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SOLO UN GIOCO

Manuel Ferro non sa perdere.

Non è una cosa che controlla, Dio, gli piacerebbe tanto non andare in escandescenza ogni qualvolta che gioca ad Uno, è rimasto con una sola carta e l'avversario gli butta un più quattro.

Vorrebbe, ma poi si ritrova a serrare la mandibola, a digrignare i denti e diventa tutto rosso in faccia.

Manca il fumo che gli esce dalle orecchie, come tocco finale, ecco.

«3 a 1, ma sei 'na pippa, sei!»

Ecco.

Il fumo dalle orecchie, forse, c'è davvero quando ode quella frase venir pronunciata da Simone Balestra.

È un placido pomeriggio di fine agosto, il sole è ancora alto nel cielo, ma le chiome degli alberi nel giardino di villa Balestra offrono loro un posto all'ombra.

Hanno piazzato in quel punto un tavolo da ping pong blu, con la rete in mezzo che è un po' rotta, però non ha molta importanza; lo hanno recuperato in un mercatino dell'usato poco dopo la fine della scuola e, considerando che nessuno dei due sarebbe partito per le vacanze in qualche località marittima, hanno pensato di prenderlo per occupare i tempi morti estivi.

A Manuel è sembrata persino una grande idea, all'epoca, perché è sempre stato bravo in quel gioco.

Non ha messo in conto il fatto che Simone potesse essere più bravo di lui e, infatti, è una settimana che perde.

Perde miseramente.

Non è nemmeno mai in vantaggio e non segna mai il primo punto.

Siccome odia perdere, tale situazione lo snerva alquanto.

Gli dà proprio fastidio il ghigno soddisfatto che scorge sul viso dell'altro, la sua troppa euforia.

Batte, nervoso, la racchetta rossa sul tavolo e schiocca la lingua sul palato. Cerca di risultare indifferente, quasi non provasse un fastidioso formicolio ai palmi in quel preciso istante.

«'Sta zitto e batti, tocca te» sentenzia.

Simone lo fissa, inclinando il capo su di un lato. Regge la pallina bianca tra indice, medio e pollice, tenendola a mezz'aria.

«Ti brucia, eh?» lo prende in giro, perché è consapevole quanto ciò lo infastidisca e gli piace stuzzicarlo da quel punto di vista.

«Oh, te movi?»

Sviare il discorso: Manuel è bravo in quello, potrebbe prendere la laurea ad honorem per evitamento argomenti scomodi.

Simone scrolla le spalle e obbedisce. Rigira la sua racchetta in una mano e va in battuta; gli è sufficiente un colpo secco, un movimento di polso per far finire la piccola sfera oltre la rete.

Manuel riesce a controbattere per due volte.

Alla terza, tuttavia, Simone segna il suo quarto punto.

«Ti arrendi o continuiamo con 'sta umiliazione?» sogghigna.

Manuel stringe così forte le dita intorno al manico della racchetta da farsi sbiancare le nocche. «C'hai solo culo» borbotta e raccoglie la pallina dal manto erboso.

«Sono almeno trentadue vittorie di fila, non che io le abbia contate.»

«Piantala.»

«Stai a rosica', vero?»

«Io non rosico.»

Simone ride. «Certo che rosichi, non sai perdere.»

Manuel è ben conscio del fatto che quella è la verità.

Lo sa e non c'è bisogno che qualcuno – tantomeno il ragazzo che ha di fronte – glielo faccia presente.

È così, per quanto si impegni a fare in modo che sia diverso.

La retorica frase de l'importante è partecipare non fa per lui.

Poi, magari, in quel caso particolare non è nemmeno una questione di perdere una stupida partita di ping pong.

Manuel Ferro non sa perdere e non si collega solo ad un gioco.

Non è in grado di perdere nemmeno le persone e Simone lo ha perso mesi fa, da quando ha iniziato a frequentare Alberto.

Che nome del cazzo.

«Me pare che stavamo a gioca', non a parla'» tergiversa, ancora una volta. Lancia la pallina e la batte senza alcun preavviso, cogliendo l'altro di sorpresa.

Così segna il suo secondo punto.

«2 a 5, tocca a te» esclama.

«Questo lo hai rubato.»

«Oh, Simò, o giochi o parli.»

Spostare il focus, di nuovo.

Manuel Ferro non sa perdere.

Eppure, quella stupida partita di ping pong la perde, ancora una volta e ancora una volta è esasperato, frustrato dalla sua disfatta, tanto da ignorare gli ulteriori scherni da parte di Simone, lanciare la racchetta sul tavolo e allontanarsi in malo modo.




Il punto, davvero, non è il ping pong.

Manuel e sua madre Anita si sono trasferiti a villa Balestra l'anno prima, l'estate tra la terza superiore e la quarta.

Tra meno di due settimane inizia l'ultimo anno del liceo.

È stata la soluzione migliore, all'epoca, perché le spese dell'affitto erano aumentate troppo, insieme agli arretrati e quell'abitazione è enorme.

Anita sta con Dante, il padre di Simone, quindi è stata la soluzione migliore.

Siete come fratellastri adesso!

Fantastico.

La tua camera è proprio accanto a quella di Simone!

Che felicità.

Che tortura.

Che fortuna sentirlo ridacchiare nel corridoio insieme ad una voce che non è la sua, che gioia averlo sentito in quel modo per un anno intero, che grandiosità averlo persino udito gemere dal piacere insieme a qualcun altro - spera non Alberto - durante la notte.

Che atrocità perdere Simone, per Manuel Ferro che non sa perdere.

Come quando gioca a ping pong.

Quella sera, vuole solo mandare via i pensieri che gli affollano la testa, sebbene utilizzare il plurale non è proprio corretto.

Il pensiero è uno solo.

A villa Balestra c'è una piscina.

Fino allo scorso anno, era dismessa, piena di muschio verde e vuota.

Poi l'hanno fatta pulire, riempire e adesso c'è un grosso specchio d'acqua limpido dentro al quale si riflettono le luci delle lanterne sparse per il giardino.

È un angolo bello, carino, piacevole per passare il tempo, in particolar modo durante le sere d'estate.

Qualche volta ci hanno pure organizzato delle feste con dei compagni di scuola, ma poi Simone è finito con lo sbaciucchiarsi con un tizio di quinto nella casetta di legno adiacente e, da allora, facendo leva sui rimproveri di Dante e Anita, Manuel ha deciso che non ce ne sarebbero state più, di feste.

Una cosa democratica, del resto, tre contro uno.

Eppure, a Manuel è sembrato di perdere anche allora.

È seduto sul bordo della piscina, una gamba allungata in avanti e una piegata, una sigaretta accesa tra indice e medio che si sta consumando con l'aria, dato che ha preso soltanto un tiro.

«Oh, mi hanno scritto gli altri.»

La voce di Simone arriva alle sue orecchie e gli fa roteare gli occhi.

Nemmeno il tempo di rendersene conto e l'altro ragazzo gli è seduto accanto, a gambe incrociate e con il telefono in mano.

Gli altri sono i compagni di classe, la loro solita comitiva, più qualche imbucato da altre sezioni, tra cui quel coglione di Alberto.

«Niente feste in piscina» Manuel alza subito una barricata, senza alcun motivo apparente.

«Lo so, poi mio padre rompe le palle» dice Simone, che di certo non afferra il punto, la ragione per la quale Manuel si è battuto per non fare più feste in casa loro - lui che una festa è sempre una festa.

«Quindi?»

«Quindi pensavano di affittare 'na casa, mettiamo un po' di soldi a testa e possiamo far venire più gente, pure per pagare meno. Sarebbe prima che inizia la scuola, comunque.»

Simone parla tenendo gli occhi sullo schermo del telefono e picchiettando le dita sul touchscreen.

Manuel prova l'impulso di strapparglielo via dalle mani e gettarlo in acqua, ma crede che sarebbe un gesto infantile, immaturo, da persone orribili; deve trattenersi.

«Capito» replica, giusto per avere una reazione diversa dal silenzio. Si porta la sigaretta alla bocca e aspira da essa, soffiando poi il fumo verso l'alto.

Simone aggrotta le sopracciglia, lascia perdere per un attimo il cellulare e gli rivolge uno sguardo confuso. «Tutto qui?» domanda.

«Che?»

«Ti ho—esposto tutto quanto e hai solo da dire capito

«Che te devo dì? Avete già organizzato tutto.»

Un po' lo coglie il suo malumore, ma non, di nuovo, motivi. Abbozza una risata.

«Te rode ancora perché t'ho stracciato a ping pong?»

«Sai che me frega.»

«Figurati, ti si corrode il fegato proprio, la sconfitta ti lacera dentro.»

«Piantala.»

«Vabbè, tanto 'sta festa sicuro la facciamo, Alby porta le birre.»

Alby.

«Che culo.»

«Ha la macchina, così può caricarle, con la moto ci viene difficile. Magari vado ad aiutarlo, non si sa mai.»

Quella conversazione avviene con Simone che riporta l'attenzione sullo smartphone, che riprende a scrivere, che parla facendo altro.

Oltre a non saper perdere, Manuel odia essere ignorato o messo in secondo piano.

Che qualcuno stia al telefono mentre stanno parlando con lui lo manda in escandescenza.

Che Simone parli con Alby mentre è con lui è atroce.

È un miscuglio di sensazioni strane, di impulsi incontrollabili, di rabbia, di guance e orecchie che si tingono di rosso, di non saper perdere.

Con uno scatto, quasi il suo corpo si muovesse da solo, Manuel afferra il cellulare di Simone, glielo strappa dalla mani e lo getta nell'acqua limpida della piscina.

«Oh, ma sei scemo?!» sbotta Simone. Sgrana gli occhi, confuso, perplesso.

E Manuel non sa che spiegazione dargli poiché è stato un istinto primordiale a prevalere, scatenato da diversi fattori, alcuni dei quali non vuole esporre.

Alla faccia della maturità.

Quindi, tace e si alza senza dire nulla, spegnendo la sigaretta sulla pietra intorno alla piscina.

«Manuel!» viene richiamato ancora, ma lui si allontana a passo svelto e lascia che la sua voce sia solo un eco.

È ben conscio di aver sbagliato, si è comportato da bambino e da stronzo, solo per la rabbia di aver perso una partita di ping pong.

No, il punto non è il ping pong, Dio.

È solo una bella scusa.


Per i tre giorni successivi, Manuel evita Simone in più di una occasione, il che, essendo vicini di stanza, risulta alquanto complicato.

Ciò nonostante, riesce nella sua impresa nella maggior parte dei casi, almeno fino al quarto giorno, quando è sistemato su una delle sdraio a righe bianche e rosse posizionate in giardino, per la stagione estiva, col sole che gli batte in faccia e già ha cominciato a farlo sudare.

«Almeno l'hai messa la crema?»

Ecco, evitamento fallito.

E no, non l'ha messa la crema protezione cinquanta che Simone raccomanda sempre a tutti.

Manuel solleva soltanto una palpebra: vede Simone in piedi davanti a lui, di sfuggita, così torna ad avere gli occhi chiusi e non gli risponde.

«Sono andato a prendere un telefono nuovo, sempre che ti interessi.»

«Buon per te.»

«Tua madre ha suggerito di toglierli dai soldi della tua paghetta.»

«C'ho quasi vent'anni, non me serve 'a paghetta.»

«Vabbè, io ho detto di no, comunque, che è stato un incidente, anche se non è vero.»

Sospira, sommesso e frustrato. «Te devo dì grazie?»

«Anche uno scusa se sono stato uno stronzo andrebbe bene.»

Come ovvio, Manuel non ne ha alcuna intenzione.

Continua a non vedere, a ignorare la sua presenza, ma è difficile ignorare Simone Balestra.

Complicato per Manuel Ferro ignorare qualcuno come Simone Balestra quando lui monopolizza ogni suo pensiero.

«Vieni a fare una partita?»

Non ci ha fatto caso, avendo la vista celata, ma Simone ha in mano le due racchette rosse e la pallina bianca per giocare a ping pong.

Ci fa caso adesso, quando Manuel apre gli occhi e l'altro ragazzo non si è mosso, è rimasto lì davanti con quegli stupidi oggetti in mano.

«Non mi va» gli dice, taglia corto.

«A me sì, muoviti.»

«Simò...».

«Sono ancora in tempo a dire che lo hai fatto di proposito a buttare il mio telefono in piscina, anche se non capisco il motivo.»

«Me stai a ricatta'?»

«Da quando dire la verità corrisponde a ricattare?» Simone ride e gli lancia addosso la racchetta. Non di proposito - sì, molto di proposito - colpisce le sue parti basse e gli fa emettere un grido di dolore.

«Andiamo?»

Non si arrende.

E Manuel, con esitazione, tentennamento, gli obbedisce, solo perché non vuole finire nei guai e nemmeno sentire le sue lamentele dopo.

Striscia i piedi sull'erba finché non raggiunge il tavolo blu da ping pong.

Non ha voglia e perderà di nuovo.

Che bellezza.

«Vuoi fare un gioco nel gioco?» propone Simone, in procinto di battuta.

«Cosa?»

«Ad ogni punto che uno fa, può fare una domanda all'altro, ma questo deve dire solo la verità, altrimenti il punto si raddoppia. Si arriva a dieci.»

Manuel aggrotta le sopracciglia. Crede pure di essersi scottato perché le guance gli vanno a fuoco o forse non è per quello, ma per la canottiera bianca e attillata che Simone indossa.

Finge un colpo di tosse. «È un gioco nel gioco stupido» commenta.

«Per te che perdi sempre di sicuro» viene schernito «allora? Ci stai o no?»

Manuel è titubante e no, non gli va, considerando che— beh, è davvero quello che perde, ragion per cui sarebbe come darsi il colpo di grazia da solo.

Ma, del resto, gli ha buttato il telefono in acqua per un motivo nemmeno così valido e allora...

Alla fine, si ritrova ad annuire.

Simone sorride, soddisfatto. Batte la palla, lo fa con uno scatto del polso che la fa rimbalzare sul tavolo blu una volta, due, poi tre.

Mette a segno il primo punto dopo ventidue secondi.

«Punto mio, prima domanda» esclama «e attento che se non sei sincero, vado subito a due.»

Manuel alza gli occhi al cielo, dopo gli fa un cenno col capo per invitarlo a porre quel quesito.

«Perché mi hai buttato il telefono in piscina?»

Se l'aspettava, è lecito. Ringrazia pure che si tratti di quello e non altro. «Odio perdere» replica e rigira la pallina tra le dita.

«Solo per quello?»

«Hai una domanda sola. Batto io.»

Così agisce: colpisce la pallina con la racchetta con forza, mai ne ha usata così tanta; al secondo colpo, allora, fa punto.

Tocca a lui.

Prende un respiro profondo, quasi dovesse prepararsi ad andare in apnea.

«È una cosa seria tra te e quello

Non specifica il nome, è palese a chi si riferisce.

L'ombra di un sorriso appare sul volto di Simone. «No,» dice «ci siamo divertiti per un po', ma siamo amici.»

«Ci scopi con gli amici?» Manuel si pizzica la lingua a quell'uscita, doveva trattenersi.

Che coglione.

Però, Simone rimane quieto. «Hai una domanda sola. Batto io» gli fa il verso.

Segue un nuovo scambio di gioco, dura di più rispetto ai precedenti, probabilmente perché nessuno dei due è intenzionato a fallire e cedere ad una seconda domanda.

Tuttavia, dopo un minuto e mezzo di tiri, ha la meglio Simone, che scoppia in una risata fragorosa.

«2 a 1!» esclama e batte appena la racchetta sul tavolo, inclinando la testa su di un lato. Fissa Manuel, che intanto sbuffa e abbassa lo sguardo.

«Sei geloso di me e Alberto?»

È una domanda secca, decisa, che fa trasalire l'altro ragazzo.

Perché Manuel conosce bene la risposta, ma col cazzo che gli va di esternarla.

Camuffa il tutto con una risata nervosa e si gratta dietro ad un orecchio con due dita. «Manco pe' sogno» attesta ed evita i suoi occhi.

«Okay,» replica Simone «3 a 1.»

«Cosa?»

«Hai appena mentito spudoratamente.»

«Io non ho mentito!» è stizzito.

Simone scrolla le spalle, lo ignora. «Batti o no?»

Manuel ha la racchetta in una mano e la pallina dall'altra. Vorrebbe replicare ancora, sottolineare che non ha detto una menzogna (sì, lo ha fatto).

Prende l'ennesimo respiro profondo.

Si vede costretto a proseguire la partita. Lo fa con decisione, con impeto, tanto da segnare il suo secondo punto.

Manco aspetta che Simone raccolga la pallina da terra che già incalza: «Io ti piaccio ancora?»

L'altro ragazzo si rimette lentamente in piedi. Ha ancora il sorriso sulle labbra, lo stesso che piano si affievolisce.

«Non hai mai smesso di farlo» dice e non riesce a far incrociare i loro sguardi in quel preciso momento.

Manuel serra la mandibola. «E perché...» la sua voce gracchia «perché m'hai messo da parte, allora?»

Gli viene fuori quella confessione con un groppo che si forma nella sua gola e gli impedisce di respirare bene.

Forse non avrebbe dovuto dirlo.

Simone assimila la sua domanda, fa inconsciamente un passo indietro. «Non—non ti ho messo da parte» ribatte.

«Sì, invece» insiste Manuel. Molla la racchetta sul tavolo e si passa una mano sul viso. «Lo hai fatto, dall'anno scorso, io ho—t'ho costretto a prende' 'sto cazzo de tavolo da ping pong pe' fa' 'na mezza cosa insieme visto che sembrava che c'avessi sempre altro da fa', altri impicci, altro...»

In effetti, Simone si ricorda la sua insistenza quel giorno al mercatino dell'usato. È stato uno dei pochi pomeriggi passati insieme, dopo esser stati lontani per un anno intero - sì, erano vicini nello spazio, ma quasi su due mondi contrapposti.

Rimembra pure le cose successe durante la quarta, soprattutto Manuel che si avvicina ad una ragazza nuova nella loro classe e vorrebbe urlargli che, semmai, è il contrario e non è stato lui a metterlo da parte. Si trattiene.

«Tu mi—mi hai ripetuto così tante volte che non eri gay e io ho... solo cercato di restarti amico senza complicare le cose,» tenta di spiegare «ma poi hai iniziato con questi comportamenti strani, a fare il pazzo ogni volta che nominavo qualcuno con cui uscivo e allora ho pensato che...»

Fa una breve pausa, mordendosi piano il labbro inferiore.

«Che ti importasse qualcosa ed evidentemente non mi sbagliavo.»

Ed è così.

Certo che a Manuel importa.

Che assurdità che a Manuel Ferro importi così tanto di Simone Balestra e lo abbia capito solo dopo averlo perso.

Sua madre, una volta, gli ha detto che non è vero, ma lui è sempre stato convinto del contrario.

In quel momento, si sente messo in angolo come durante una partita di boxe durante la quale incassa soltanto colpi e non è più capace di evitarli.

Perde pure in quel caso.

Tiene il capo basso, borbotta un «Lascia stare» e poi si allontana, a passo svelto.


Trascorrono due ore e mezza.

Simone Balestra non è il prototipo di persona che lascia perdere, soprattutto se si tratta di Manuel Ferro.

Anche se pensa di averlo dimenticato, anche se ha provato a metterci una pietra sopra, ma la sua gelosia, i suoi sguardi addosso hanno risvegliato ogni cosa, di prepotenza e gli hanno pure donato una spavalderia è una sicurezza che non credeva possibile.

È per quel motivo che, dopo la conversazione avuta davanti al tavolo di ping-pong - ha vinto di nuovo, tra parentesi - si presenta in camera sua.

È accanto alla propria nella villa, al piano superiore.

Trova l'altro ragazzo sul letto, con il busto appena rialzato su due cuscini, le gambe allungate in avanti e le cuffie senza filo nelle orecchie. È una di quest'ultima che gli toglie con uno scatto, provocando in lui un sonoro sbuffo.

«Ti alzi, per favore?» esclama, gettando la cuffia sul comodino bianco a due cassetti.

Manuel alza gli occhi al cielo. Si mette seduto a gambe incrociate sul materasso e preme pausa sull'applicazione di Spotify che ha aperto sul telefono.

«Che c'è?» biascica. Non lo guarda negli occhi.

Simone resta in piedi, con i pugni stretti lungo i fianchi.

«Hai voluto comprare quel tavolo da ping pong per passare più tempo con me.»

«Seh.»

«Io ti piaccio?»

«Che domanda del cazzo.»

«Io ho risposto, però. Fai lo stesso.»

Manuel sospira, solleva il capo. Vede il suo viso nella poca luce della stanza, proveniente dalla lampada accesa sulla scrivania: Simone ha i capelli appena più lunghi, i ricci morbidi, dovrebbe tagliarli la settimana prima l'inizio del quinto anno; e poi ha ancora addosso quella canottiera bianca attillata che gli fascia i muscoli del petto e la vita sottile.

Sì che gli piace.

Lo ha capito da tempo.

Ha compreso che gli piacciono anche i ragazzi, oltre e che i ragazzi e che Simone gli piace parecchio.

«Che cambia?» mormora.

«Cambia tutto.»

Simone muove qualche passo lento, attento, finché non gli siede accanto. Ignora le lenzuola sgualcite.

«Non serviva il ping pong,» sussurra «per stare con me, intendo». Accenna una risata, priva di alcun entusiasmo. «Anche perché sei una schiappa, diciamolo.»

Forse Manuel riderebbe e lo manderebbe a quel paese, se la situazione fosse diversa. Invece rimane in silenzio, stretto nelle spalle, sentendosi un po' idiota.

Simone esita per un attimo. Dopo allunga una mano, va a posarla sul lato della sua guancia per costringerlo, con delicatezza, a girare il capo e far incrociare i loro sguardi.

«Cambia tutto,» ripete «lo sai che cambia tutto».

La sua voce è un sussurro.

Manuel apprezza quel minuscolo contatto, pare quasi risanarlo dopo tutti quei mesi di ferite aperte.

«Dobbiamo fini' la partita» dice.

«Cosa?»

«Non siamo arrivati a dieci.»

«Ma...»

«Finiamo la partita.»

Simone non ha ben chiaro il motivo per il quale debbano riprendere a giocare con delle racchette nel momento in cui stanno parlando di una cosa importante, tralasciando il fatto che è buio, le luci delle lanterne fuori non sono sufficienti, ci sono le zanzare e un'altra serie di ragioni contro.

Tuttavia, decide di accettare e annuisce.

Così, nemmeno cinque minuti dopo, sono in giardino, con l'aria riempita dai versi delle cicale.

Tornano al tavolo blu da ping-pong.

«A quanto eravamo?» domanda Simone.

«3 a 2 pe' te» risponde Manuel «batto io, te spiace?»

«No, figurati.»

Manuel agisce, pone eccessiva concentrazione in quel lancio per dare inizio ai soliti palleggi.

Questa volta, per fortuna o meno, perché Simone lo lascia vincere, forse, Manuel segna il suo terzo punto.

«Cosa cambia se ti rispondo?» dice «Alla domanda di prima, dico. Che vuol dire tutto

Simone raccoglie la pallina dall'erba, la scuote piano sul tavolo per ripulirla da qualche traccia di terra.

«Cambia che—ti inviterei a bere qualcosa, fuori» replica «e non sarebbe servito un tavolo da ping pong per passare del tempo insieme.»

Non dà il tempo a Manuel di assimilare la replica che già comincia un secondo scambio: va in battuta, fanno altri tiri.

Punto per Simone, 4 a 3.

«Allora ammetti che ti sei comportato in modo strano perché eri geloso? Di Alberto, di Alessandro, di—ogni ragazzo che è venuto a casa nell'ultimo anno.»

Manuel trattiene il respiro. Fatica ancora a incrociare il suo sguardo. «Seh, ero...» biascica e si mangia le parole «quella cosa là.»

«Geloso.»

«Eh.»

«Non sai proprio dirlo, mh?»

«L'hai sprecata 'sta domanda» Manuel taglia corto. Fatica ad ammettere certe cose, è già complicato farlo con sé stesso, figurarsi ad alta voce.

Figurarsi con Simone.

Va nuovamente in battuta, ma la fortuna viene meno e la pallina casca dal suo lato.

Simone sorride.

«Vorresti baciarmi?»

A Manuel pare di soffocare. Non ha previsto quella domanda e non riesce a schivarla. Butta giù a fatica della saliva. Sta sudando e ha caldo. Con la mano libera si gratta nervoso dietro ad un orecchio.

Quel quesito se l'è posto delle volte, più volte.

Se l'è posto quella notte di marzo in terza liceo quando lo ha attirato a sé e ha premuto le labbra sulle sue.

Si ricorda di esserselo chiesto e di aver urlato di sì dentro alla testa, di averlo bramato e desiderato così tanto.

E quel desiderio è presente anche in quel preciso istante, di fronte a quella ben precisa domanda.

Di fronte a Simone che lo fissa, con gli occhi sgranati, i ricci che gli cadono sulla fronte e la canottiera bianca attillata.

Lo vuole.

Tanto.

«Sì» dice, a corto di fiato.

«Sì?»

«Sì, è sì.»

«Puoi farlo.»

Vuole farlo.

«Non è finita la partita.»

«Fanculo la partita.»

Simone ha lasciato la racchetta sul tavolo, ha fatto il giro attorno ad esso e a passi lenti si sta avvicinando all'altro ragazzo.

Manuel resta immobile, paralizzato dal suo appropinquarsi. Trattiene il respiro - che quello è già venuto a meno di suo.

Rimane inerme pure quando Simone gli è davanti.

Stringe ancora la racchetta tra le dita e la pallina è tra i fili d'erba.

C'è poca luce nel giardino di villa Balestra, proveniente dalle lanterne colorate.

Il verso delle cicale è il loro sottofondo, mentre Anita e Dante sono in casa a vedere un film comico abbracciati sul divano.

È una sera di fine estate quando Simone bacia Manuel, tenendo una mano sul lato sinistro del suo collo e l'altra sul suo fianco.

È una sera di fine estate quando Manuel Ferro, che non sa perdere, è felice di aver perso quella partita di ping pong perché vuol dire che non ha perso Simone Balestra.

E non aver perso Simone è come vincere in tutto il resto.

La racchetta gli cade a terra, gli lascia le mani libere e non sa dove metterle. Per un attimo le tiene a mezz'aria, poi la infila tra i ricci dell'altro ragazzo, a livello della nuca. Tira appena le ciocche in quel punto, gli strappa un lieve gemito.

«Dimmi che sei geloso» bofonchia Simone, con le loro bocche ancora in contatto.

Manuel non replica. Ha le palpebre calate, le solleva soltanto di poco.

«Manu...»

«Simó...»

«Sei geloso.»

Stringe di più i suoi capelli e così riesce a fargli portare indietro il capo. «Me fa' rosicà» sbuffa, scocciato.

Non è la frase specifica che vorrebbe sentire Simone, ma si accontenta, mentre gli lascia ancora un bacio a stampo sull'angolo della bocca e, in seguito, gli mordicchia una guancia.

«Me fa' rosicà de più perde a 'sto gioco der cazzo» biascica Manuel.

«Vuoi ancora finire la partita?»

Scuote il capo in cenno di diniego. «No,» soffia «voglio baciarti di nuovo.»

Lo dice in un sussurro, qualcosa che viene a stento recepito, quasi fosse un segreto, una confessione da non far sentire a nessuno.

Simone sorride e annuisce.

Lascia che il loro silenzio si mescoli ai suoni di fine estate e poi si baciano ancora, davanti a quel tavolo da ping pong con una partita lasciata a metà.

***

Quando l'estate finisce e inizia la scuola, Simone e Manuel sono al quinto anno delle scuole superiori.

In classe, qualche sguardo viene scambiato tra di loro, soprattutto con gli avvertimenti dei loro insegnanti sull'esame di maturità che dovranno sostenere da lì a qualche mese.

Non si soffermano troppo sulle loro ripetute allerte.

Non si preoccupano più di tante cose.

Manuel, soprattutto, non lo fa.

Non diventa rosso di rabbia quando qualcuno si avvicina troppo Simone, neppure se si tratta di Alberto, conscio che gli basta affiancarlo e sfiorare la sua mano per ritrovare la serenità.

A volte, la sera giocano ancora a ping pong oppure a carte sul tavolo di legno.

Manuel perde ancora, ogni volta, però ha accanto Simone e, quindi, va bene pure così.

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