Risate e parole inutili (one shot)
Ridevo sempre.
La mia era una risata rumorosa, prorompente, incontenibile, quasi, una di quelle risate che per nascondere avrei dovuto coprire con entrambe le mani, una di quelle che avrebbe fatto girare parecchie teste sorprese, persino infastidite.
Ridevo per le cose più stupide: qualcuno lanciava una penna contro il crocifisso? Ridevo; due persone scherzavano su qualcosa che non potevo capire e che nemmeno mi riguardava? Ridevo; l’insegnante, durante la lezione, cominciava ad alludere al sesso? Ridevo.
Ridevo così tanto che non riuscivo nemmeno a pronunciare due parole in croce, nemmeno per raccontare agli altri quella battuta che tanto mi stava facendo divertire.
Ridevo così tanto che ero diventata quella che rideva sempre, la ragazza dall’umorismo grossolano, che avrebbe riso di tutto, fosse stato stupido, offensivo o inappropriato.
Ridevo, e mentre ridevo mi odiavo. “Non è divertente.” pensavo “Perché sto ridendo? Perché continuo a farlo anche se nessuno mi guarda?”. Più me lo chiedevo, più non riuscivo a smettere.
Ancora, ridevo così spesso che apparivo infantile, imbarazzante, qualcuno di cui vergognarsi. Io stessa me ne vergognavo.
Fossi stata bella, almeno, avrebbe avuto un senso, ma invece non lo ero affatto: con la bocca spalancata, le guance rosse, enormi, tanto da schiacciare gli occhi, che, poverini, sempre più piccoli, non avevano altra scelta che sbattere forti le palpebre, dovevo essere proprio una brutta vista. Grossolana. Comune. Nessuno di speciale.
La odiavo, quella mia risata. Scomposta, disordinata, pazza, addirittura, ecco chi ero mentre ridevo; eppure, non ne potevo fare a meno: il perché non lo sapevo nemmeno io.
Sapevo solo che avrei voluto essere una persona diversa, tutto fuorché quella psicopatica che rideva sempre, parlava a voce alta e si muoveva così tanto da dare il mal di testa. Dio, dovevo essere davvero fastidiosa.
“Vuoi smetterla di muoverti?” mi dicevano i miei compagni di banco.
“Facciamo che da adesso fino alla fine della mattinata chiudi la bocca” mi dicevano tutti.
“Smettila di sospirare così pesantemente” mi diceva quella mia compagna bellissima, che non aveva un capello fuori posto.
“Stai zitta” mi dicevano tutti, ancora, alcuni con il sorriso sulle labbra, leggeri, altri scocciati, stanchi.
“Mi dà fastidio il tuo parlottare continuo.” mi diceva quella ragazza davanti a me, sempre in silenzio, sempre diligente, a cui evidentemente non permettevo di seguire le lezioni.
“Ti rendi conto che parli solo di te?!” ai compagni, si aggiungevano anche i genitori.
Man mano, di commenti di questo genere, me ne cominciarono ad arrivare sempre di più e ogni volta, a cadenza giornaliera, quasi, giuravo tra me e me che avrei finalmente chiuso la bocca, una volta per tutte. Ogni mezzogiorno lo stesso proposito. Ogni mattina il contrario di tutto.
Li odiavo… no, anzi, non li odiavo affatto; no, nemmeno questo… oh! Li odiavo, sì, quanto li odiavo, quegli implacabili portavoce dei miei pensieri più profondi, quei limpidi specchi che avevano più che ragione su tutto. Odiavo loro e detestavo me stessa per lo stesso motivo.
Agitata. No, anzi, perennemente agitata, sempre a cambiare posizione sulla sedia, sdraiata sul banco l’istante prima e dritta contro lo schienale quello dopo.
Logorroica. Dannatamente logorroica. Ci fosse stato un solo momento in cui fossi riuscita a cucirmi la bocca e a tenere a freno quella mia maledetta lingua.
Oh, quanto la odiavo, lei e la mia voce. Troppo acuta, troppo entusiasta, troppo e basta. Riversavo continuamente fiumi di parole, inestinguibili, rapide, anche troppo, farfugliate, borbottate, urlate. Ad ogni ora del giorno, escluse quelle dedicate allo studio, non c’era un momento in cui non avessi la bocca aperta per dire qualcosa, e più parlavo, più mi aprivo alle persone, lasciandomi ridicolosamente spoglia di ogni difesa.
Il pensiero che potessero utilizzare le mie stesse parole contro di me non mi sfiorava nemmeno l’anticamera del cervello e d’altronde non successe mai. L’indifferenza è una piaga sociale peggiore persino dell’odio.
Non lo so nemmeno io, poi, cosa cercassi di ottenere con questo borbottio incessante: che qualcuno si girasse, mi abbracciasse e mi dicesse che non ero sola? Sì, forse, non nego che mi sarebbe piaciuto… oh, quanto l’avrei amato, invece, quell’unico incontro con un’anima che mi comprendesse e quanto l’avrei odiato, l’istante dopo, anche solo per averlo concepito.
D’altronde, quale sarebbe stata la sua utilità? Ero così presa, dalla scuola e da me stessa, che non ne avrei mai trovato il tempo.
Attenzioni, forse, probabilmente mi servivano solo quelle.
Mi viene da chiedermi se non fosse, quindi, solo il grido disperato di quella ragazza sola, ancora bambina, che passava i pomeriggi china sui libri, senza mai amici con cui uscire o con cui parlare; mi viene da chiedermi se quel grido e quella risata non fossero gli unici strumenti che aveva a disposizione per ricordare al mondo che esisteva, che aveva una voce, una voce meravigliosa, fievole, nonostante le sue urla, e che sentiva il disperato bisogno di riempire quel vuoto, quel vuoto rovinoso, che la divorava dentro.
Oh, quanto la odiavo. Quanto mi odiavo. Più parlavo, più sapevo che non avrei dovuto farlo e più continuavo, come un fiume in piena.
Dentro, mi sentivo morire giorno dopo giorno, svuotata dalla solitudine e dall’incomprensione di me stessa e del mondo, ma fuori ridevo sempre.
Ridevo, ridevo e ridevo.
E non potevo farci assolutamente nulla.
Deb's corner
Non pubblicavo su Wattpad da anni, chissà se c'è ancora qualcuno di attivo della vecchia community di Percy Jackson e di tutte le belle personcine che avevo conosciuto nel 2020.
Ho scritto questo flusso di coscienza questo pomeriggio, in un'oretta, perché avevo bisogno di sfogarmi e schiarirmi la testa e trovo che non c'è nulla di migliore che trasformare il proprio dolore e le proprie insicurezze in "arte".
Spero che vi piaccia e che vi possa suscitare qualcosa, anche se spero che non vi ci rivediate troppo <3
Bye
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