La cena è servita
Isobel
-Per favore, cerca di non essere così scontrosa anche con loro- mi disse Aaron sospirando.
Mi condusse nella sala da pranzo, dove era stata allestita una tavola finemente apparecchiata.
Richard e Samantha sedevano agli estremi del tavolo persi nei loro pensieri, mentre l'attenzione di tutti gli altri si spostò su di me appena feci il mio ingresso. Dylan accennò un ghigno che fu subito bloccato sul nascere dallo sguardo fulmineo di Aaron. Accanto a lui sedeva Thomas, pallido come al solito. Una bimba che non avevo mai visto prima mi osservò con occhi luccicanti, ero sicura che si trattasse di Kelly. Aveva dei capelli lisci e neri che mettevano in risalto le sue iridi color ghiaccio. Le sorrisi e lei ricambiò.
Mia e Carl entrarono nella stanza con in mano dei vassoi, l'odore emanato dalle pietanze che trasportavano era davvero invitante.
Aaron mi esortò a sedermi accanto a lui e acconsentii senza protestare.
Furono serviti un risotto agli agrumi e arrosto in salsa di lamponi. Non avevo mai assaggiato nulla del genere prima d'ora, mischiare la frutta con il salato mi era sempre sembrato un qualcosa di impensabile fino ad allora. Dovetti ricredermi perché fu tutto delizioso.
Sicuramente per Thomas non fu lo stesso dato che toccò a malapena il cibo che aveva nel piatto. Era seduto di fronte a me e potetti osservarlo con attenzione. Mi era sembrato un ragazzo allegro la prima volta che l'avevo visto, ma quando era con loro cambiava totalmente. Mi domandai che cosa gli avessero fatto per indurlo a questo atteggiamento.
Richard non alzò gli occhi dal piatto per tutta la durata della cena, mentre Samantha non smise per un attimo di fissare il suo bicchiere di vino sempre vuoto. Non avevo mai visto una donna bere così tanto e restare ancora così lucida. In realtà non avevo mai visto nessuno bere così tanto. I miei genitori bevevano raramente, solo per festeggiare occasioni speciali. Mia madre non reggeva per niente l'alcol, bastava un calice di champagne per farla crollare addormentata sul divano.
La cena si concluse silenziosamente con una cheesecake al limone.
Gli altri ragazzi si alzarono dalle loro sedie e io li imitai, pronta ad allontanarmi il più possibile da quegli strani individui. Una mano mi afferrò il braccio, impedendomi di proseguire oltre. Mi voltai, pronta a lanciare un'occhiataccia ad Aaron, ma quel che vidi mi paralizzò. Le falangi ruvide di Richard erano strette intorno al mio polso.
Mi attirò verso di lui facendomi sedere sulle sue ginocchia. Il sangue mi si gelò nelle vene ed il pasto che avevo appena consumato si preparò a tornare su. Cercai Aaron terrorizzata, trattenendo un conato di vomito. Lui mi guardò di rimando, il suo volto era inespressivo.
Richard mi passò una mano tra i capelli e mi accarezzò il labbro inferiore. Iniziai a tremare. Mi sollevò le ciocche azzurre ed allacciò qualcosa intorno al mio collo. Non mi ero nemmeno resa conto che nell'altra mano stesse stringendo qualcosa.
Estrasse un piccolo telecomando nero dalla tasca dei pantaloni ed armeggiò con i pulsanti.
Un dolore, simile a quello di un forte pizzicotto, mi trafisse il collo. Portai le mani alla gola e tastai una sorta di collare. Ripensai a ciò che mi aveva detto stamattina Thomas, loro dovevano indossare un collare elettrico, proprio come quello strumento di tortura che alcuni usano per addestrare i cani.
Ingoiai le lacrime insieme alla mia bile. Non avrei pianto di fronte a loro. Al diavolo, non avevo mai pianto di fronte a nessuno, nemmeno da bambina. Avevo imparato a trattenere le lacrime fino al momento in cui non fossi stata da sola, solo nella mia camera riuscivo a dare libero sfogo alle mie emozioni.
Richard mi lasciò andare e potetti così correre verso la toilette. Con le ginocchia nude contro le piastrelle fredde del bagno e la testa china sul water, vomitai l'anima.
Una mano mi afferrò i capelli, impedendogli di riversarsi sul mio viso. Voltai la testa e rimasi sorpresa quando scoprii a chi appartenesse quella mano. Carl era accovacciato dietro di me e mi sorreggeva la testa.
-Mia madre mi teneva sempre la fronte quando vomitavo, sosteneva che per lo sforzo si sarebbero potuti rompere dei capillari.
-Ed è vero?- domandai.
Lui alzò le spalle e mi aiutò a rialzarmi.
-Ti manca tanto?
-Sai, non riesco nemmeno a ricordare il suono della sua voce. Eppure amavo quando cantava per me, rammento ancora tutte le sue canzoni, ma la sua voce no- i suoi occhi si rabbuiarono e una piccola ruga si fece largo tra le sue sopracciglia.
-Mi dispiace- dissi sincera, mia madre mi mancava da morire anche se l'avevo vista solo il giorno prima. Non riuscii ad immaginare come sarebbe stato se non avessi potuto farlo per undici lunghi anni.
Carl era un ragazzo molto attraente, fuori da queste mura avrebbe avuto sicuramente un sacco di corteggiatrici. Ma qualcosa si era spento in lui, lo si poteva capire dal suo modo di parlare. Viveva per inerzia, piegato sotto il volere di altri, non era più padrone della sua vita. Non mi sarei mai e poi mai abituata ad una cosa del genere.
Uscimmo dal bagno e fummo condotti ancora una volta nello scantinato. Qualcuno aveva aggiunto un letto ai quattro già presenti, il mio.
-Dobbiamo dormire vestiti- mi avvertì Mia quando le chiesi di aiutarmi a togliere di dosso l'ingombrante abito bianco.
-Cosa?!
Fece spallucce e si distese sul materasso. Carl la imitò abbracciandola da dietro.
-Solo per un pochino, lo sai cosa succede quando ci vedono insieme per troppo tempo- le sussurrò lui.
-Mi canti una canzone?
-Certo mi amor.
<<Cuando yo era niña con mis padres vivía en una casa blanca al lado del mar. Con las gaviotas iba al cielo a volar, pero siempre yo volvía a la casita del mar. Yo siempre cantaba, en la arena bailaba, y yo sentía mucha paz. Mis padres me cuidaban, su amor ellos me daban. Y yo no quería nada más>>*
Conoscevo poco lo spagnolo, ma quelle parole accompagnate dal suo della sua voce melodiosa furono strazianti.
Mi addormentai cullata da quella ninna nanna, nonostante l'abito scomodo e la costante paura che stava pian piano divenendo parte di me.
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*Canzone popolare spagnola "Yo era niña" - Francoise Atlan
TRADUZIONE:
<<Quando ero un bambino, vivevo con i miei genitori in una casa bianca in riva al mare. Con i gabbiani sono volato in cielo, ma sono sempre ritornato per la casa al mare. Ho sempre cantato; ho ballato sulla sabbia e mi sono sentito molto in pace. I miei genitori si sono presi cura di me e mi hanno dato il loro amore. E io non volevo niente di più>>
Se volete ascoltarla su YT ne trovate una versione molto bella cantata da Marinita.
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Thomas
Era passato qualche giorno dall'arrivo di Isobel e il clima che si respirava in casa non era dei migliori. Richard e Samantha se ne stavano per conto loro, come facevano di solito, mentre Dylan stava diventando sempre più matto.
Suo fratello non gli rivolgeva neanche uno sguardo, ignorandolo totalmente e facendolo uscire di testa. Non era autorizzato ad avvicinarsi ad Isobel per via della sua fuga e per ciò che le aveva fatto ai capelli, quindi non ebbe la possibilità di giocare con la nuova bambolina come avrebbe voluto.
Trascorrevo le giornate nella sua stanza, sorbendo in silenzio i suoi deliri e i suoi scatti d'ira.
Quel giorno era più su di giri del solito, aveva cercato di trascinare Isobel insieme a noi, ma Richard lo aveva colto in flagrante e lo aveva malmenato per bene. Il suo anello d'oro gli aveva lacerato la pelle quando era entrato in colluttazione con lo zigomo di Dylan.
Non ero mai stato picchiato da Richard, ma i segni sul corpo del figlio erano un deterrente per impedirmi di farlo incazzare.
-Sei mai stato innamorato?- mi domandò Dylan all'improvviso, penetrandomi con gli occhi. A volte pensavo che avesse dei superpoteri e che fosse in grado di leggere la mia mente.
Ero inginocchiato ai piedi del suo letto e stavo tamponando il suo zigomo con del disinfettante. Abbassai lo sguardo, quel genere di argomenti mi metteva in imbarazzo.
-Solo una volta- ammisi.
-E poi?
E poi quel pezzo di merda mi ha rapito e mi ha rinchiuso nella sua casa delle bambole.
-Non ero ricambiato- tagliai corto.
Proprio così, conoscevo Dylan prima di finire lì dentro. Frequentavamo la stessa scuola, anche se non potevamo essere definiti proprio amici. Anzi, lui e la sua combriccola erano soliti avere un atteggiamento da bulli nei miei confronti. Dylan si limitava alle parole, ma lo stesso non si poteva dire di alcuni suoi compari. Non era raro che tornassi a casa con un occhio nero o con il labbro tagliato.
Ero totalmente cotto di lui ai tempi. Non mi importava del modo sprezzante in cui mi parlasse, mi faceva letteralmente impazzire. Giocava nella squadra di pallanuoto, mi era capitato di vederlo svestito negli spogliatoi e aveva un fisico mozzafiato. Durante le ore di buca me ne restavo seduto sugli spalti ad osservarlo mentre si allenava. Non avevo mai desiderato qualcuno così intensamente.
Poi un giorno, senza una motivazione razionale, mi aveva drogato e caricato sul retro del suo furgone. E così la magia era svanita.
-Perché io?- chiesi rompendo quello strano silenzio che si era creato.
Lui, ancora una volta, fissò il limpido azzurro dei suoi occhi dentro ai miei.
-Sì, insomma, perché avete preso me? Mi conoscevi, non era troppo rischioso?
Mi passò una mano tra i capelli, come era solito fare e mi sorrise compiaciuto.
-Perché io volevo te, stupido...
-Perché?- ancora non riuscivo a capire.
-Ora, se hai finito di pormi domande idiote, vorrei fare una doccia.
Si alzò dal letto e si sfilò la t-shirt lasciandola cadere per terra. Si spostò nel bagno ed eliminò anche il resto prima di entrare nella doccia. Ritornò venti minuti dopo con addosso solo un asciugamano. Era spesso nudo davanti a me e ormai ci avevo fatto l'abitudine.
-Spogliati- ordinò poi, cogliendomi di sorpresa.
-C-cosa?- balbettai sconvolto.
-Voglio solo vedere quanto sei dimagrito, che cosa credevi?
Lentamente, iniziai a sbottonarmi la camicia, ancora un po' incerto sulle sue intenzioni.
Mi portò davanti allo specchio del bagno e mi costrinse a guardare il mio riflesso. Era da tanto che non mi trovavo nudo di fronte ad uno specchio. Ero costretto ad indossare per tutto il giorno quegli stupidi vestiti e potevo restare nudo solo mentre facevo la doccia, evento che avveniva sempre sotto stretta sorveglianza di Richard. Non avevo il tempo di soffermarmi a guardare il mio corpo.
Era cambiato dall'ultima volta. I muscoli che avevo sull'addome si erano affievoliti, così come quelli delle braccia, lasciando intravedere il costato sporgente.
-Prometti che mangerai di più- Dylan mi fece voltare verso di lui e mi trattenne per le spalle.
-Non posso- dissi sincero. Da quando ero lì non avvertivo più il senso della fame.
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