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Capitolo 47 - Max

Jay

«No, Max, no» mi fermo sulla soglia della porta, tirandolo per il polso. Lui arresta la sua corsa, voltandosi sorpreso nella mia direzione. «Ho cambiato idea amico, non è il caso» gli sussurro in una specie di sospiro. Non sono sicuro che mi abbia sentito.

Lui però annuisce, sorridendomi.

Apre il suo zainetto e ne estrae tutto felice una copia dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij.

«Lo finiamo allora?» gli chiedo, senza che ci sia bisogno che a parlare sia lui.

Ancora una volta, con un movimento del capo, asserisce.

Da quel giorno io e Max non abbiamo mai passato un periodo più lungo di una settimana l'uno senza l'altro.

Ha avuto il suo Bar Mitzvah sebbene io lo ritenessi, da non religioso, un evento piuttosto ridicolo.

Siamo andati alla Shermann insieme.

Non ha mai giocato a football come me, perché diciamocelo, in qualsiasi sport è sempre stato una schiappa, ma, in compenso, è diventato il direttore del giornalino della scuola. Ho collaborato con lui scrivendo tanti articoli, tra di essi anche un'aspra critica nei confronti dell'abuso di droghe, alcool e sigarette nei giovani adolescenti.

Siamo andati al ballo insieme.

Io con Beth Allen e lui con Monica Root.

Ci siamo iscritti entrambi alla Usc. Io ho rifiutato il mio posto nella Confraternita dei Trojans pur di non lasciarlo da solo. Abbiamo preso una camera insieme e ci abbiamo vissuto per tutta la durata dell'università, felici e contenti.

Molte squadre di football hanno voluto fare una proposta per acquistarmi appena laureato.

Max mi ha aiutato a scegliere tra le opzioni quella che meglio avrebbe valorizzato il mio talento, non perdendosi in seguito nemmeno una mia partita.

Grazie a lui sono riuscito a creare un rapporto che potesse dirsi vagamente profondo con mia madre.

Tutto è andato per il verso giusto.

Certo, non ho mai incontrato la donna perfetta, ma almeno ho avuto accanto il mio migliore amico per tutta la mia lunga vita. Fino a che non siamo stati ricoverati insieme in una casa di riposo. Fin quando non siamo morti l'uno a pochi giorni di distanza dall'altro.

Che bella esistenza vissuta in due.

E invece no, non è andata davvero così, quel giorno mi sono aggrappato al suo polso, ma non per impedirgli di andare, bensì per costringerlo a venire.

L'ultima volta che ha varcato quella porta, l'ultima volta che abbiamo vissuto in due.

***

«Tutto ok?» apro gli occhi bruscamente, ritrovandomi Eva a pochi millimetri dalla faccia, intenta a guardarmi con un velo di preoccupazione nello sguardo.

Mi stropiccio il viso, non prestandole attenzione.

Mi guardo intorno alla ricerca di una bottiglia.

Non sono in grado neanche di parlare se non bevo.

Mi alzo dal letto, riuscendo a scorgere appena, sotto i miei vestiti sporchi e abbandonati davanti al pavimento del bagno, una bottiglia di rum.

Mi attacco con le labbra direttamente al collo, riempiendo il più possibile la bocca e l'esofago di liquido.

Eva nel frattempo mi ha seguito, rimanendo a pochi passi di distanza.

Perché nessuno capisce che non ho bisogno di una babysitter e che sono capace di badare a me stesso?

Le rivolgo uno sguardo vuoto, forse riempito soltanto da un po' di intolleranza. Le chiedo con gli occhi cosa voglia, ma lei non parla, non mi risponde.

È ancora più magra di quanto non lo fosse pochi giorni fa. I capelli sono di un colore spento, così come pure i suoi occhi. Da un verde brillante ora sembrano essersi trasformati in un marrone assente e opaco. Ha delle occhiaie fin troppo marcate e il volto scavato. Si guarda intorno spaesata e io so benissimo il perché. Vorrebbe fare quello che faccio io, soddisfare il suo bisogno di quelle dannate pillole, ma lei, a differenza mia, ha bisogno di lottare un po' con se stessa prima di cedere. Io, al contrario, ho smesso di credere che ne valga la pena.

«Hai avuto un incubo?» prova ancora a chiedermi, malgrado sappia quanto attualmente io sia poco incline a parlare.

«Era un sogno» mi schiarisco la voce per risponderle, per poi tornare a concentrarmi soltanto su ciò che desidero più di ogni altra cosa al mondo: l'alcool.

Mi sento così sollevato quando quel sapore forte mi brucia in gola.

«Jaimie mi ha inviato un messaggio... tuo padre è quasi a LA» me lo dice cercando di reprimere tutte le emozioni, ma, ancora una volta, lei non può nascondermi niente. Lo sa, in cuor suo, lo sa, che sarà un addio. Eppure, spera ancora in un possibile arrivederci. Tuttavia non può capire, non sa come vanno realmente queste cose, non sa quanto di te si prendano ogni volta in quelle stupide cliniche, non sa quanto dolore estraggono da te pensando di lasciarti finalmente libero, quando invece non fanno altro che stringere ancora più le catene. Lei non lo sa quello che mi accade e spero che non lo sappia mai.

«Ok, allora devo finire questa... non berrò per molto» mi scappa una risata come se tutto ciò potesse essere considerato lontanamente divertente, eppure per me lo è molto. L'alcool sugli alcolisti ha effetti immediati e piuttosto bizzarri.

«Puoi considerarmi per cinque minuti?» Ophelia alza la voce, cercando di sembrare autoritaria ai miei occhi. Mi strappa la bottiglia dalle mani, finendo per portarsela alle labbra, terminando in poco tempo il contenuto. Si dà dei colpi sul petto e combatte contro se stessa per non vomitare, poi si mette dritta e mi rivolge uno sguardo assente che assomiglia tanto al mio.

«Ok» la invito a parlare con un gesto della mano. Cerco le mie mutande con lo sguardo, trovandole abbandonate in un angolo della stanza. Mi sorprende davvero che lei abbia accettato di venire a letto con me in quelle condizioni. Forse in realtà l'errore è stato più mio che suo, temo infatti di averla illusa.

«Possiamo sederci e parlare un secondo? Non so per quanto tempo non potremo farlo, non voglio che ci sia niente di irrisolto» siede nuovamente sul letto. Si posiziona in ginocchio sul materasso, imprecando, alla ricerca di qualcosa. Afferra il flacone e butta giù una pillola, prima che possa fare lo stesso con un'altra, mi fiondo su di lei, facendole cadere tutto il contenuto per terra.

«Quella a dover andare in terapia tra i due sei tu! Cristo, hai appena scolato mezza bottiglia di rum... che ti dice il cervello?» ora sono io a sgridarla, rimanendo sdraiato sopra di lei, tenendole fermi i polsi. È molto strano vederci così, considerando che io sono quasi completamente nudo e che anche lei lo è parzialmente.

«Ah quindi ti importa?» si divincola dalla mia presa, nascondendomi però i suoi occhi. Guarda altrove pur di non incontrare i miei. Sta per piangere, ne sono certo.

«Chi è Max?» pronuncia quel nome con una leggerezza tale che arriva al mio cuore come una scarica. Mi manca il fiato a sentirlo nominare. Quanto tempo è passato da quando qualcuno ha fatto riferimento diretto a lui? 

Cosa ne sa Ophelia di Max?

La guardo stranito e al tempo stesso ferito.

Indosso un pantaloncino e, così come sono, esco fuori dalla camera. Ho decisamente bisogno di qualcosa di forte e spero vivamente che nessuno dei miei stupidi coinquilini abbia pensato bene di sbarazzarsi di tutto l'alcool presente in casa.

JJ siede davanti alla tv insieme a Mad e Carl. Quando mi vede scendere, mi guarda con estrema delusione.

Forse è vero che i gemelli sono telepatici.

«Non dovremmo evitare?» Carl domanda a mio fratello, mentre mi guarda mettere a soqquadro la cucina.

«No, lascialo fare... ultimi istanti di libertà» grida in italiano in mia direzione.

Nasce in me una profonda voglia di prenderlo a pugni, mista alla necessità di fuggire via, ma poi mi rendo conto che sarebbe tutto inutile. Sarò sì un fottuto alcolista, ma sono anche un ragazzo più intelligente della media, so che senza le mie carte di credito non riuscirei a vivere neanche qualche giorno nel mondo reale. L'ho fatto per una settimana e ancora mi chiedo come io faccia a respirare ancora.

Certo, mi hanno rapinato, picchiato, puntato varie armi sul corpo, persino regalato del crack, ma la vera forza di volontà sa nel sapersi fermare.

Persino una nullità come me capisce quando è il momento di non fare stronzate.

Per questo motivo scelgo di non replicare e di tornare al piano di sopra.

Chissà se è meglio guardare dritto in volto la donna che amo e vedere come sono stato capace di distruggere tutto quello che avevamo faticosamente creato insieme, o se invece sia il caso di scegliere ancora una volta di osservare come ho mandato in frantumi una famiglia ridotta già in polvere.

Se nonno James potesse vedermi, sono certo che mi starebbe rincorrendo con qualcosa di appuntito e pesante.

Rientro in camera con il mio bottino liquido, Eva è ancora nella stessa posizione ed è così delusa, così schiacciata da tutta questa situazione, che non so per quale motivo mi esce una frase: un punto di non ritorno. Ora ne dovrò parlare per forza, perché altrimenti non smetterà mai di domandarsi cosa è accaduto.

«Max è-era... il mio migliore amico».

«Era?» mi chiede come se non stesse aspettando altro da giorni.

«Sì... la sua morte è il motivo di- sai, della situazione» mi incarto nelle mie stesse parole. Sudo freddo.

«Non ti costringerò a parlarne se non vuoi» in pochi istanti diventa nuovamente la mia Eva. Mi raggiunge a braccia aperte, stringendomi il più possibile a sé.

«Immagino che sia giusto farlo Oph. Tu mi hai dato tutto di te, forse è il momento di fare lo stesso» pronuncio queste parole con lo stomaco in subbuglio. Vorrei tanto liberarmi, vomitando, di questo peso che mi affligge il petto, tuttavia l'unica cosa che sono capace di fare è fare ancora un sorso. Prendo un respiro profondo e sono pronto, dopo quello che le dirò, forse finalmente capirà il perché è giusto dirci addio.

Sei anni e mezzo prima.

«Ragazzi» mia madre ci chiama dal piano di sotto urlando dalle scale.

Io, JJ e Max siamo impegnati in una partita a Fifa, perciò fingiamo di non sentirla. Quando però inizia ad alzare ancora di più la voce, capiamo che è arrivato il momento di ascoltarla sul serio.

«Stiamo per andare in piscina dai Lawrence, oggi c'è allerta meteo, non è il caso di scendere in spiaggia. Volete venire con noi?».

I Lawrence abitano dall'altra parte dell'isola. La signora Penny è una collaboratrice di Levi mentre suo marito è un azionista dell'azienda di mio padre, perciò sono entrambi cari amici di famiglia e, siccome la piscina della nostra villa è in costruzione, frequentiamo spesso casa loro.

Tuttavia, per quanto l'idea di andare da loro non mi dispiaccia, io e Max abbiamo dei piani diversi per oggi.

JJ, a causa del suo folle amore per la figlia dei Lawrence, sebbene avesse promesso che sarebbe rimasto con noi, decide immediatamente di seguire la mamma.

Di conseguenza restiamo in casa soltanto io e il mio migliore amico. Le nostre madri si sono raccomandate più volte di rimanere all'interno, prima di lasciarci da soli. Tuttavia la regola più importante che ci hanno imposto è quella di non fare per nessuna ragione al mondo il bagno al mare. Peccato che già sappiamo sarà impossibile mantenere la parola data, perché raggiungere la spiaggia è proprio ciò che faremo non appena saranno abbastanza lontane da non scoprirci.

«Aspettiamo che se ne vadano e poi andiamo» lo sprono a cambiarsi per indossare il costume.

«Ma siamo sicuri? Non è proprio bel tempo fuori, potrebbe essere pericoloso» risponde lui con il suo solito comportamento da bambino. Lo sa che odio quando fa così.

«Dai, lo sai che è un mio sogno nuotare quando il mare è agitato... soprattutto se poi comincia a piovere, ancora meglio. Amo le onde». Mi piacciono davvero, peccato che, a parte durante qualche lezione di surf a Los Angeles, io non abbia mai avuto modo di nuotare in una giornata tempestosa né tanto meno con i cosiddetti cavalloni.

«Ok» risponde sbuffando. Non è mai accaduto che lui non mi abbia accontentato nelle mie follie, anche se il più delle volte mi guarda soltanto farle visto che è un fifone.

«Prendi il pallone Reinhardt, mi fai due lanci sulla battigia, ti faccio vedere quanto sono migliorato» lo sprono a prendere la mia splendida Wilson NFL force, pronto a passare un meraviglioso pomeriggio.

Quando stiamo per uscire dalla porta della mia villa, qualcosa improvvisamente mi paralizza. Come impossessato da uno spirito mi volto verso di lui. «No, Max, no» lo afferro per il polso. Lui si gira sorpreso in mia direzione.

«Che c'è Jay?» mi domanda, rivolgendomi uno sguardo interrogativo.

«Niente, andiamo» scaccio via quella strana sensazione impadronitasi del mio corpo, pronto finalmente ad andare a nuotare tra le onde. Rose non potrà più impedirmi di fare quello che voglio, sono grande e responsabile delle mie decisioni.

Facciamo una camminata di venti minuti a piedi tra le stradine impervie dell'isola. C'è una spiaggia più vicina a casa nostra, ma l'acqua è così alta e tumultuosa che il viottolo per raggiungerla è già interamente sommerso.

Proprio per questa ragione decidiamo di recarci in un altro luogo. In effetti non si può dire che questo sia così diverso dal precedente in quanto, già quando il mare è calmo, è difficile da raggiungere. Tuttavia ciò che mi porta a scegliere con grande determinazione quella direzione è il fatto che lì di solito, anche quando l'acqua è piatta, si creano delle discrete onde, perciò posso soltanto immaginare quelle che ci saranno oggi, dovranno essere almeno il doppio.

Il cielo è scuro, ma non piove. In lontananza si sentono dei tuoni, ma nulla che mi preoccupi davvero.

Scendiamo i quaranta gradini che portano fino alla spiaggia, fermandoci davanti agli ultimi tre.

Come pensavo le onde sono altissime, così tanto che la discesa di quest'ultima parte di scale risulta quasi impossibile senza bagnarsi del tutto da capo a piedi.

Prendo coraggio e, dopo qualche secondo di esitazione, comincio a correre verso la sabbia alla sinistra dei gradini. La corrente mi ruba le infradito, lasciandomi scalzo. C'è un risucchio tale che è impossibile afferrarle, sono già praticamente a largo.

Max cerca di imitarmi, in maniera però troppo goffa, un'onda gli arriva dritta in faccia facendogli bere un quantitativo spaventoso di acqua salata. Tossisce forte, quasi come se i polmoni gli stessero per uscire dalla bocca. Dopo essersi finalmente fermato, mi mostra fiero le sue orribili crocs ancora strette ai suoi piedi.

Lo insulto prendendolo in giro per la sua sbadataggine, anche se in realtà quello che più tardi dovrà farsi venti minuti a piedi scalzo sarò io.

Max sorride e, aprendo lo zaino, mi porge un paio di infradito. Evito di fare battute sulla sua ansia da ossessivo compulsivo e lo ringrazio - senza dirglielo a parole ovviamente - per aver salvato le piante dei miei piedi.

Non c'è nessun altro sulla spiaggia. Per raggiungere il tratto meno accidentato, visto il crollo di una parte della parete rocciosa, ci troviamo costretti a oltrepassare delle transenne di divieto.

Estraggo il pallone dalla sacca, implorando Max di farmi riscaldare. Lui non se lo fa ripetere due volte - fa sempre così, mi accontenta in tutto. Comincia a passarmi la palla a un ritmo frenetico, facendomi un paio di lanci non male, almeno considerato il fatto che non sia minimamente portato per questo sport e per nessun altro in generale. A un certo punto però mi annoia dimostrare le mie qualità, perciò rivendico il mio turno da lanciatore. Non per vantarmi ma anche in questo sono piuttosto bravo, dal prossimo anno infatti sarò la riserva della riserva del quarterback della squadra ufficiale della Shermann. Nessuno prima di me ha mai avuto un ruolo tale a soli quattordici anni.

Durante gli scambi, all'improvviso, scelgo di proposito di incanalare più forza possibile nel braccio, così da far schizzare il pallone alla sua destra senza che lui possa neanche lontanamente afferrarlo. Rido di gusto a vederlo atterrare di faccia sulla sabbia nel tentativo di intercettare la palla.

Ormai stufo di giocare e pronto a fare sul serio, decido di alzare un po' l'asticella di questa giornata, spedendo con un lancio lungo il Wilson direttamente nel mare.

Quando atterra tra la spuma, guardo Max, spronandolo ad andare per primo.

«Dai su, vallo a prendere... è colpa tua e delle tue scarsi doti se è finito in acqua! Costa tantissimo, mio padre mi uccide se lo perdo» mento, non me ne importa del pallone, voglio soltanto nuotare e convincerlo a farlo con me.

Max scruta il mare con timore. Le onde sono alte e aggressive e il pallone si allontana sempre di più.  Un attimo di riflessione e poi, comincia a correre, senza guardarsi indietro. Si butta in acqua e inizia a nuotare.

Io lo seguo più lentamente, godendomi la sensazione di fresco che mi invade il corpo.

A un certo punto, dopo non poca fatica, Max riesce finalmente a raggiungere la palla. Io lo guardo da una posizione che è a metà dalla spiaggia e dal punto in cui è lui.

Dura tutto pochi secondi, ma per me il tempo si dilata.

Max ruota il corpo di schiena, iniziando a fare delle bracciate disordinate che da lontano mi sembra siano una sorta di dorso. Mi avvicino un po' di più ridendo, pronto a prenderlo in giro. Ma tutto ciò che sento fuoriuscire dalla sua bocca è un grido «Jay, aiutami» e poi il silenzio intervallato da rumori strani, come se stesse annegando.

«Ritorna qui» urlo, ma lui non sembra in grado di sentirmi.

Le onde si abbattono tutte su di lui come se avesse un bersaglio sul dorso.

Le gambe mi si bloccano, non riesco a proseguire. Resto semplicemente a galla. Eppure non è vero che sono paralizzato, perché riesco a compiere comunque i perfetti movimenti per evitare che le onde mi portino a largo.

Lui continua a lottare urlando il mio nome, ma io adesso non riesco più a parlare.

Provo ad andare sottacqua, pur di raggiungerlo. Cerco una soluzione pur non riuscendo a pensare. Sono totalmente nel panico.

Inizio anche io ad annaspare.

Un raggio di luce si inserisce perfettamente in acqua.

Ho gli occhi aperti e il sale brucia.

Cerco Max con tutto me stesso, ma non riesco più a trovarlo.

Alla fine senza fiato e con le lacrime agli occhi, dopo aver bevuto tanto, riesco a farmi strada in mezzo al caos del mare in tempesta, riparandomi sulla sabbia.

Il petto si alza e si abbassa, faccio fatica a respirare.

Non riesco a vedere bene, non riesco a muovermi... sono paralizzato ancora una volta.

Non sento più la sua voce.

Non lo vedo più.

Non capisco più nulla.

Chiudo gli occhi stremato.

***

«Il giorno dopo hanno trovato il suo cadavere. C'era una corrente di ritorno in quella fottuta spiaggia e Max ci è finito perfettamente al centro. I soccorsi mi hanno raggiunto soltanto a notte fonda. Un passante mi aveva notato dall'alto, non so nemmeno come avesse fatto a scorgermi nell'oscurità. Al loro arrivo non riuscivo a parlare né a fare altro. Avevo le infradito di Max strette al petto ed ero completamente congelato, tanto da rischiare di morire di ipotermia. JJ, quando i nostri genitori sono tornati a casa e non riuscivano più a trovarci, ha parlato, dicendo cosa io li avessi convinti a fare. Per questo, oltre che ovviamente perché conoscevano Max, è stato chiaro sin dal primo secondo di chi fosse la colpa. Ricordo ancora le urla di Bec, gli occhi di mia madre e le ginocchia conficcate nella sabbia del signor Reinhardt. Non ho dimenticato nulla di quel pomeriggio e ogni singolo dettaglio non ha fatto altro che tormentarmi in questi anni. Non so come facciano a dire che non è stata colpa mia, se non fosse stato per me, Max non sarebbe mai morto. Dovevo esserci io al suo posto e non mi perdonerò mai per non essere annegato io quel giorno» concludo il mio racconto, aiutato soltanto da tutto il liquido contenuto nella bottiglia che ancora stringo tra le mani, rendendo bianche e al tempo stesso violacee le nocche della mano destra. Mi sento, solo grazie all'alcool, meno provato da quello che ho appena dovuto rivivere nella mia mente. Eva è rimasta in silenzio, impassibile. Credo che dentro di lei stia per esplodere, immagino dal colore delle sue sclere che vorrebbe piangere, ma non lo fa e non so per quale ragione. 

Finalmente qualcuno che riconosce la mia colpevolezza? Qualcuno, oltre mia madre, totalmente disgustato da me, tanto da non avere nemmeno il coraggio di versare una lacrima per ciò che ho fatto?

Che strano passare tutta la vita a odiare Rose perché è stata l'unica a gridare a gran voce la mia colpevolezza e poi essere io stesso il primo a puntarmi un dito contro.

«Eri solo un ragazzino...» sono le prime parole che con voce roca mi rivolge «io capisco che ci sia stata una certa intenzionalità nel tuo gesto, ma... come puoi prenderti tutta la colpa? Tu non eri abbastanza grande per renderti conto di ciò che stavi facendo e lui non lo era abbastanza per ribellarsi a te».

In un impeto di rabbia getto la bottiglia di vetro contro la parete, facendola andare in mille pezzi. Lei non sussulta neanche, resta nella stessa identica posizione, mantenendo una placida calma che non le appartiene.

«Se io non l'avessi costretto a rimanere con me e a seguirmi, non gli sarebbe accaduto niente» faccio fatica a parlare, è difficile riuscire a modulare il respiro.

«Non dico che non sia così Jay, è un dato di fatto... però non penso che tu l'abbia fatto con l'intento di metterlo in un reale pericolo. A quattordici anni si ha una concezione della pericolosità delle azioni molto diversa. Francesco mi ha convinta a salire sul tetto di casa sua in costruzione per vedere il tramonto e io, a mia volta, l'ho obbligato a saltare da un'impalcatura all'altra. Ci siamo feriti entrambi alle gambe con dei chiodi, guarda qui» indica le sue ginocchia piene di piccole cicatrici «se fossi morta io, non sarebbe stata colpa sua, così come se fosse morto lui, non sarebbe stata mia. Poi, che probabilmente mi sarei sentita responsabile per tutta la vita, questa è un'altra storia. Ma se l'hanno superata i suoi genitori, e io ho visto Rebecca parlarti e so che è così, allora dovresti farlo anche tu».

«Ne parli in maniera così semplice, come hanno fatto tutti negli anni. Come se fosse possibile smettere di vedere queste mani sporche di sangue» guardo i miei palmi, riuscendo a visualizzare concretamente il liquido rosso bagnarmele. «Posso continuare a vivere, posso amarti, venire a letto con te, girare il mondo insieme e portare avanti i discorsi più frivoli, ma io non smetterò mai e poi mai di sentirmi colpevole. Non ho mai pagato per ciò che ho fatto, ma sono certo che anche se avessi scontato la mia pena, questo senso di colpa non mi avrebbe comunque mai abbandonato. È per questo che non possiamo stare insieme» cerco di guardarla negli occhi, di farle capire quanto sono serio, di dimostrarle una volta per tutte che il mio è davvero un addio, eppure appena le mie iridi incontrano le sue l'unica cosa che vorrei fare è vomitare, fino a far uscire fuori dal mio corpo questo dolore che mi opprime.

«Non puoi lasciarmi, ci eravamo promessi di rimanere sempre l'uno accanto all'altro. Non mi importa dell'alcolismo, dei tuoi sensi di colpa, del modo in cui ti senti un assassino e al tempo stesso una nullità... in modo completamente diverso, ma al tempo stesso così simile, io mi sento così. E mi dispiace che tu abbia fatto un passo indietro, perché davvero quando abbiamo capito che in due il dolore si affronta meglio, pensavo sarebbe stato per sempre» si asciuga nervosamente le lacrime che in questo momento hanno iniziato a solcarle il viso. Sono felice soltanto di una cosa: che non si stia più trattenendo nel provare emozioni. È giusto che esse fluiscano, senza barriere. L'ho capito troppo tardi ma il non permettermi di essere chi sono davvero mi ha distrutto più di quanto non abbia fatto il confronto con il mostro che si nasconde dentro di me.

«Eva, te lo ripeto un'ultima volta, guardati in quel fottuto specchio, e dimmi ancora come stare insieme possa essere considerato qualcosa di positivo? Sai quante volte sono fuggito? Sai quante mi sono ubriacato scomparendo per giorni? Sai quante volte ho tradito Beth perché avevo bisogno di provare qualcosa che lei non poteva darmi? Sai quanto io sia autodistruttivo e quanto mi faccia stare bene portare in basso con me gli altri? Sai cosa vuol dire disprezzare se stessi al punto da cercare ogni modo possibile per farla finita? No, non lo sai, perché anche se tu pensi che siamo uguali, non c'è niente di più diverso. Il mio comportamento reiterato non farà altro che distruggerti più rapidamente di quanto non faresti da sola. Io ti amo, non posso spiegare quanto, ma è proprio perché provo per te un sentimento reale, che credo che salvarti da me sia la scelta giusta. Ora diventerà tutto più complesso per colpa mia. Il tuo corpo non può reggere un'altra disintossicazione, quindi ti troverai costretta ad assecondare la tua dipendenza ancora a lungo, poi verrà il momento di guarire e allora ti farai ancora del male, un'altra volta, e forse se io non ci sarò, sarà l'ultima. Invece se ti resto accanto ogni volta che crollerò io lo farai tu, e io mi sentirò ancora più in colpa quando ciò accadrà, perché non solo dimostrerò al mondo ancora una volta che fallimento umano sono, ma farò affogare anche te con me, l'unica persona di cui non vorrei mai il male».

«Preferisco che a distruggermi sia tu che qualsiasi altra persona, che qualsiasi altra delusione, che qualsiasi altro evento inutile della mia inutile esistenza» cade in ginocchio davanti ai miei piedi. Alza gli occhi in mia direzione facendo fuoriuscire in maniera incontrollata una serie di lacrime.

«Uno come Rick non ti farebbe mai del male, è quello che dovresti cercare in un uomo... sono certo sarebbe in grado di salvarti» mi volto appena per cercare di non guardarla. Non ce la faccio a vederla così.

«Ah, meraviglioso... adesso Rick ti piace! Se avessi voluto una persona come lui, avrei scelto lui. Io voglio te, mi sento viva soltanto con te. Se accettassi di stare con uno simile a lui, finirei per ritornare a quella che ero prima, e io mi preferisco oggi. Apprezzo molto di più la Eva disposta a soffrire, a dimagrire fino a star male, a non dormire per giorni e ad andare in overdose da pillole piuttosto che quella che resta sdraiata nel suo letto a non-vivere. Voglio scegliere un'esistenza difficile con te piuttosto che un'esistenza mediocre senza di te» si alza in piedi di scatto, quasi come un uragano pronto ad abbattersi su di me.

Scuoto la testa freneticamente. Non può dire sul serio, non può essere così cieca da non vedere quanto io sia dannoso. 

È in questo momento, guardandola furiosa e consumata davanti ai miei occhi, che scelgo di prendere una decisione, sbagliata sì, ma necessaria. Pur fissandola nelle sue meravigliose iridi color foresta che mi hanno fatto innamorare di lei, scelgo di mentirle.

«Probabilmente hai ragione... non lo so, sono confuso. Forse dovremmo riparlarne dopo che sarò tornato dal centro, forse una volta tornato in me riuscirò a capire le tue ragioni e sarò pronto ad accettarle» faccio un passo in avanti verso di lei, allungando un braccio tremante in sua direzione. Lei afferra la mia mano, annuendo. Tira su con il naso per poi abbracciarmi. Sento il petto bagnato delle sue lacrime e mi sento in colpa per averle regalato una speranza, perché non c'è niente di più falso in ciò che le ho appena detto. So già che quando si renderà conto di ciò che sto per fare soffrirà ancora, ma spero davvero avrà modo di capire il mio punto di vista e che un giorno forse mi ringrazierà.

«Ti amo» sussurra singhiozzando sulla mia pelle.

«Anche io» le rispondo così, perché effettivamente pronunciare un ti amo mentre sto dicendo una bugia sarebbe troppo finanche per me.

Dei colpi alla porta ci distraggono. Neanche il tempo di rispondere che qualcuno si fionda all'interno.

Leah.

«Dio mio, sono venuta appena ho potuto... mi hai fatta morire» mi stringe forte a sé quasi come se fossi il figliol prodigo appena tornato a casa.

«Ciao», la saluto con imbarazzo. L'unica persona tra tutte quelle che amo della quale mi vergogno per ciò che ho fatto è lei. Ho mandato a puttane mesi di lavoro in pochi istanti. So che mi capisce benissimo, ma so anche quanto deve averle fatto male sapere ciò che è accaduto.

«Stai bene?» mi guarda dritto negli occhi e io annuisco piano «dì la verità» insiste e io le rispondo scrollando le spalle. Come potrei stare bene dopo aver vissuto una settimana del genere?

«Ho già chiamato il centro, c'è un posto perfetto per te... mi hanno detto che posso continuare a farti da sponsor e che potremo fare qualche incontro insieme, che ne dici?» me lo domanda come se fossi un bambino a cui proporre un giro sulle montagne russe. Di bello nella terapia non c'è niente, soprattutto perché non è la prima volta che la faccio ed è evidente che in passato non sia stata in grado di dare i frutti sperati.

«Va bene Virginia, va bene» la rassicuro con un sorriso che sprizza falsità da tutti i pori, ma fortunatamente lei non mi guarda a lungo perché, quando ci accorge di Eva, va subito da lei, salutandola ancor più calorosamente di quanto non abbia fatto con me.

Una voce inconfondibile mi distrae da quella scena. Non appena la percepisco, indosso rapidamente una maglietta e il primo paio di scarpe che mi trovo davanti, per scendere il più veloce possibile, saltando la maggior parte delle scale, per andarle incontro.

Ho un'idea di come la mia partenza dovrà essere e voglio fare di tutto perché sia così.

Papà resta sorpreso dal fatto che sia stato io a raggiungerlo così rapidamente. Batte ritmicamente gli occhi quasi a volersi svegliare. In passato, dopo una ricaduta, ci sono voluti persino giorni prima di riuscire a parlare con qualcuno. Oggi però ho un'altra priorità. Non serve a niente rimanere incazzati con il mondo quando si è così tanto consapevoli dei propri errori.

«Figliolo» tutto questo improvviso amore paterno stupisce anche me, mi fermo di botto sulle scale, rimanendo in piedi a osservarlo.

«Che vuoi fare Jay, qualsiasi cosa tu voglia, purché tu ti senta meglio... Non sono venuto per sgridarti o per farti chissà quale ramanzina, voglio soltanto aiutarti. Vuoi tornare a Violet Hill o vuoi venire con me a New York, o andare in qualsiasi altro posto?» allunga una mano verso di me. Vorrebbe abbracciarmi, o almeno credo. Io però non ho nessuna intenzione di permetterglielo. Non c'è tempo da perdere.

«Per ora va bene Violet Hill, voglio andarci ora, subito» lo prego di portarmi via dalla Trojans, e nel farlo improvvisamente mi si materializzano sul volto delle lacrime. Mi sento un bambino e non so se è perché con la mente sono appena ritornato ai miei quattordici anni o se è perché per la prima volta mi sembra di avere davanti a me un qualcosa che assomigli vagamente a un padre. Ma, in fondo, sarà soltanto l'assenza di Rose a renderlo stranamente più accomodante.

«Ok, non vuoi salutare i tuoi fratelli prima? O qualcun'altra?» mi guarda aspettandosi da me un'altra risposta, il mio scuotere la testa invece lo sorprende ancora una volta.

«Non porti con te nulla?» domanda ancora, volendosi accertare che ciò che sto per fare sia davvero ciò che voglio.

«Dì a Jaimie di prepararmi una valigia più tardi, adesso ti prego, ho bisogno di andare via» mi avvio verso la porta, guardandomi indietro per un solo istante. 

Non so come io abbia fatto, ma sono riuscito a evitare di doverle dire addio

Forse così sarà più semplice anche per me, forse mi sembrerà di avere ancora a casa una persona che mi aspetta, una persona che mi ama, una che mi vuole per quello che sono... 

Anche se in realtà una donna così ce l'avevo e avrei potuto tenermela stretta ancora a lungo, avrei potuto stringere la sua foto tra le mani, come i soldati in guerra, mentre sarei stato piegato in due dai mostri della mia dipendenza o mentre avrei dovuto presentarmi alla mia ennesima lezione di autocontrollo, o a un seminario sugli abusi o ancora a un incontro degli AA... ma io ho scelto lei invece che me, e questa sarà sempre la mia più grande dimostrazione d'amore.

***

Cara Eva, mia Ophelia,

Sono passati due mesi dall'ultima volta in cui ci siamo visti, dal giorno in cui vigliaccamente ho scelto di non darti il mio addio e oggi, proprio per questo, mi trovo costretto a riaprire questa ferita, che, se proprio devo essere sincero, non accenna con il passare dei giorni a rimarginarsi.

È da circa una settimana che sono stato ricoverato in un centro riabilitativo a Oslo; la terapia a Los Angeles, malgrado la presenza costante di Leah, non stava funzionando. Il mio nuovo dottore mi ha obbligato a scrivere una lettera a ognuna delle persone con le quali, a causa della mia ricaduta, è rimasto qualcosa in sospeso.

Ho già inviato pagine e pagine sporcate d'inchiostro a mia madre, a ogni singolo membro della famiglia Reinhardt e persino ai miei fratelli e ai miei ex compagni di squadra della Trojans. Resta un'ultima lettera da scrivere, la tua.

CONTINUA...

Spazio autrice:

Dite quello che volete, ma era nell'aria. Il modo in cui Jay è andato via è stato sicuramente da vigliacco e scoprirete presto quanto tutto ciò abbia distrutto Eva, ma al tempo stesso non si può non essere d'accordo con lui.

La prossima settimana faremo un bel salto, dimenticatevi del passato, è ora di proiettarci verso il futuro.

La storia è agli sgoccioli...

Siete pronti a scoprire cosa accadrà? Leggerete la seconda parte di questa lettera... e no, non vi immaginate neanche...

Grazie perché siete ancora qui con me,

non mi abbandonate🥀,

la vostra Matilde.

Ps. stelline e commenti mi aiuterebbero molto a far conoscere la storia e ad allargare la famiglia di TAOBA, spero vorrete aiutarmi. Su Instagram trovate il link per le domande in anonimo, spero di sentirvi.

A lunedì,

non vedo l'ora di leggere i vostri commenti😂

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