprensibili, e a tendere disperato una mano verso di me. Non riesco a capire cosa voglia né perché io non sia ancora scappata a gambe levate.

Forse sei ancora qui perché non ti fa paura, ma pena... azzarda una piccola parte del mio cervello. E mi rendo conto che potrebbe anche avere ragione. Guardo l'uomo disteso a terra e lottando contro una nausea crescente, faccio qualche timido passo verso di lui.

« Signore ...»

Fisso le sue dita adunche, allungate verso di me, e per una velocissima e minuscola frazione di secondo mi sfiora il sospetto che abbia fame e che voglia una delle mie pagnotte.

Le indico tremante « Vuole queste?»

L'uomo fa un verso rauco e si punta un dito contro il petto magro.

Mi allontano di scatto e scuoto con veemenza la testa.

« Io... io... non posso dargliele » balbetto addolorata, stringendole di più.

Fosse per me io gliele darei, ma non sono io a decidere.

Se condivido con lui anche una sola briciola, il mio patrigno mi riempie di botte. L'ha già fatto in passato, senza che mia madre mi difendesse. Mi guardava e basta. A volte piangeva, ma non è mai intervenuta contro la furia cieca e ubriaca del suo compagno.

Se, invece, non lo aiuto, Lia si arrabbia e se lo segna, scurendosi una tacca. Sarebbe una cattiva azione.

Ovunque guardi, vedo solo sbagli inconsapevoli, lacrime di punizione e vite sull'orlo del baratro.

Ma poi, forse casualmente o per distrazione, mi accorgo che l'uomo non sta indicando le pagnotte, bensì il mio polso sinistro.

E in un attimo capisco.

Mi getto a terra, accanto a lui, e gli afferro il braccio che aveva teso, scoprendogli la pelle. Le pagnotte mi scivolano in grembo.

« Oddio...»

La sua lampadina è quasi completamente nera. Solo un minuscolo e flebile balugino permette che la vita scorra ancora nel suo corpo e il suo cuore batta. Un minuscolo e flebile balugino che si spegnerà presto.

Guardo l'uomo negli occhi e vi leggo il terrore. Il terrore infimo e viscido di chi sa che sta per abbandonare il famigliare per l'oscuro. Il terrore di chi sa che sta per imboccare una strada buia e senza ritorno. Il terrore di chi sta per morire, ucciso dallo stesso oggetto che un tempo gli ha donato la vita.

« Cosa posso fare?!» chiedo in preda al panico. Panico perché per la prima volta mi rendo conto che ho a che fare con qualcosa di molto più grande di me e senza via di scampo. Panico perché so che se non faccio qualcosa quest'uomo si ridurrà in cenere davanti ai miei occhi.

Poi, all'improvviso, la mia mente viene solleticata dal soffio leggero e impacciato di un'idea. Un'idea disperata, malsana ma che forse potrebbe funzionare e salvare una vita.

Alterno lo sguardo dal mio polso a quello dell'uomo.

E decido.

Afferro il suo braccio e lo premo contro il mio. Pelle contro pelle. Lampadina contro lampadina.

L'uomo sgrana gli occhi stupefatto e io gli sorrido fiduciosa. Vivrà. Ne sono sicura. Gli sto trasmettendo la mia energia, l'energia di una ragazzina, è impossibile che muoia, mi dico.

I nostri polsi sfrigolano insieme, mentre si passano l'energia.

È impossibile che muoia.

L' uomo sorride speranzoso.

Sfrigolano, sfrigolano, sfrigolano. Sempre più forte. Sempre più veloce.

Poi, all'improvviso, lui urla di dolore e crolla a terra, il volto sepolto in una pozzanghera.

Io invece, vengo catapultata qualche metro più in là. Picchio la tempia contro un masso e striscio i gomiti sul terreno, ma il dolore non è tale da farmi svenire.

Mi riprendo quasi subito e, ignorando il violento giramento di testa, gattono fino all'uomo.

Le pagnotte sono finite in una pozzanghera, ma non m'importa. Voglio solo vedere se la mia idea abbia funzionato. Perché ne sono certa: la mia buona azione ha salvato una vita.

« Signore! Signore!» lo chiamo euforica « Ha funzionato!»

L'uomo però non si muove.

Turbata lo raggiungo e lo giro sulla schiena. Sbianco.

La gioia si trasforma in orrore.

« No...»

I suoi occhi sono spalancati, capovolti all'indietro. La bocca aperta in un grido muto e reso tale per l'eternità. Il viso si sta distruggendo da solo, formando crepe che diventano man mano sempre più grandi.

« No... no...»

In preda a un terrore gelido cerco il suo polso sinistro.

La nausea mi stringe la gola e il cuore mi muore nel petto.

La mia idea non ha funzionato. La sua lampadina è completamente nera.

L'uomo è morto.

« No!»

Ho ucciso una persona ....

Sconvolta guardo Lia, che ora brilla fulgida.

E scoppio in un pianto a dirotto.

La mia lampadina anziché aiutare il mendicante, l'ha ucciso, assorbendo anche il suo ultimo briciolo di energia, togliendogli anche l'ultima speranza di vivere.

La mia lampadina ha punito il mio spirito di ribellione sfogandosi su un'innocente, dopo aver fatto credere a entrambi che l'avrebbe salvato.

« Io ti odio!» urlo tra le lacrime « Mi hai sentita? Ti odio! Ti odio!»

« Ti odio....»

....

Appena varco la soglia di casa, mia madre e il mio patrigno mi precipitano da me.

Mi toccano dappertutto, mi sfiorano, ma non m'interessa. Non li vedo, non li sento, non esistono. Io sono qui, ma la mia mente è ancora là vicino a quel cadavere.

« Oddio tesoro.... Dove sei stata? »

« Perché sei tornata così tardi? Rispondi razza di scapestrata! »

Le loro voci si confondono e diventano sempre più ovattate.

Né il tono ansioso di mia mamma né quello scorbutico del suo compagno mi smuovono più di tanto.

« Non vuoi rispondere? Bene, ma sappi che non ti perdonerò così facilmente!» Il mio patrigno afferra le pagnotte e si allontana a passi larghi e indignati.

Mia madre, stranamente, non lo segue. Resta con me.

Mi solleva il viso delicatamente e mi accarezza le guance delicatamente, per la prima volta dopo mesi.

« Cosa ti è successo piccola mia... »

Il suo tono preoccupato unito al suo sguardo, non più freddo e scostante, sono sufficienti a farmi perdere ogni freno inibitore.

Scoppio a piangere per la seconda volta in un giorno e mi copro il viso con le mani.

Mia mamma d'impeto mi stringe a se « Ssh calmati ora. Dimmi che ti è successo»

Mi rendo conto che questa è un'occasione d'oro. La prima su mille. Mia madre non è mai stata una donna particolarmente empatica e dopo lo spegnimento di mio fratello ancora di più. Non si è mai preoccupata per me, non mi ha mai dimostrato affetto a parte quelle poche e rare volte quando ero bambina. Non è mai stata dalla mia parte quando il suo compagno mi ammazzava di botte. È sempre stata una donna debole, priva di forze e soggetta al destino. Ma oggi è come se all' improvviso si fosse svegliata e si fosse accorta di avere una figlia. Una figlia da accudire, crescere e a cui voler del bene.

Parlo senza riflettere e dico quello che mi agito l'anima da tempo.

« Sono stanca di essere Werio mamma. Voglio diventare Teyran»

...

Tutti dormono, fatta eccezione per me. Io sono sveglia, il sonno è solo un lontano miraggio.

Sono seduta in soffitta. Non faccio nulla. Non dico niente. Non penso a nulla. A parte, forse, fissare ammaliata il mio riflesso nel piccolo e impolverato specchio.

Ho il vuoto in teste, nel corpo e al posto del cuore. L'ambiente è rischiarato solo dalla luce di Lia. Dopo il gesto di oggi può illuminare tutta la casa. Ovvio.

Dopo aver espresso il mio desiderio ad alta voce, mia madre è sbiancata e ha sciolto l'abbraccio. È tornata la donna gelida e apatica di sempre. Mi ha definita pazza, folle, malata. Ha detto che a causa mia e del mio egoismo ci spegneremo tutti. Ho cercato di rifugiarmi di nuovo tra le sue braccia, ma lei ha scosso inorridita la testa ed è scappata via. Il mio patrigno per fortuna non mi ha sentita altrimenti mi avrebbe uccisa con le sue stesse mani.

Il gesto di mia mamma mi ha ferita molto. Ha aperto una voragine profonda nel mio cuore. Mi ha fatto capire che anche se mi ha messa al mondo, io non sono più nessuno per lei. Io sono diventata un'estranea.

Forse pazza lo sono davvero, ma sono determinata. Determinata a cambiare. Determinata a diventare una Teyran. Perché io sono stanca. Stanca davvero.

E stasera ho deciso di dare vita al mio desiderio nascosto e timoroso. Le parole smetteranno di essere solo parole e diventeranno fatti.

Fatti di vita.

Mi accarezzo con un dito il volto e osservo il mio riflesso storto, la testa inclinata di lato. È storto come me. Come la mia mente contorta che è ancora là vicino al cadavere dell'uomo. Storto come la mia lampadina.

Non ho bisogno di riflettere. Voglio cambiare e lo farò.

Lia cerca di mettermi in guardia, brillando a intermittenza. Mi parla. Dice che si arrabbierà se lo faccio. Dice che non so a cosa sto andando incontro.

Scuoto la testa « Ma certo che so a cosa sta andando incontro, mia cara» replico giuliva « Mi sto ribellando e tu non puoi impedirlo»

Lei inizia a emettere scintille rabbiose e mi brucia la pelle.

Una tacca diventa nera. Però non mi spaventa più. Anzi brucio di rabbia insieme a lei.

Tutto quello che mi è successo in questi anni mi torna in mente: lo spegnimento di mio padre, l'apatia e freddezza di mia madre, tutte le violenze e le botte che ho ricevuto ogni volta che aprivo bocca da parte del mio patrigno, i capricci della mia lampadina, mio fratello, l'uomo di prima.

Tutto in un unico e distruttivo pensiero.

Smetto di sorridere e lascio che la furia infiammi il mio corpo. Mi odio. Odio il mio riflesso, odio la mia condizione, odio la mia famiglia, odio Lia.

Sollevo un pugno e con un urlo disumano lo scagliò contro lo specchio.

Il vetro finisce in mille pezzi.

Non mi fermo. Ne do un altro e un altro ancora.

E ancora.

...

Mi fisso il polso e con un dito traccio il contorno di ogni taglio che mi sono procurata.

Rido. Non mi fanno male. Nemmeno un po'.

Il sangue non mi spaventa, è mio amico.

Lia quasi non si vede, ricoperta com' è da cocci di vetro e fiumi scarlatti. Però so che ormai ha perso ogni bagliore. Non m'importa.

Sia mia madre che il mio patrigno mi fissano orripilati, ma non osano avvicinarsi. Sono accorsi poco fa, quando ho fatto a pezzi lo specchio e da allora non si sono mossi né hanno detto una parola.

Sono rimasti zitti.

Sempre ridendo, mi giro verso di loro e sollevo trionfante il braccio sinistro.

« Visto? Ho vinto! Sono una Teyran ora! » esclamo.

Mia mamma si copre la bocca con una mano e scoppia in un pianto silenzioso, mentre il suo compagno mi fissa con la pietà dipinta negli occhi.

Li osservo interrogativa « Perché quelle facce? Non siete contenti?»

No non sono contenti. Nemmeno un po'.

Mi stringo nelle spalle e riporto lo sguardo sul polso.

Ho vinto.

Ho vinto.

Ho vinto.   


Ricordate di votarvi l'un l'altra in più ci sarà il mio voto nei commenti pubblico.

A presto e buona fortuna

Mrs. F

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