Capitolo 34 - Dentro la mia testa
«Eva ci sei?».
Tolgo la mano dal viso, voltandomi a osservare Sophie alla mia destra.
Dopo ancora qualche secondo, in cui non riesco a comprendere dove mi trovo e con chi sono, reagisco, annuendo alla sua domanda.
«Non hai preso neanche un appunto oggi, non è da te. Caulfield ci ha dato istruzioni per l'ultima tesina del corso e non hai nemmeno scritto tutte le informazioni che ci ha dato. Stai ancora male?» mi domanda, sorpresa dal mio improvviso atteggiamento scostante.
Non mi ero mai comportata così in tutta la mia vita, lo studio infatti è stato da sempre il fine ultimo della mia esistenza. Eppure, non so esattamente per quale ragione, ma ad oggi la mia mente, ogni qualvolta entro in un'aula, si resetta e si riavvia solo una volta uscita. Non posso permettermi di vanificare tutti gli sforzi fatti sinora, devo obbligatoriamente continuare a puntare in alto e non accontentarmi di poco.
«Sì, ho un po' di mal di testa. Se non ti dispiace potresti inviarmi il tuo file, così più tardi ricontrollo se c'è qualcosa che mi sono persa rispetto a quello che dobbiamo fare» le domando, mentre tento invano di massaggiare le tempie per far diminuire la pressione che sento all'altezza della testa.
«Mmm... ok. Io e i ragazzi andiamo a fare colazione, ti unisci a noi?».
«Va bene, Soph» mi alzo lentamente dalla sedia, cercando di evitare che un altro giramento di capo mi faccia cadere, ora che finalmente i lividi dell'ultima volta si sono attutiti.
Il primo errore della giornata è sicuramente quello di non averle chiesto dove saremmo andati.
Scioccamente credevo che ci saremmo incontrati in caffetteria e che, di conseguenza, da lì sarei potuta tornare in fretta in camera mia qualora ne avessi avuto improvvisa necessità. Invece, senza darmi troppi dettagli, Sophie mi ha fatto salire in macchina con lei e mi ha portata da Patsy's, senza che io a quel punto potessi più tirarmi indietro.
9,8 km è la distanza del locale dal mio dormitorio.
Il tempo per arrivarci si aggira tra i tredici e quindici minuti a seconda del traffico.
Lo so per certo, perché ho controllato un milione di volte su Google Maps.
Sarei in grado di dire a memoria quale sia la distanza della Usc da qualsiasi posto in cui io sia stata nell'ultimo anno.
A dir la verità io e Francesco in passato abbiamo fatto spesso questo gioco; lui ha sempre pensato che io avessi un dono, in realtà si trattava soltanto dell'ennesima dimostrazione della mia ansia.
«Buongiorno bellezze» Nick, seduto su una sedia di plastica all'esterno del locale, fuma una sigaretta, mentre scrolla ossessivamente il suo feed di Instagram.
«El cabròn?» chiede Sophie, riferendosi ovviamente a Rick, utilizzando uno spagnolo con accento francese fenomenale.
«Ha preso un tavolo, vi sta aspettando... finisco questa e vi raggiungo anch'io» continua a guardare il cellullare, senza degnarci di uno sguardo.
Il campanello del locale ci dà il benvenuto, non appena scostiamo la porta.
All'interno ci sono abbastanza persone, non è pieno come al solito ma neppure si può dire che sia vuoto.
Rick siede a un tavolo in fondo, accanto al biliardo.
«Oh, cazzo» Sophie, dopo aver cercato nelle tasche dei jeans e in quelle del cappotto, controlla anche l'interno della borsa «Ho dimenticato il cellulare in aula, mince!» si dà uno schiaffetto sul volto.
«Buongiorno anche a te, uragano» Rick ride, osservando l'espressione contrita della nostra amica.
«Vado a prenderlo prima che me lo freghino. Ci vediamo tra pochissimo» esce, prima ancora che io possa propormi di accompagnarla.
«Dai, non rimanere impalata. Cominciamo a ordinare, tra un'oretta ho lezione» scosta la sedia accanto a lui per invitarmi a sedermi.
Gli sorrido cordialmente e mi accomodo, cominciando a spulciare il menù alla ricerca di qualcosa da poter mangiare.
Ogni alimento segnato su quei fogli plastificati viene attentamente analizzato e poi scartato. Ognuno di essi contiene qualche ingrediente che non mi fa stare bene. Per non parlare delle bevande, potrei bere un caffè oggi e rimanere agitata fino alla prossima settimana. Alla fine dopo una lunga osservazione, pur di non sembrare strana agli occhi dei due - Nick ci ha raggiunti nel frattempo - decido di ordinare un succo e una fetta di torta di mele.
Rick si sbraccia pur di farsi vedere dalla cameriera, che di spalle, pare essere impegnata da una ventina di minuti in una conversazione piuttosto accesa con un uomo sulla trentina.
Quando lei si volta per chiederci un ulteriore minuto di pazienza, resto pietrificata.
Ora è tutto più chiaro, è qui che l'ha incontrata.
«Ragazzi perdonatemi, allora cosa vi porto?» la targhetta con il suo nome scintilla sotto i miei occhi.
Leah.
«Per me un caffè e una porzione di cheesecake» Nick è il primo a risponderle e, mentre lo fa, si passa sensualmente una mano tra il ciuffo di capelli. Anche lui sembra aver notato la bellezza acqua e sapone della ragazza. In effetti, pur avendo qualche anno in più di noi, senza che abbia bisogno di sfoggiare neppure un accenno di trucco, resta senz'altro la ragazza più bella presente in tutto il locale. Ha quel maledetto sorriso che sarebbe in grado di far cadere tutti ai suoi piedi.
«Io vorrei un cappuccino e un muffin oreo... e tu Eva?» Rick si rivolge a me, rendendosi conto di quanto io sia distratta nell'osservare la nostra cameriera. Anche lui in realtà sembra averla riconosciuta, sebbene alla partita fosse stato molto meno attento di me a seguire i movimenti della famiglia del Mulino Bianco.
«Eva?» domanda lei entusiasta, senza alcun motivo aggiungerei, prima di cambiare completamente tono e di fingersi soltanto cordiale «ehm, cosa le porto?».
«Un succo d'arancia andrà bene» lo stomaco si è improvvisamente chiuso, altro che torta, l'unica cosa che vorrei ingoiare adesso è una pillola.
Annuisce sorridendo. Si allunga verso Nick che le porge i menù per restituirglieli, ed è solo in quell'istante che noto un cerchietto dorato ornarle l'anulare sinistro.
Socchiudo lentamente le palpebre per essere sicura di aver visto bene.
Va bene la donna più grande, passi anche la madre di famiglia, ma addirittura una donna sposata? Ma cos'ha nel cervello?
***
Dopo mezz'ora, di Sophie neppure l'ombra.
Il mio succo è ancora davanti a me. Sono riuscita a berne quattro sorsi in tutto. Dovendo tra l'altro mandarlo giù a forza, viste le domande insistenti fattemi dai due sulle mie condizioni di salute.
È vero che ho perso peso, tanto da avere difficoltà a trovare dei vestiti che non mi scivolino da dosso, e che ho praticamente la nausea il 98% delle volte che sono in loro compagnia, ma se solo fossi me stessa e dessi prova di tutti i mali che mi affliggono realmente, probabilmente sarebbe solo in quel momento che si renderebbero conto di quanto la situazione sia grave rispetto a quella che loro immaginano.
«Facciamo una partita? È da un po' che non ti straccio a biliardo» annuncia Nick, con un ghigno di sfida a incorniciargli il volto.
«Oh, ti vorrei ricordare che l'ultima volta che abbiamo giocato, hai perso amaramente» Rick sembra essere pronto a raccogliere il guanto di sfida. Nessuno dei due pare curarsi troppo della mia presenza e, alzandosi in fretta, dopo pochi secondi, sono già pronti a darsi battaglia a colpi di stecche e palline.
Resto seduta immobile, maledicendo il momento in cui ho accettato, sebbene non ne fossi consapevole, di uscire dalla mia comfort zone.
Sophie è scomparsa; non posso andare via senza un'auto; questi due sono così presi da loro stessi da essersi dimenticati che sono qui e tra l'altro, anche se volessi renderli partecipi di quello che avverrà tra poco, perché sono certa che qualcosa succederà, non posso, perché come una cretina ho deciso di non condividere niente di troppo personale su di me e perciò entrambi sono all'oscuro dei problemi che mi affliggono.
Ho dormito due volte con Rick, ma non gli ho mai detto realmente chi sono. Ottime premesse queste per un rapporto.
Ogni tanto sorrido ai due amici, facendo credere loro di star seguendo con attenzione la partita, mentre in realtà quello che faccio è memorizzare ogni via di fuga possibile.
Conto quante persone sono presenti nel locale, dividendole per sesso.
Ci sono dodici uomini e sette donne all'interno del Patsy's.
I bagni destinati alle femmine sono due.
Non molto probabile, ma neppure impossibile, che se ne avessi bisogno li troverei entrambi occupati.
Osservo dalla vetrina l'esterno, cercando, con il massimo dello sforzo che i miei dieci decimi mi permettono, di arrivare a vedere il più lontano possibile, per capire dove fuggire in caso mi venisse improvvisamente da vomitare e non potessi farlo nei bagni.
Leah mi passa davanti sorreggendo a fatica un vassoio stracolmo, vederla mi porta a distrarmi dalla realizzazione del mio piano di fuga e a soffermarmi a pensare ad una persona in particolare: Jay.
Sono giorni che non ci parliamo e non ho idea di quello che stia facendo. A lezione l'ho sempre visto con Lexie, ma i nostri sguardi non si sono mai davvero intercettati, privandomi della possibilità di leggergli dentro. Non che mi interessi di ciò che fa o di ciò che pensa, sono ancora arrabbiata, però al tempo stesso - sono consapevole che sia una contraddizione - non so per quale ragione non riesco a non essere preoccupata per lui. Ho come l'impressione che qualcosa di negativo stia per succedere e non vorrei che fosse nulla di grave, niente che possa portarlo nuovamente sull'orlo del baratro.
Nel frattempo, la mia mente ritorna nel locale, quando un gruppo di amici mi passa accanto. A quel punto inizio a riflettere su chi dei miei conoscenti chiamerei in caso di pericolo. Mi rendo ben presto conto che le uniche tre persone che contatterei per venirmi a salvare sono tutte indisponibili in questo momento.
Jay per ovvi motivi, Kate perché a quest'ora è impegnata in palestra per il corso di yoga e Jaimie perché per tutta la giornata sarà occupata con il laboratorio di giornalismo. Ci sono altri tre amici di cui mi fido alla Usc, ma anche loro attualmente, malgrado il campionato sia finito, sono bloccati in un allenamento prenatalizio che gli impedirebbe di venire in mio soccorso.
Sophie è la mia unica altra scelta. Peccato che sia scomparsa e che probabilmente non sia neanche riuscita a trovare il suo cellulare, e che perciò senza un telefono sarebbe a prescindere da annoverare tra gli irrintracciabili.
Lo stomaco inizia a far male e con esso anche l'intestino, entrambi gli organi cominciano a contorcersi su loro stessi, mentre il cuore viene sottoposto a un'improvvisa aritmia.
La bocca si asciuga, rendendomi impossibile anche soltanto il tentativo di deglutire.
Eva smettila, non è il momento.
Le mani e i piedi si intorpidiscono.
Comincio a sudare, tanto da essere costretta a pulire più volte le mani sui pantaloni.
Prova a svagarti, prendi il cellulare.
Lo afferro, sbloccandolo a fatica. La prima schermata che si apre è quella degli appunti che Sophie mi aveva inviato prima di entrare in auto.
Li avevo aperti senza nemmeno dar peso a cosa vi fosse scritto.
A questo punto, penso tra me e me, potrei leggerli per distrarmi.
Pessima idea.
Un'angoscia pesante mi mozza il respiro.
Anche la voce dei miei pensieri diventa più lenta, come se anch'essa stesse facendo fatica.
Scrivere una tesina dalla lunghezza di sette cartelle su un argomento del corso, possibilmente originale, da concordare con il professore e consegnarla entro due giorni dall'ultima lezione.
Faccio mente locale, cercando di ricordare quando si terrà il nostro ultimo incontro. Il colpo di grazia me lo dà il calendario: domani.
I temi affrontati durante il corso cominciano a scorrere davanti ai miei occhi, come se la mia mente si fosse improvvisamente trasformata in un computer.
Ogni idea che il mio cervello passa in rassegna mi sembra banale.
Analizzo l'intera arte medievale, ma niente di neanche lontanamente originale sembra venirmi in mente.
San Michele a Hildesheim; l'Evangeliario di Ottone III; la porta del Duomo di Salerno; il catino absidale di Santa Maria Maggiore; le tavole di Duccio, Cimabue e Giotto; l'Arazzo della Dama e L'unicorno; le Vetrate dell'Abbazia di Saint Remy.
Tutte queste immagini si affollano nella mia mente.
Cerco di raggiungerle focalizzandomi sui dettagli, mentre esse si sovrappongono l'una sull'altra.
Nello sforzarmi, pur di seguire la rapidità impressionante con la quale si compongono nella mia testa, il succo all'arancia sembra salire sempre di più, inacidendomi la gola.
So che sto per avere un attacco di panico, ormai niente mi coglie più di sorpresa quando si tratta della mia ansia.
Soltanto nel momento in cui sto ufficialmente per andare in iperventilazione, decido di alzarmi.
Se resto qui seduta, a breve non avrò più il controllo delle mie azioni.
Devo calmarmi un attimo in disparte e poi potrò pensare a una scusa, devo tornare alla Usc il più in fretta possibile.
Stando attenta a non urtare nessuno, riesco miracolosamente a raggiungere il bagno. Mi siedo sul pavimento freddo e sporco, portando le ginocchia al petto e cercando di controllare il respiro il più possibile.
Non ce la farai Eva, fallirai.
Non è per te tutto questo. Faresti meglio a tornare in Italia, a volare basso. Accontentati di quello che hai già, perché non sarai mai in grado di conquistare niente da sola.
Non lo vedi quanto sei inutile, neanche a pochi minuti da casa riesci a stare senza dare di matto.
Come pretendevi di non dire a Rick dei tuoi problemi, che ti aspettavi da te stessa, se non quest'altro fallimento.
Fai un favore a tutti, prendi tutte le pillole di cui hai bisogno, perché non sei in grado di vincere questa battaglia con te stessa.
Sarai sempre prigioniera, che vivi a fare così, potresti farla finita domani e il mondo non avrebbe perso niente.
Chi ti amerà così? Hai visto la bella fine che ha fatto Luke... sei l'essere più inutile del mondo.
Aveva ragione la tua migliore amica, quando pronunciò quella fatidica frase prima di liberarsi per sempre di te, non trovi?
Eva tu spegni le persone.
Ripetilo insieme a me Eva, su, lo so che lo sai.
Tu spegni le persone.
Guarda che cosa sei stata capace di fare anche con Jay.
Lo hai spento, più di quanto non lo fosse già.
Non ti sopporta nessuno, non ti sopporto nemmeno io che sono una parte di te.
Sì, dai adesso vomita.
È l'unica cosa che sai fare.
Ma quando il tuo stomaco sarà vuoto... pensi che ti sentirai meglio?
Oh no, io resterò per sempre qui, dentro di te e non potrai farci nulla.
Ti annichilirò finché di te non resterà niente.
Ah no, aspetta, guardati.
Non c'è già più nulla, se non un inutile ammasso smunto di ossa.
Mi trascino verso il water, cercando di espellere quel poco che mi è risalito in gola e che ha creato quel groppo insopportabile che mi impedisce di respirare.
Quando quei pochi sorsi di succo sono usciti da me, sento che la voce sta per ripresentarsi... e allora do una testata sul water e ancora con le mani cerco di scacciarla via, lontana da me e dai miei pensieri.
In questo teatrino vergognoso mi scappa un urlo.
«Lasciami in pace» grido, mentre continuo a colpirmi.
Una porta che sbatte, mi riporta alla realtà, gelandomi sul posto.
Che cosa sto facendo?!
«Pulcino, stai bene?» con gli occhi velati di lacrime, non riuscendo a vedere nulla, penso per un istante, dal tono e dal nomignolo usato, che potrei ritrovarmi davanti mia madre.
Quel pulcino, sussurrato in quel modo gentile, sembra quasi possa darmi l'effetto di una pillola.
Mi sento immediatamente meglio.
Metto a fuoco il suo volto, restando purtroppo delusa, non è la mia mamma a essere comparsa e ad aver parlato. Si tratta al contrario dell'ultima persona che avrei pensato di poter avere accanto in un momento simile: Leah.
«Sì, scusami... tutto bene adesso» biascico, cercando di mettere due parole di senso compiuto in fila.
«Ehi, non c'è bisogno di mentire... se hai bisogno di sfogarti, ci sono. Ho avuto un milione di attacchi di panico come i tuoi, so di cosa parlo» mi accarezza il viso, sistemandosi anche lei nella mia stessa posizione sul pavimento.
«Ra-raccontami qualcosa, ti prego. Se mi distraggo starò meglio, questo mi succede quando resto troppo da sola con i miei pensieri» che disperata che sono, quanto può essere vergognosa una richiesta del genere a una sconosciuta.
«Ok, allora... non lo so, forse parlarti di me e delle mie disavventure potrà aiutarti in qualche modo, almeno a capire che non sei la sola ad aver vissuto un evento simile... Beh, tentar non nuoce. Mi chiamo Leah, come avrai capito da questa» tocca lettera per lettera il suo nome inciso sul petto «e vengo dall'Irlanda, da Galway. Mi sono trasferita negli USA appena compiuti diciotto anni per cercare lavoro e, non avendo ovviamente la cittadinanza, ho vissuto per circa sei mesi come immigrata clandestina. Ho iniziato sin da subito a fare serate in un club di Los Angeles come ballerina e talvolta come barista, perlopiù prendevo una buona mancia e, a dir la verità, non solo quella dai miei clienti» prende un respiro profondo, facendo una pausa.
La invito a continuare con lo sguardo.
Incredibile che per calmarmi mi serva ascoltare le disgrazie degli altri.
«Ho conosciuto un tipo una sera, aveva con sé tanti soldi e mi ha pagata molto più di quanto avrebbe dovuto per ballare per lui. Così il primo giorno, poi ancora il secondo, il terzo... è tornato tutte le sere per mesi. Dopo un po' si è presentato con un anello e, senza neanche rifletterci, gli ho detto di sì. Un matrimonio poteva significare soltanto due cose per una come me all'epoca: green card e niente più necessità di lavorare in quello squallido posto. Sono rimasta incinta quasi subito dopo le nozze, credevo di aver trovato la vita che sognavo. Il mio ex spacciava, un lavoro sicuramente non onesto, ma che ci permetteva di vivere più che dignitosamente. Mi impediva di toccare qualsiasi droga, mentre lui continuava a farsi. Al settimo mese di gravidanza, una partita di eroina tagliata male, lo ha ucciso. Non entro nel merito di quegli ultimi due mesi, ma se Elijah è nato sano, è stato un miracolo. Da lì ti risparmio il mio inferno... ho toccato il fondo come mai credevo di poter fare. Quello che è successo a te, mi succedeva ogni volta che non toccavo alcool e droghe per più di due ore. Dopo che ho aggredito una donna al centro commerciale, mi hanno tolto il bambino ed è stato solo in quel momento che ho trovato la forza per ripulirmi. Oggi sono finalmente felice, sto con una persona-»
«Sì, a proposito di questo, forse è meglio che vada ora» ancora seduta nella stessa posizione, sento il muco scendere lentamente dal naso, malgrado io tenti in ogni modo di tirarlo su, e le lacrime solcare il mio viso ormai in maniera del tutto libera da non so quanto tempo.
«Cazzo, forse raccontarti la mia storia non è stata una buona idea» mi rivolge uno sguardo colmo di panico.
«No, Leah grazie... davvero. È solo che mi sembra un po' troppo farmi consolare dalla ragazza che sta con il ragazzo che mi piace... insomma, quanto è da sfigate?».
«Aspetta» scoppia a ridere «ti stai riferendo a Jay?» nel tentativo di trattenersi, dalle sue labbra fuoriesce una specie di pernacchia «Dio, ma per chi mi hai preso! Ti sembro una tipa da toyboy?» si asciuga le lacrime.
«V-vi ho visti alla partita, con due bambini, eravate così affiatati. Avevo pensato che-».
«Sì, perché lo conosco da un anno e perché è come un fratello per me... che schifo, dai. Io e Thomas insieme» fa una faccia disgustata, scuotendo la testa.
«Ma come sai che mi riferivo a lui? Mi conosci?» domando sorpresa, tutto ciò sta diventando ancora più strano di quanto non lo fosse in precedenza.
«Se ti conosco? Sento parlare di te da mesi... beh, tecnicamente non sapevo come ti chiamassi fino a poco tempo fa. Jay ha questo vizio di dare soprannomi a tutti, ti ha sempre nominata come Ophelia, ma un giorno l'ho sentito parlare a telefono con te dopo un incontro degli AA e solo in quell'occasione ha usato il tuo vero nome. Quando il tuo amico prima ha detto Eva ho capito immediatamente fossi tu».
«Io ero davvero convinta... che figura di merda» mi tappo la bocca con la mano.
Sarà anche una figuraccia, ma sapere che non stanno insieme mi fa perdere praticamente venti chili di inquietudine in un istante.
«Quello con cui parlavo prima, al tavolo accanto al vostro, è mio marito: Owen. Non sapeva con chi lasciare Lily, nostra figlia, perché lo hanno improvvisamente chiamato per un doppio turno. Ti sembrerà incredibile tra l'altro, ma adesso lei è con Jay».
«Stai scherzando? Devi essere coraggiosa a lasciarla con lui» le dico in forma di battuta, ma lei sembra incupirsi.
«Non è la prima volta che fa da babysitter e... non sarà peggio che avere due genitori ex alcolisti, giusto?» si alza da terra, porgendomi la mano.
L'afferro, ritornando finalmente in piedi.
O la pillola ha fatto effetto soltanto ora o Leah è davvero brava a calmare le persone.
«Perché prima lo hai chiamato Thomas?» le domando, mentre apro l'acqua del rubinetto passandomela per tutto il viso e parte del corpo, pur di rinfrescarmi.
«Perché come ti ho detto quell'idiota adora usare soprannomi... non so, forse si sente in un film di 007, ma da quando gli ho detto che l'unico libro che ho provato a leggere in vita mia è stato Gita al faro di Virginia Wolf e che l'ho abbandonato dopo tipo tre pagine, ha iniziato a chiamarmi Virginia. Allora io gli ho chiesto quale fosse il suo autore preferito e ho iniziato a chiamarlo-»
«T. S. Eliot, Thomas Stearns Eliot».
«Brava... ecco perché gli piaci. Te ne intendi di tutta quella roba che lo appassiona... quando parla a me di letteratura non riesco a seguirlo per più di tre secondi» si avvicina allo specchio, per aggiustare il grembiule e raddrizzare la targhetta.
«Eva sei qui dentro?» il viso di Rick fa capolino da un minuscolo spiraglio. La sua espressione è di chiara preoccupazione.
«Sì, scusami se sono andata via così... non mi sono sentita molto bene» cerco di minimizzare quello che è appena accaduto per mantenere un certo contegno almeno davanti a lui.
«Devo andare a lezione, si è fatto tardi».
«Torna con me, tranquillo... vai pure» Leah risponde al mio posto, liquidandolo rapidamente.
Rick è stranito da questa notizia ma, dopo avermi guardata a lungo e aver percepito chiaramente il mio assenso, mi saluta, lasciandoci nuovamente da sole.
«Prenditi tutto il tempo che ti serve per stare meglio, quando sei pronta ti porto io al dormitorio. Tanto ho una pausa di mezz'ora che posso sfruttare quando voglio» mi dà un bacio sulla fronte, prima di ritornare al lavoro.
Mi siedo sul lavabo del bagno e resto in completo silenzio, anche mentale, per una manciata di minuti.
Quando mi sento nuovamente sicura, esco.
Appena Leah mi vede, si toglie la divisa e, facendo roteare le chiavi dell'auto, mi invita a seguirla.
«Ti dispiace se faccio una telefonata veloce a Jay mentre andiamo?».
«No, fa pure» sorrido, immaginandomelo sommerso da pannolini e pappe.
Compone il numero sul cellulare, poggiandolo poi sul cruscotto con il vivavoce.
«Dio che palle Virginia, devi chiamarmi per forza ogni cinque secondi?» si lagna come un bambino. Credo che Lily stia facendo da baby-sitter a lui e non il contrario.
«Come sta mia figlia Tom? È ancora viva?» domanda ironicamente, mentre accende una sigaretta.
«Sta guardando dei video su Youtube piuttosto inquietanti, ha mangiato la frutta e non mi sta calcolando minimamente» si sentono delle strane melodie in sottofondo.
«Brava amore, devi capire già da piccola a quali ragazzi non dare corda».
Mi scappa da ridere.
«Gne gne gne, piuttosto quando torni da lavoro dobbiamo parlare della festa... cazzo che incubo, Oph-».
«Tom ne parliamo dopo, ok?» lo interrompe, sorridendomi nervosamente.
«Ma sei in macchina?» domanda lui, sorpreso.
«Sì, sto accompagnando una mia collega a casa, perciò ti ho zittito... lei non è costretta a sorbirsi i tuoi drammi».
Purtroppo, me li sorbisco anche io, mimo con la bocca.
«Ti capisco» dice lei a bassa voce, mentre finge di impiccarsi con un cappio immaginario.
«Ok va bene, ci vediamo tra due ore. Non tornare se non porti almeno una fetta di torta per me da quella bettola».
«Sì, ciao Tom» attacca, facendo subito dopo un lungo tiro dalla sigaretta.
«Ti ha parlato anche dei miei problemi? Per questo non ti sei sorpresa di avermi vista così prima?» le chiedo, pur conoscendo già la risposta.
«Sì, so tutto. Ti prego di non arrabbiarti, è la prassi... funziona così per noi. Lo sponsor diventa automaticamente un'altra parte di noi, un nostro prolungamento. È importante che io conosca i dettagli di ciò che accade nella sua vita, altrimenti non saprei consigliarlo adeguatamente e sarei pressocché inutile».
«Sì, lo immaginavo. Quindi sai anche del nostro litigio?».
«Credo me lo abbia ripetuto almeno due volte parola per parola» alza gli occhi al cielo, gettando il mozzicone dal finestrino e prendendo subito un'altra sigaretta dal pacchetto.
«Cosa ne pensi tu?» potrebbe essere utile avere un altro parere sulla vicenda, oltre quello di Kate e Jaimie.
«Vuoi che sia totalmente sincera?»
Annuisco, invitandola a proseguire.
«Penso che tu necessiti di un periodo che sia solo tuo. Hai lasciato il tuo fidanzato neanche due mesi fa e sei ancora troppo instabile. Hai bisogno di capire cosa vuoi da te stessa e dove vuoi che la tua dipendenza ti porti. Devi trovare una strategia, un appiglio, un qualsiasi motivo che ti dia la forza per andare avanti, ma questo non sarà mai un uomo e non sarà mai Jay nello specifico. Tutto quello che devi trovare per sopravvivere è dentro di te. E lo stesso direi a Tom. Mi chiama ancora nel cuore della notte perché è in preda a una crisi, molto meno rispetto a prima, questo è certo, ma comunque continua a farlo. Ciò significa che non è ancora pronto a lasciarsi alle spalle quel periodo della sua vita. Ho paura che chiunque provasse a stargli accanto verrebbe annientato dalla sua dipendenza com'è successo a Beth. Nessuno lo merita, specialmente tu. Ricordati che si rimane alcolisti per tutta la vita, anche quando non si beve, il motivo che ti portava a farlo, resta, ben radicato dentro di noi. Basta un niente e anni di sacrificio potrebbero andare nel cesso-».
«Ti è successo?» la interrompo.
«Non a me, a Owen. Quando è nata Lily, i soldi non sembravano bastare mai, abbiamo iniziato a fare entrambi due lavori e praticamente non eravamo mai a casa... lui non ha reagito bene a tutta la pressione ma... l'abbiamo superata» le ultime parole le pronuncia mentre svolta per entrare nel parcheggio del mio dormitorio.
«Tu credi davvero che io possa guarire?».
«No, non guarirai mai... ma credo che tu possa imparare a dominare i tuoi demoni. Puoi vivere con loro, e bada bene, vivere e non sopravvivere. Ciao pulcino, sai dove trovarmi se hai bisogno di me» tira il freno a mano, in corrispondenza della porta d'ingresso. Mi sorride teneramente. Quanto vorrei avere anche io una persona come lei accanto. Non so come abbia fatto, ma è riuscita a leggere perfettamente tutta la situazione tra me e Jay, senza neanche aver bisogno di ascoltare la mia versione della storia.
«Ciao Leah, grazie di tutto» le stringo la mano, prima di lasciarmi alle spalle tutta questa mattinata.
Ho tanto su cui riflettere.
Il primo obiettivo che devo raggiungere è senz'altro quello di annientare quella voce malvagia che dimora dentro la mia testa.
Non è più tempo di essere dominata, è arrivato il momento di dominare.
Spazio autrice:
Con TAOBA molti di voi sanno quanto di me io abbia condiviso. Oggi questo capitolo potrà avervi dato poco ai fini della storia, ma credetemi se vi dico che è stato letteralmente come fare un giro dentro la mia testa.
Non so cos'altro dirvi.
Grazie perché mi siete rimasti accanto in questi mesi,
perché siete diventati una ragione importante per lottare,
proprio per questo motivo oggi il capitolo è dedicato a una persona speciale, grazie a te ogni giorno imparo a credere un po' più in me stessa...
Vi amo,
non mi abbandonate🥀,
Matilde.
Ps. se vi va premete sulla stellina per sostenere me e TAOBA.
Il prossimo capitolo sarà POV Jay, lo so che vi manca...
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