Capitolo 24 - Polvere e macerie
EVA
9 Novembre ore 2.35
«Mi hai sentito? Che cazzo ci fai qui?».
Luke mi rivolge un sorriso inquietante, mentre fa un passo in avanti per entrare nella mia camera. Prontamente, capendo perfettamente le sue intenzioni, gli sbarro l'accesso, frapponendomi tra la porta e l'uscio. Nell'avvicinarmi a lui sento un forte odore di alcool.
«Fammi entrare» annuncia convinto, con un fare un po' troppo autoritario per i miei gusti.
«Ma col cazzo che entri» non riesco a farmi capace del fatto che sia qui, va bene che è ubriaco, ma gli è forse andato di volta il cervello?!
«Sei con lui eh?!» alza la voce, brandendo un dito verso di me.
«Ma lui chi? Tu non stai bene, buonanotte!» faccio per sbattergli la porta in faccia ma il suo piede si inserisce scaltro prima che io possa chiuderla. Così facendo non solo riesce a bloccarla, ma con una spinta la apre, facendomi leggermente balzare all'indietro.
«L'ho visto uscire poco fa, è qui dentro».
«Mi stai facendo paura, qui non c'è nessuno, sono sola» decido di lasciarlo entrare cosicché possa controllare da solo, magari si calmerà.
Non capisco cosa gli sia preso, ma poi a chi si riferisce, a Jay?
«É a piedi, magari ancora non è ancora arrivato, ti dispiace se lo aspetto qui?» ecco che nuovamente quel ghigno gli compare sul volto.
«Certo che mi dispiace! Non voglio che resti, devi andare, davvero... non costringermi a chiamare i ragazzi» provo a essere il più ragionevole possibile, ma non voglio continuare a stare da sola con lui. Il suo atteggiamento mi sta spaventando. Mi sembra che in lui stiano convivendo in questo momento mille personalità diverse, tutte però ugualmente ambigue e malvagie.
«Ah, i ragazzi! Intendi quell'esercito di idioti che ti scopi?» scoppia a ridere in una maniera inquietante, quasi diabolica.
«Sei più ubriaco di quello che pensavo! Tu hai il coraggio di venire qui e parlarmi in questo modo?» la paura lascia spazio al nervosismo. Non gli permetterò di insultarmi ancora, l'ha già fatto più volte questa sera, ma adesso non sono disposta a tollerare altro.
«Stai riprendendo le pillole noto» constata con una punta di cattiveria «avresti dovuto continuare a prenderle anche quando stavi con me, non avremmo fatto questa fine».
«Adesso sarebbe colpa mia?!» mi volto dandogli le spalle, ora sono io a non riuscire a trattenere le risate.
«Tu sei due persone, prima o poi lo scopriranno anche "i ragazzi" chi sei veramente» mima delle virgolette con le dita, ironizzando volutamente sull'appellativo che ho utilizzato per chiamare i miei amici «lo scoprirà anche lui e ti tratterà come ha trattato Beth. Sarai presto un mio avanzo che non gli piacerà più».
«Non credo siano affari tuoi» mi sistemo una sigaretta tra le labbra. Mi sta facendo arrabbiare talmente tanto che mi è venuta un'incontrollabile voglia di fumare.
«Sono affari miei dal momento che io sono quello che qui ti conosce meglio, e anche più a fondo, direi» sembra che con queste parole stia alludendo più alla sfera sessuale che non ad altro.
«Non credo, penso che lui mi conosca molto più di te, se proprio lo vuoi sapere».
Avanza verso di me, mi strappa la sigaretta dalle mani e la getta per terra pestandola nervosamente con la suola. Nel fare tutto ciò si spinge molto oltre il limite, arrivando a un palmo dal mio naso.
«Come hai detto?» il suo alito è tremendo, così pesante che anche solo respirandolo è come se mi stessi ubriacando anche io.
«Hai capito bene» appoggio una mano sul suo petto, facendo pressione nel tentativo di allontanarlo il più possibile.
«Dove sarà finito il tuo amichetto» mi soffia in faccia, facendomi aggrottare le sopracciglia per il disgusto. Sentire di nuovo il suo fiato caldo su di me mi fa rabbrividire.
«Te l'ho già detto, non so a cosa tu ti riferisca, non sta venendo qui» non ho neppure più la forza di replicare, non ce la faccio più a ripeterglielo, sto arrivando a livelli di intolleranza verso la sua persona mai toccati prima d'ora.
«Ti posso chiedere una cosa?» si rivolge a me con un tono improvvisamente mesto. A questo punto credo che affermare che questa sera in lui convivano solo mille personalità sia riduttivo, con sé infatti ne ha portate molte più di quelle che pensavo.
«Se proprio devi» la mia espressione si trasforma in un cipiglio.
«Ci hai già scopato?» la sua voce si riduce a un sussurro.
Scuoto la testa, mentre il cuore prende a pomparmi fortissimo nel petto.
«Dimmi la verità» la pacatezza di prima lascia immediatamente posto alla rabbia.
«No» pronuncio poco convinta e non so nemmeno per quale motivo visto che è la verità.
«Blake dice il contrario» mi rivolge uno sguardo infuocato.
«Non so di co-cosa pa-parli» balbetto presa dall'agitazione, rivedere nuovamente quelle emozioni negative prendere il sopravvento su di lui mi sta seriamente preoccupando.
«Eva, voglio sentirtelo dire... dillo!» mi urla in faccia, avvicinandosi pericolosamente al mio viso. Spero con tutto il cuore che qualcuno da fuori sentendolo gridare possa accorrere in mio soccorso, ormai il suo atteggiamento mi sta spaventando talmente tanto da non riuscire nemmeno a reggermi sulle mie gambe tremanti.
«Non abbiamo fatto sesso» affermo con tutta la finta sicurezza che riesco a ostentare, eppure al tempo stesso indietreggio verso la finestra, come se quest'ultima possa essere una valida via di fuga.
Chissà come ci sono finita in questa situazione, addirittura sono arrivata ad avere paura dell'uomo che amo.
Lui sbuffa rumorosamente, a testimonianza di quanto sia al momento infastidito dal mio tergiversare.
«Ci siamo baciati, è vero, ma non succederà più» non so per quale ragione io mi stia giustificando con lui e né perché addirittura io gli stia promettendo una cosa del genere, probabilmente tutto ciò è dettato dal fatto che in questo istante io sia veramente troppo impaurita dal suo comportamento per non assecondarlo.
«E come bacia? Meglio di così?» mi prende per il volto, stringendo molto forte le sue dita attorno alle mie guance. La pressione si intensifica sempre più man mano che si avvicina alla mia bocca, per poi appoggiare le sue labbra sulle mie e provare a farsi spazio al loro interno con la lingua.
Io però tento di resistergli mantenendo la bocca ben serrata e cercando al tempo stesso di divincolarmi dalla sua presa. La sua mano stringe sempre di più, tanto che non posso non iniziare a provare un fortissimo dolore. Comincio infatti a sentire chiaramente le sue unghie conficcarsi nella mia carne.
Per fortuna delle voci che provengono dal corridoio gli fanno abbassare la guardia quel tanto che basta perché io riesca a sottrarmi dal suo bacio. Non appena lui tenta di avvicinarsi nuovamente, riesco ad assestargli uno schiaffo sul volto con tutta la forza che ho. Di tutta risposta, come se fosse un gesto del tutto naturale, un riflesso incondizionato, lui mi spinge all'indietro, facendomi rovinosamente andare a sbattere con la testa contro la scrivania di Kate.
«Eva scusami, che cazzo ho fatto, scusami» prova a chinarsi verso di me per aiutarmi ad alzarmi, ma io glielo impedisco. Comincio a percepire qualcosa di caldo che mi cola sul viso. Credo si tratti di un po' di sangue che fuoriesce dalla parte superiore del mio volto. La testa pulsa talmente tanto forte da causarmi un dolore intenso che mi impedisce anche solo di muovermi dalla mia posizione.
Eppure, quando mi rendo conto che lui sta avanzando nuovamente verso di me, riesco a trovare la forza che prima mi mancava per cacciarlo dalla mia camera. Lo spingo con tutta la potenza che le mie gracili braccia sono capaci di incanalare, finché non riesco a fargli oltrepassare la porta e a chiudergliela definitivamente in faccia, si spera per sempre.
Mi guardo allo specchio e resto scioccata da quello che vedo. Il sopracciglio destro è spaccato e da esso fuoriesce un fiume di sangue, in più le guance e la mascella sono ancora solcate dall'ombra delle sue dita avide che hanno lasciato su di me delle macchie rossastre che ben presto si trasformeranno in lividi di colore scuro.
Nel frattempo dall'esterno lui mi sta implorando, urlando il mio nome. Mi chiama amore, mentre con una preghiera cantilenante mi chiede di perdonarlo. Fingo che non sia lì, concentrandomi soltanto sulla mia ferita e tappandomi le orecchie con le mani.
Ci vuole molto perché il taglio smetta di sanguinare, ma almeno riesco a rendermi conto del fatto che non necessiti di punti, anche se mi sembra sia comunque una brutta lesione.
Solo quando il sangue si ferma, mi fermo anche io. Finalmente posso liberarmi delle lacrime che avevano riempito i miei occhi. Ancora non mi sembra vero però, non mi rendo conto di quello che è appena accaduto, della gravità di ciò che è successo... e, ancora una volta, come in tutti i momenti più difficili della mia vita, dovrò affrontare un'altra notte buia da sola.
9 novembre ore 14.20
Finalmente il seminario del professor Caulfield in collaborazione con una docente della UCLA è terminato. Se non fosse stato praticamente obbligatorio seguire questa lezione, non sarei mai uscita dalla mia camera. Ho cercato con chili di fondotinta e correttore di cancellare i segni della scorsa notte; i marchi di un amore sbagliato; di un fallimento epocale; della perdita di un anno della mia vita; della fine della mia relazione che credevo fosse stata già sancita quella notte alla Trojans... pensavo che il massimo dolore Luke me lo avesse già arrecato il mese scorso e invece no, solo ieri ho capito realmente cos'è la sofferenza.
Ora non devo far altro che uscire dalla porta dell'edificio in cui sono collocate le aule dove abitualmente seguo i corsi, devo trovare la prima fermata dell'autobus per allontanarmi per qualche ora da tutta questa situazione. Stamattina presto ho preso il minimo indispensabile e l'ho infilato nella mia borsa. Ho indossato una felpa larghissima con un grande cappuccio per evitare che qualcuno potesse riconoscermi nei corridoi e che soprattutto potesse vedere com'è ridotto il mio viso. Sono stata poi costretta a evitare Sophie a lezione, fingendo - complice il buio dell'aula per le proiezioni di alcune diapositive - di non essere mai andata alla conferenza.
Tutto sta andando secondo i piani, tornerò in camera soltanto stasera quando Kate sarà in palestra e mi metterò a letto prima del suo ritorno. Mi comporterò così per un paio di giorni, eviterò di farmi vedere da chiunque mi conosca per tutto il tempo necessario affinché le ferite guariscano o almeno affinché io abbia la possibilità di inventarmi un finto incidente che appaia plausibile agli altri.
Mentre fisso il mio obiettivo - l'agognata maniglia antipanico - come se fosse una sicura via di fuga per tutti i miei problemi, sento una mano arpionarmi la spalla.
Non può essere, cazzo, ero a un passo dalla libertà.
«Eva, possiamo parlare un secondo» quelle parole mi arrivano dritte sulla schiena come un pugno. Jay non deve vedermi così, non deve capire cosa è accaduto, nessuno deve saperlo. Inizialmente il panico prende il sopravvento, portandomi a irrigidire il corpo, ma subito dopo mi costringo a rilassare i muscoli. Devo provare a inventarmi una scusa.
«Sono un po' di fretta, ti scrivo io appena ho tempo» cerco di muovermi in avanti, verso quella tanto desiderata porta, ma la sua presa invece che allentare si fa più stringente.
«Oph guardami, ti prego» sebbene me lo stia chiedendo, il suo sembra più un ordine, è come se pur non sapendolo, lui abbia capito perfettamente ciò che nascondo e stia aspettando solo che sia io a scegliere di dirgli la verità.
«No, devo andare, scusa» appoggio la mia mano sulla sua, cercando così di allontanare quest'ultima dalla mia spalla, non ottenendo però i risultati sperati.
Appena riesco a spostargliela, credo di averla vinta, ma in realtà è lui a staccarsi volontariamente da me e non perché abbia deciso di lasciarmi andare, bensì perché dietro questo gesto si nasconde un intento preciso. Infatti Jay usa quella stessa mano, che prima mi teneva in trappola, per togliermi il cappuccio dalla testa, senza che io possa a quel punto proteggermi in alcun modo.
Non appena si posiziona davanti a me, vorrei morire, tengo lo sguardo rivolto verso il basso come se il solo non guardarlo negli occhi possa impedirgli di vedere i segni sul mio volto.
«Oph?!» mi chiede sconcertato.
Se questa è la sua reazione a guardarmi così, allora se solo potesse vedermi senza trucco chissà cosa ne penserebbe.
«Sono caduta, non è niente» gli rifilo la prima scusa che mi viene in mente e subito rindosso il cappuccio, coprendomi alla meglio gran parte del viso. Spero vivamente che lui se la beva, non saprei e non avrei ora come ora il coraggio di spiegare a nessuno quello che è accaduto ieri.
«Eva non dire cazzate» con un movimento ancora più brusco di quello di prima, fa cadere nuovamente il cappuccio sulle mie spalle. «Porca puttana Oph, queste sono palesemente delle dita di una mano, cos'è successo?» cerca di mantenere la calma, ma dal suo tono di voce si percepisce perfettamente qual è il suo reale stato d'animo.
«No, ti giuro, sono caduta, non è niente... e poi scusami, ma non fingiamo che ieri non sia accaduto nulla, io non dovrei neppure parlarti dopo quello che è successo» riposiziono sul capo per l'ennesima volta il cappuccio e mi allontano da lui, divincolandomi, prima che possa afferrarmi nuovamente.
«Eva» mi chiama mentre continua a seguirmi per tutto il tragitto. Una volta all'esterno, sono comunque determinata a prendere il primo autobus per lasciare il campus, ma lui non sembra assolutamente disposto a lasciarmi andare senza avere da me una spiegazione che sia lontanamente plausibile.
«Ophelia, cazzo, fermati» riesce a raggiungermi e, con un rapido movimento, a cingermi il busto con entrambe le braccia, impedendomi di fatto di proseguire e arpionandomi in modo tale da non potermi liberare in nessun modo.
«Devi dirmi cos'è successo, adesso. Non accetto cazzate come risposte, voglio sapere la verità, qualunque essa sia».
Un bruciore fortissimo si propaga nel mio stomaco. Le mani tremano, sudano, diventano quasi insensibili e troppo sensibili al tempo stesso, mentre la voce sembra mancarmi. Mi sento regredita alla me senza pillole di qualche settimana fa. Peccato che di quella roba io ne stia prendendo sempre di più, una dose giornaliera così alta che di fatto in realtà non sta facendo neppure più effetto.
«Ho dis-discusso con una persona... ma è stata colpa mia, gli ho tirato uno schiaffo... lui, lui non voleva Jay, sono sicura sia stato un errore. Adesso, ti prego, lasciami andare, non ci riesco» il respiro mi si mozza all'improvviso, come se fossi rimasta senz'aria in un istante, mentre le gambe si fanno così pesanti che se potessi divincolarmi dalla sua presa non riuscirei comunque ad alzare un solo piede dal suolo.
«Luke? È stato lui a farti questo?» pronuncia con una dolcezza disarmante che collide con il suo atteggiamento di prima. É probabilmente proprio questa sua pacatezza improvvisa che per un istante mi convince che forse potrei essere sincera, che non accadrà nulla di male se io gli dirò la verità, perciò annuisco semplicemente, per poi tentare di aprire la bocca per argomentare il mio assenso. Non faccio in tempo però a dire nulla che lui lascia la presa, aprendo le sbarre della gabbia nella quale mi aveva intrappolata, lasciandomi improvvisamente esposta a un gelido freddo che però non proviene dall'esterno ma proprio da dentro di me.
Parte come un carro armato, incurante degli ostacoli su cui sarà costretto a passare. É solo quando lo vedo andare via in quel modo che capisco il grande errore che ho commesso a essere sincera. Era molto tempo ormai che lui era in attesa del giusto pretesto per far finalmente scoppiare una guerra con Luke e sono sicura di avergli appena fornito il casus belli perfetto.
Comincio a corrergli dietro, faticando a tenere il suo ritmo. I miei polpacci poco allenati cominciano a bruciare dopo soli pochi minuti di corsa. Jay è una furia ormai, i suoi passi sono così rapidi e al tempo stesso pesanti che mi sembra stia bucando il pavimento, affondando sempre di più negli inferi della sua collera. Quando davanti a me vedo comparire il grande cancello di ingresso del campo da football, non ho più alcun dubbio sulle sue intenzioni.
Scorgo in lontananza almeno una decina di ragazzi impegnati ad allenarsi. Nessuno di loro indossa il casco protettivo, ma tutti hanno la divisa imbottita con i loro nomi stampati a caratteri cubitali sulla schiena. Tra di loro riesco a riconoscere subito soltanto Mad perché è l'unico voltato nella nostra direzione. In lui e nella sua espressione vedo riflessa la preoccupazione nell'osservare la marcia militare che Jay sta compiendo verso il suo obiettivo.
Non faccio in tempo a cercare Luke tra i presenti che Jay si avventa su uno di loro, come se sapesse perfettamente dove lo avrebbe trovato. Lo spinge per terra dalle spalle per poi posizionarsi sopra di lui. L'altro ovviamente del tutto sorpreso e indifeso si trova con la faccia pressata contro l'erbetta verde del campo. Jay non sembra avere alcuna intenzione di fermarsi quando comincia a sferrargli pugni sul lato destro del viso. Uno dopo l'altro, senza alcun controllo. Sul mento, sul labbro, sullo zigomo e persino sulla tempia. Sembra quasi che lui stia sfogando sul corpo inerme di Luke tutta la rabbia accumulata in un'intera vita.
Io sono totalmente bloccata, vorrei urlare, chiedergli di smetterla, di fermarsi, ma nessun grido fuoriesce dalla mia bocca. Vorrei ma non posso. L'unica cosa che sembra risalire su per la mia gola è un grumo di bile, tutto ciò che il mio stomaco contiene, non so più da quante ore non bevo e non mangio.
JJ, che inizialmente era il più lontano dal mio ex, sembra l'unico in grado di spezzare l'immobilità che ha colpito tutti gli altri giocatori, increduli anche loro davanti a tale violenza. Si avventa prontamente sul fratello, spintonandolo quel tanto che basta perché si allontani da Luke. Quest'ultimo resta fermo nella sua posizione, portandosi entrambe le mani sul volto e producendo un lamento straziante. L'altro invece è tenuto ben saldo dal suo gemello, non parla, ma in qualche modo il suo respiro sembra dire molto più delle parole. É quasi come se si fosse trasformato in uno dei predatori più feroci, uno di quelli dalla cui morsa è impossibile liberarsi e tra le cui zanne è impossibile sopravvivere.
«Che cazzo ti è preso?!» JJ urla a suo fratello, mentre continua a tenerlo stretto tra le braccia, impedendogli qualsiasi altro movimento.
L'altro non sembra minimamente disposto a rispondere, continua a guardare la sua preda, ormai stramazzante al suolo, con gli occhi di fuoco.
«Che fai Cook, sei impazzito? Sei forse ubriaco?» Blake si avvicina a Luke, per cercare innanzitutto di aiutarlo ad alzarsi, ma anche e soprattutto per controllare le sue condizioni.
Io nel frattempo resto ferma a qualche passo di distanza. Comincio a sentire le ginocchia cedere sotto il mio peso e infatti dopo poco mi accascio su di esse. Vorrei piangere, ma non riesco a fare nemmeno quello.
«Guardala in faccia Jefferson, guarda cosa le hai fatto... e ricordati che potranno fermarmi un milione di volte ma io ti prometto che ti farò mille volte più male di quello che hai fatto a lei».
É solo quando Jay pronuncia con rabbia queste parole verso Luke, che anche tutti gli altri sembrano fare caso a me. Non so quanti occhi io abbia addosso in questo momento, ma quel che è certo è che non c'è un Trojan che ora non stia guardando nella mia direzione. Il cappuccio mi è ricaduto dalla testa durante la corsa, perciò il mio viso ferito è esposto alle loro occhiate. Leggo nelle loro iridi pietà, curiosità, compassione, sconcerto, rabbia, incredulità... non riesco a reggere ancora neanche un istante sotto la loro lente di ingrandimento, perciò scelgo di nascondermi nuovamente con quel cappuccio, sperando che possa celare almeno le mie ferite esterne, visto che quelle interne sono chiaramente visibili a chiunque, considerato il modo con il quale mi sono abbattuta al suolo e i singhiozzi che sto cercando di trattenere con scarsi risultati.
Blake lascia la mano di Luke come scottato da quel contatto, JJ allo stesso modo allenta la presa sul fratello fino a lasciarlo praticamente libero. Jay tenta a questo punto di sferrare un calcio sulla schiena di Luke che giace ancora per terra dopo il mancato aiuto di Blake, ma un rumore assordante di un fischietto lo fa bloccare, lasciando praticamente a mezz'aria il suo colpo mortale.
«James Cook hai quattro secondi per abbandonare il campo prima che io chiami la polizia e ritieniti fortunato... lo faccio solo per lei» il coach con tutta la calma del mondo, come se fosse abituato a eventi del genere, si frappone con tutta la sua prestanza fisica tra Luke e Jay, aspettando, con lo sguardo fisso negli occhi di quest'ultimo, che lui se ne vada.
Jay, senza dire una parola, si volta nella mia direzione e, posizionandosi anche lui sulle ginocchia, si abbassa fino ad arrivare all'altezza del mio volto. Mi accarezza con attenzione la parte del viso maggiormente ferita rispetto all'altra, mentre si morde nervosamente il labbro fino a farlo sanguinare. Allunga una mano verso di me e, solo una volta intrecciata con la mia, si alza, praticamente sollevandomi.
Andiamo via insieme, in silenzio.
***
«Dovete per forza guardarmi così? Ma soprattutto, è necessario che voi siate tutti qui?».
La 806 non è mai stata tanto popolata come oggi. Matt, Mad, JJ, Kate, Mora e Jay sono posizionati in posti diversi della camera, ma tutti i loro occhi sono rivolti verso una sola direzione: quella del mio letto.
Io sono sdraiata tra le coperte calde con il volto pressato sul cuscino, nel tentativo vano di nascondere le lesioni dalla loro vista compassionevole.
«Ev perché non mi hai chiamata? Perché non sei venuta da me, almeno quando lui è andato via... perché cazzo?! Nel sonno mi era sembrato di sentire delle grida ma non credevo che fossero reali» Jaimie continua a piangere ininterrottamente da un'ora, senza che nessuno sembri capace di darle un po' di conforto, neppure le braccia muscolose di Mad, nelle quali si è prontamente riparata, sembrano darle alcun tipo di sollievo.
«Anche io ho sentito lo stesso lamento ma non avrei mai pensato che» Jay si interrompe per sferrare un pugno sulla scrivania. L'impatto con il legno fa cadere rovinosamente per terra il portapenne della Usc. Tutto il suo contenuto si rovescia sparpagliandosi sul pavimento.
«Dov'eri?» chiedo di getto, non riuscendo a placare la mia curiosità. In effetti Luke aveva il sospetto che lui fosse con me perché lo aveva visto andar via dalla confraternita e, da ciò che ha appena detto, deduco che fosse venuto veramente qui, ma non per me.
«Lo sai dov'ero, ma non è importante, avrei dovuto controllare, fare qualcosa... e invece non ho fatto nulla».
Vorrei tranquillizzarlo in qualche modo, dirgli che non è colpa sua ciò che è accaduto... ma una notifica del mio cellulare mi interrompe. Normalmente non mi fionderei mai in un momento del genere a sbloccarlo, ma riconosco subito quel suono personalizzato. So che quel tipo di notifica appartiene a una sola persona e, malgrado tutto quello che è accaduto, sono estremamente curiosa di vedere che cosa mi abbia scritto. Siccome però ho troppa paura che quello che leggerò possa distruggermi ulteriormente, mi alzo e, portando con me il telefono, mi dirigo verso il bagno, dove con calma avrò modo di farmi coraggio e di scoprire il contenuto del messaggio.
«Dove vai?» pronunciano all'unisono tre voci diverse.
«Non posso neanche più pisciare?» rispondo acida, sbattendo dietro di me la porta del piccolissimo bagno della camera.
Mi siedo sul pavimento, poggiando la schiena sulla parete fredda e, dopo aver preso un lungo respiro, sblocco il cellulare.
Luke:
Lo so che mi odi e credimi mi odio anche io... ma dobbiamo parlare, è urgente.
Ci vediamo fuori dal campus, da Starbucks, se non vuoi venire da sola porta qualcuno con te, ma non un Cook.
Eva:
Che vuoi?
Digito nervosamente e di getto quelle due parole sullo schermo del mio iPhone. So che non dovrei rispondergli, ma non capisco proprio cosa possa spingerlo, dopo quello che è accaduto, a cercare ancora un dialogo con me.
Luke:
Credimi è importante. Ti do il permesso di sputarmi in faccia dopo quello che ti ho fatto... ma ti prego, dobbiamo parlare.
Eva:
Starbucks alle 21.
Esco dall'app "messaggi" e compongo a memoria, senza neppure rifletterci, un numero con prefisso +39.
Dopo due squilli una voce acuta risponde «Ah ma allora sei viva... ciao amica».
«Ciao Gabri, ho poco tempo e perciò vado subito al dunque».
«Sì, già immagino, non ti fanno più effetto giusto?».
«Dimmi cosa fare, ne ho bisogno, almeno stasera... poi da domani ti prometto che farò la brava».
«Eva, io non posso. Lo so che in questa merda ti ci ho messa io, ma non posso più continuare così, io a te ci tengo».
«Non è il momento per i sentimentalismi» alzo la voce più di quanto dovrei e, infatti, il vociare che proveniva dall'altra stanza cessa, come se tutti i presenti si fossero messi in ascolto.
«Gabriella ti prego, dimmi cosa prendere e come prenderlo e ti giuro che smetterò, ma adesso mi devi aiutare» la imploro, cercando di tenere un tono che sia quasi impercettibile per evitare che gli altri mi sentano.
«Polverizza una pillola, e ho detto una, non tre, quindi farai bene ad ascoltarmi o la prossima volta che ci vedremo sarai sdraiata in una cazzo di bara bianca... se vuoi che l'effetto arrivi prima, quella polverina la devi sniffare, è l'unico modo».
«Ma è sicuro? Non l'ho mai fatto» chiedo preoccupata.
Se arrivo a fare anche questo, avrò ufficialmente toccato il fondo.
«Scusami da quando in qua prenderti quella merda in quantità industriale ogni giorno è sicuro? No che non lo è... ma con una, e sottolineo una sola volta, altrimenti ti uccido, non dovrebbe succederti nulla».
«Ok, ti scrivo tra mezz'ora, se non lo faccio non è andata bene» rido, cercando di sdrammatizzare ma ottengo come risposta un vaffanculo, e il bip del telefono che decreta la fine della conversazione.
Prendo una pillola da uno dei flaconi che ho nascosto tra le mie cose in bagno e con il contenitore stesso cerco di frantumarla il più possibile sul lavello. Mi piego titubante e, tenendo chiusa una narice, con l'altra aspiro la polverina bianca. Non so per quale ragione ma, appena compiuto il gesto, comincio a tossire, forse perché un po' di ciò che ho ingerito mi è andato di traverso o non so, ma quei colpi di tosse diventano sempre più forti, tanto da indurmi praticamente il vomito. Esattamente come era già accaduto prima sul campo da football, i conati si scontrano con il nulla che mi riempie lo stomaco, perciò a parte un po' di liquido, non riesco a rimettere altro. Qualcuno bussa alla porta e una voce maschile, che credo appartenga a Matt, mi chiede se è tutto ok. Io rispondo con un sì fin troppo squillante che grida falsità da ogni decibel. Prima di uscire, passo le dita sulla porcellana bianca del lavandino per ripulirla perfettamente dalla polverina e quel che mi resta sulle dita lo succhio, giusto per non perdere neanche un po' di quel principio attivo che mi sta salvando la vita in questo momento.
Chissà infatti da quale lampadario starei penzolando adesso se non avessi questa merda che mi tiene a galla.
Che strano però pensare che fino a qualche mese fa ne ero completamente uscita e che oggi invece per la prima volta io sia caduta così in basso, talmente tanto da nascondere ciò che faccio alle persone che più ci tengono a me, da sniffare degli ansiolitici sul lavandino del mio cazzo di bagno come se fossi una tossica qualunque, tra l'altro avendo già una dose massiccia di non so neanche quale pillola in corpo che, presa nel modo tradizionale, ormai non sembra fare più alcun effetto.
«Siri scrivi un messaggio a Chérie: Ciao Soph, ho bisogno di un favore, ci vediamo fuori da Starbucks qualche minuto prima delle nove.»
Spazio autrice:
Non dico niente.😂😂
Condivido con voi soltanto lo stato della faccia di Luke dopo l'incontro con Jay.
Chissà che vuole ancora...
ma vi prometto che sarà finalmente un'uscita di scena. So che sarete dispiaciute... è un personaggio così bello😂
Grazie perché siete ancora qui,
non mi abbandonate,
vi amo,
Matilde🥀.
Ps. seguitemi su Instagram e Tik Tok per rimanere sempre aggiornate sui miei spoiler e soprattutto per poterci sentire. Aprirò un box domande/imprecazioni anche oggi per sapere cosa ne pensate.
Thanksgiving is coming...
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