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4. Polpette


I genitori di Spencer venivano da una famiglia modesta: avevano investito tutti i loro risparmi per far studiare il figlio e non si poteva dire che non avessero fatto bene.

Atena stava sorseggiando un bicchiere di tè freddo con tanto di fettina di limone e fogliolina di menta. Davanti a lei, la signora Montgomery stava parlando del matrimonio. Era così emozionata e felice del fatto che suo figlio aveva finalmente trovato una persona per bene. Il che, tra parentesi, era strano, visto il carattere particolare di Spencer.

Atena la guardava e annuiva senza ascoltare e concordando con ciò che stava dicendo. Che ne avrebbe pensato lei, se avesse deciso di lasciare Spencer? Non l'avrebbe mai perdonata per una cosa del genere e non se la meritava.

«Quindi sicuro che non è un problema che la cena di prova non si terrà al tuo ristorante?»

La signora Montgomery si zittì: accidenti! Le aveva chiesto qualcosa...

«So che tuo padre ci teneva tanto...» continuò, sovrastando il suo silenzio.

Ah, stava parlando della cena di prova. Sì, il fatto che Spencer avesse deciso di non fare il pranzo del matrimonio al suo ristorante era stato doloroso come una freccia in pieno petto, per suo padre. Carmine era rimasto in silenzio e aveva incassato il colpo senza dire niente: se sua figlia voleva festeggiare in un ristorante più elegante del suo, allora avrebbe accettato la sua decisione.

Quello che Carmine non sapeva era che Atena avrebbe voluto festeggiare in famiglia, come avevano sempre detto fin da quando era piccola. Ma i colleghi di Spencer non avrebbero mai mangiato in quel posto.

Gli idioti.

«Non è un problema, no», si limitò a dire.

Lilian Montgomery guardò Atena per un lungo istante: era stanca, un enorme paio di occhiaie le circondava gli occhi blu, mettendone quasi in risalto il colore. Non aveva la faccia di una che era felice di sposarsi, anzi.

Le poggiò una mano sul ginocchio, attirando la sua attenzione. «Stai bene, Atena?»

La gola della giovane donna si strinse. «Sì, sì... bene.»

Atena guardò poi il pesante orologio appeso alla carta da parati fiorata del soggiorno: erano le quattro del pomeriggio, e quel sabato sera avrebbe dovuto aiutare a servire ai tavoli.

«Mi ha fatto piacere passare, Lilian...» disse, alzandosi. «Ma devo proprio andare a lavoro.»

La donna annuì e la congedò con un sorriso forzato, guardandola andare via. La seguì con lo sguardo fino a quando non raggiunse l'auto parcheggiata davanti a casa sua e si disse che era certa che ci fosse qualcosa che non andava. Decise però che si sarebbe fatta gli affari suoi: se Atena era indecisa sul matrimonio di certo l'ultima cosa che voleva era far saltare le nozze.

*

L'appartamento di Gray era minuscolo, una stanza scarna e triste. Non c'erano quadri appesi al muro, né tantomeno stupidi soprammobili o fotografie. Era un po' come se fosse ancora in prigione, con l'unica differenza che adesso non condivideva la doccia con un centinaio di altri uomini nudi e non era di certo un bello spettacolo.

Il divano gli faceva anche da letto e la cucina aveva a malapena il piano cottura, però era tutto pulito e aveva riverniciato le pareti, dando a quel buco un aspetto perlomeno vivibile.

La vista però, quella era uno spettacolo. Dalla grossa finestra del soggiorno che illuminava l'intera superficie vedeva un piccolo ristorante ad angolo con l'insegna verde, il cui proprietario era un uomo cicciottello con la faccia sempre felice. Tutte le mattine gridava a squarciagola quello che avrebbe cucinato, aggiungendo sistematicamente che tutto era 'fresco' o 'appena pescato'. La sera usciva sempre dal suo ristorante con una donna che teneva a braccetto – probabilmente sua moglie – e se ne andavano a casa per tornare l'indomani mattina presto e ripetere le stesse azioni.

In lontananza si vedevano i grattacieli del centro di Manhattan, ridotti ad una linea sottile e lontana. Guardare il paesaggio infinito davanti a lui, quello non gli dispiaceva. In prigione non c'era niente e fuori da questa c'era solo una massa informe di fango e abbandono che non lo aveva mai lasciato per tre anni.

Gray si sedette contro il vetro della finestra aprendola leggermente per respirare un po' di aria fredda e umida della sera: era il suo giorno libero e non aveva assolutamente nulla da fare.

Il suo cellulare cominciò a vibrare fastidioso sul piano della cucina e si alzò svogliatamente per andare a prenderlo. Quando lesse il nome sullo schermo rimase indeciso sul da farsi.

«Pronto?»

«Allora è vero», disse la voce di Andreas dall'altro lato del telefono. «Hombre, perché cazzo non mi hai chiamato? Sarei venuto io a prenderti!»

Andreas era il suo migliore amico. Dopo essersi fatto tre anni di prigione al posto suo, però, i loro rapporti si erano lievemente inclinati. O meglio: Andreas viveva divorato dai sensi di colpa e Gray un po' lo odiava e un po' lo odiava meno.

«Non ce n'è stato bisogno», rispose atono.

«Ma dove sei finito?! Perché non sei venuto da me?!»

Certo, così sarebbe riaffondato nella stessa merda in cui era caduto tre anni prima.

«Il tuo avvocato non è stato poi così bravo, hm...» rincarò. «Diceva di essere uno dei migliori di New York e poi...» parlava per guadagnarsi il suo consenso, non perché gli interessava davvero.

«Era già stato chiaro sul fatto che non avremmo vinto», rispose secco. «Se non fosse stato per lui sarei ancora lì dentro e tu saresti ancora lì fuori a inventare scuse per non venire a vedere la mia faccia.»

«Sai che...»

«Non importa», tagliò corto. «Quello che importa è che non voglio più saperne un cazzo né di te né di quegli stronzi che chiami amici. Buona vita e lasciami in pace», terminò, attaccandogli il telefono in faccia.

Promemoria, si disse: cambiare numero di telefono.

Si passò una mano a scompigliare i capelli, buttando il cellulare tra i cuscini del divano.

Gray guardò l'orologio: erano quasi le otto e stava morendo di fame. Aprì il frigorifero e ci trovò dentro un avanzo di pizza e mezza lattina di birra.

Si mandò al diavolo mentalmente quando il suo cervello lo portò in un posto specifico e dopo essersi insultato un paio di volte, si infilò sotto la doccia e si vestì per andare a mangiare qualcosa.

*

Karima era poggiata con il sedere contro il bancone e guardava tra i commensali per vedere se ci fosse qualcuno che avesse finalmente deciso che cosa ordinare da mangiare. Accanto a lei, Mila stava facendo lo stesso.

«Ma perché ci mettono tanto?» domandò Karima, spazientita.

«Perché il nostro menu è più lungo della saga di Harry Potter.»

Karima annuì in assenso.

«Sei più uscita con quel tizio?»

«Chi?»

«Quello del... pesce

Karima annuì.

Mila le diede una gomitata. «E?»

«E cosa?»

Una coppia in fondo alla sala sollevò il braccio per far vedere loro che avevano scelto cosa mangiare.

«Aveva un bel pesce, Mila», disse in tono casuale, raggiungendo i clienti con il solito sorriso smagliante.

«Un bel pesce...» rifletté ad alta voce, guadagnandosi un'occhiata disgustata da parte di due signore anziane sedute a qualche passo da lei. «Io non-», lasciò cadere la frase. «Volete ordinare?»

Atena improvvisò uno chignon con la matita che usava per prendere le ordinazioni e si guardò attorno: quella sera c'era un mucchio di gente.

«Spingi sulla caponata», stava dicendo suo padre, per la milionesima volta. «È buona quella.»

«Sì, papà», sospirò.

«E per dolce proponi il tiramisù, anche quello è uscito bene.»

«Lascia stare la ragazza, Carmine» esclamò infastidita sua madre dalla cucina. «Sa come fare il suo lavoro.»

«So che lo sa!» esclamò a sua volta lui, cominciando a urlare. «Volevo solo darle dei consigli!»

Atena alzò gli occhi al cielo: sempre le stesse discussioni da trent'anni.

«Tini, puoi dare retta al tizio che è appena entrato?» domandò in tono – fintamente – casuale Karima, che stava andando in cucina a consegnare un paio di ordinazioni.

Atena guardò la porta d'ingresso e quasi le venne da urlare: perché cavolo continuava a comparire?! Perché non andava a mangiare in un altro dei migliaia di ristoranti che stavano in quello stramaledetto quartiere?»

«Ah – è l'amico di Gianni», disse Carmine. «Deve piacergli molto la nostra cucina.»

«Sì, sì, la cucina...» rispose prontamente Mila, che passò accanto a loro con un vassoio di bibite.

Carmine ovviamente non capì di cosa stesse parlando.

«Atena! Non sai più come si accoglie un cliente?»

Atena si chiese se infilzarsi la gola con la punta della matita con la quale prendeva le ordinazioni l'avrebbe uccisa senza farla soffrire troppo.

Gray indossava una pesante giacca di pelle marrone con il colletto lievemente alzato sul retro, che terminava all'altezza dell'inguine; sotto di essa una maglietta a maniche corte nera, un jeans scuro e un paio di combat boots. Portava la barba incolta ma ordinata e quegli occhi... dio, quegli occhi... cos'erano quella sera? Andromeda o Cassiopea?

Lui si lasciò avvicinare, limitandosi ad inclinare la testa di lato per osservarla meglio.

«Tavolo?» domandò, puntando i suoi lapislazzuli nei suoi occhi.

Cercò di mantenere un tono distaccato e disinteressato per quanto dentro stesse morendo di imbarazzo.

«Posso anche mangiare qui nell'atrio, se vuoi», la sua voce era scura, profonda... come le sue spinte quando l'aveva presa in quel bagno...

Atena si perse nei suoi occhi. Quando si rese conto che era rimasta in silenzio abbastanza da risultare imbarazzante, si ricompose. «Non sarà necessario...»

Da lontano, Karima e Mila stavano confondendo le ordinazioni e in generale facendo un sacco di danni: perché i clienti non capivano che volevano solo un paio di minuti per godersi la scena in santa pace?

«Karima!» tuonava la voce di Carmine. Poi tornava a urlare subito dopo. «Mila! Vi licenzio!»

...non le avrebbe mai licenziate.

«Lascia stare le ragazze!» esclamava la voce acuta di sua moglie dalla cucina.

Atena si schiarì la gola di fronte a quel piccolo teatrino e fece strada al giovane uomo per trovargli un tavolo, facendolo accomodare.

«Oggi abbiamo la caponata...» gli disse, senza guardarlo e porgendogli il menu.

Gray, invece, li voleva addosso quegli occhi. «E basta?»

«Hm? No... è... lo speciale del giorno

Lui si sporse un po' verso di lei: il gomito poggiato sul tavolo e il mento stretto tra il pollice e l'indice.

«Tu che mi consigli, Atena?»

La sua voce che pronunciava il suo nome le fece il solletico e la quindicenne dentro di lei urlò un 'sa il mio nome' in un gridolino.

Che cavolo, Atena, disse a sé stessa, ricomponiti.

«Karima! Torna a lavoro!» esclamò esasperato Carmine.

Atena continuò a guardarlo: nei suoi occhi vagava il principio di un sorriso divertito e i ricordi di ciò che avevano fatto.

«Le polpette», disse in un soffio.

Gray la guardò per un istante e sentì le sue mani pungere: il desiderio di sentirla imprecare in italiano mentre la prendeva su quello stesso tavolino cresceva di secondo in secondo, nella sua testa, e giù nei suoi pantaloni.

«Allora portami le... polpette.»

Lei accennò un sorriso. «Polpette», corresse.

Lui sorrise di rimando. «E io che ho detto?»

Atena scosse piano la testa. «Da bere?»

«Una Coca-Cola va bene... basta che non finisca sul pavimento.»

Atena liberò i capelli dalla matita che glieli teneva legati e cominciò a scrivere. Al naso di Gray arrivò una ventata del suo profumo: dolce e frizzante come le onde del mare.

Senza aggiungere altro, Atena si allontanò dal tavolo e lui guardò i suoi fianchi ondeggiare fino alla cucina.

Karima arrivò alle sue spalle. «Sciogliersi i capelli è stato un tocco di classe.»

«Eh?»

«Una scena toccante...» rincarò Mila.

«Ma che problemi avete? Mi sposo tra una settimana!»

«Una tragedia, lo so», rincarò Karima.

«Eravate felici al mio addio al nubilato, perché tutte queste storie adesso?»

«Tutti sono felici dopo tre Martini e una bottiglia di tequila, Tini», disse in tono materno Karima. «Eri felice persino tu che non vuoi sposarti.»

Atena schiuse le labbra, sbalordita. «Chi ha detto che non voglio sposarmi?»

Karima boccheggiò alla ricerca di aria: aveva esagerato.

Carmine si avvicinò alle tre giovani, infilando il testone all'interno del triangolo che avevano formato. «Ma insomma, che avete voi tre stasera?»

«Niente», rispose spiccia Atena, tornando in sala a grandi passi.

Atena non tornò più a servirgli al tavolo. Al suo posto era arrivata Mila e lo aveva servito senza aggiungere una parola e un po' Gray gliene fu grato: le amiche di Atena erano fuori di testa.

«Non avresti dovuto dirle così», Mila ammonì Karima, intenta a sparecchiare un tavolo.

«Lo so...» bisbigliò. «Mi è scappato.»

«Hai visto che non è più nemmeno andata al tavolo... dovremmo lasciar perdere, Rims. Noi non amiamo Spencer ma magari lei sì.»

Karima fece correre gli occhi nocciola su Atena che uscì fuori dal locale, sicuramente per fumare una sigaretta di contrabbando, e rivolse una rapida occhiata a Gray, che invece stava per alzarsi e andare a pagare il conto.

«Non è come dici tu», disse.

Atena tirò un sospiro di sollievo quando sentì finalmente il fumo riempirle i polmoni e accorciarle la vita di un paio di anni. Una piccola nuvoletta grigia si formò davanti al suo naso e lei la guardò dissolversi davanti a lei, finché non venne ingoiata dal vento.

Un paio di passi dietro di lei la fecero sobbalzare e nascose immediatamente la sigaretta, buttandola in un tombino sotto i suoi piedi.

«Non sto fumando, papà... sono venuta a...» farfugliò.

Gray si schierò al suo fianco, abbastanza vicino da farle respirare un'ondata del suo profumo che bevve come l'acqua nel deserto: se lo ricordava a memoria, quel profumo.

«Dovresti rilassarti un po' di più.»

«E tu dovresti farti i fatti tuoi» rispose lei. Incrociò le braccia al petto, mettendo in risalto la rotondità del seno che lui delineò famelico con lo sguardo.

«Non devi sentirti in imbarazzo a parlare con me», continuò lui. «Abbiamo fatto sesso in un bagno, è stato...»

Eh già, com'era stato? Coinvolgente, passionale, una droga che il suo corpo pregava di farsi di nuovo.

«Carino. Non è significato niente e ora tu torni alla tua vita e io alla mia.»

Lei annuì. Ignorò la fitta di fastidio che le attraversò lo stomaco: era stato solo sesso. E certo, che altro doveva essere? Una dichiarazione d'amore?

Il problema era che lei non aveva mai fatto sesso con nessuno sconosciuto in vita sua e non sapeva che cosa doveva fare. Non sapeva nemmeno cosa le fosse preso. Lo aveva visto lì, attraente e lontano e si era detta: perché no? Senza sapere che quella nottata di sesso l'avrebbe perseguitata per giorni.

«Ok?» terminò lui, cercando i suoi occhi illuminati appena dall'insegna del suo ristorante.

Atena annuì. «Certo, ok.»

Gray allungò la mano nella sua direzione: era una mano grande, possente... se la ricordava quella mano attorno al suo seno... ricordava le sue dita nella sua bocca...

«Sono Gray.»

Atena guardò la sua mano e poi lui. Alla fine, allungò titubante la sua per stringergliela.

La mano di Atena era sottile, le unghie non troppo lunghe e così piccola rispetto alla sua. Si strinsero la mano guardandosi negli occhi, entrambi sentirono una scossa elettrica che arrivò loro fino alla punta dei capelli ma nessuno dei due disse niente.

«Atena.» 

Spazio autrice

Eccoci anche qui con un nuovo capitolo💙 Gray è diventato evidentemente un grande fan della cucina italiana. Dico: come biasimarlo, no?

Grazie come sempre a chi legge e vota, davvero 💙 Buon proseguimento di weekend 💕

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