Traghettatore
Scusate l'inattività 🥹 La mia vita al momento è piena di cose e non sto riuscendo a scrivere come vorrei (e come vorreste ahaha), però vi lascio questo capitolo che ho solo dovuto sistemare un po'!
Spero di aggiornare presto - ma non lo posso assicurare - buona letturaaa!
***
Mi svegliai sentendomi osservata.
Stesa nel letto e accoccolata sotto il piumino, percepii un paio di occhi studiarmi attentamente e mi venne la pelle d'oca: sentendomi in pericolo, mi irrigidii come una statua e il mio cuore iniziò a scalpitare nel petto, imponendomi di stare all'erta.
«Shhh, rilassati» mormorò una voce sussurrata, e una mano ruvida e callosa mi carezzò la sommità della testa, l'unica parte di me che non era sommersa sotto il piumino.
Spalancai gli occhi ed emersi da sotto le coperte, trovando l'imponente figura di Lùg troneggiare su di me. Egli era comodamente sdraiato sopra il mio piumino, con una mano a reggergli il capo e l'altra ancora intenta a lisciare i miei capelli, e i suoi occhi argentei mi scrutavano tranquilli.
«Che ci fai qui?» sbottai, sottraendomi al suo tocco e faticando a sgusciare fuori dalle coperte, bloccate dal peso del corpo del Generale.
Rotolai giù dal letto in modo goffo e sentii il suo sguardo seguire ogni mio movimento, e arrossii nel rendermi conto di indossare solo una leggera camicia da letto color pastello. Lùg, fortunatamente, non commentò il mio abbigliamento, ma si mise a sedere più comodamente e, incrociando le braccia dietro la testa, mi disse: «Sono venuto a chiederti se hai riflettuto sulla mia proposta, Mezzosangue».
Assottigliai lo sguardo e lo studiai per un lungo momento, cercando di capire le intenzioni che si celavano dietro la sua apparente magnanimità nei miei confronti ma, non leggendo nulla nei suoi oscuri occhi argentei, esalai un lungo respiro e confessai: «Dà un'occhiata fuori dalla finestra».
Il suo sguardo saettò alla vetrata e, nel riconoscere il paesaggio notturno al di fuori, vidi la comprensione illuminare il suo viso spigoloso: «Vedo che hai deciso di andare a Gorias... la mia proposta ti ha fatto gola, Rowan?» mormorò con una profonda soddisfazione nella voce, allungandosi nel mio letto come una pantera pronta a scattare.
Lisciandomi il leggero tessuto della camicia da notte sulle gambe, borbottai: «Sono stanca di sentirmi impotente. Sono stanca di essere sempre impaurita e spaventata, sono stanca di aver sempre bisogno di protezione. Rivoglio i miei poteri» sbottai, dando finalmente voce ai pensieri che mi avevano tarlato la mente nei giorni precedenti.
Il viso di Lùg si illuminò di un ghigno quasi perverso: «Sapevo che l'avresti detto» mormorò, poi mi fece l'occhiolino: «La facciata da agnellino intimorito non ti si addice, Mezzosangue».
Rimasi zitta, non potendo che condividere appieno le parole del Generale: da quando ero arrivata nelle Terre Lontane – anzi, da molto prima di allora, da quando ero ancora nei Tumuli – ero... fuori fase. Spaventata dall'idea che Finvarra mi potesse trovare, impaurita di fronte ai Principi, terrorizzata da Lùg... ero stufa di sentirmi così impotente, così in balia degli eventi. Ed ero stanca di quella versione piagnucolona e lagnosa di me.
«Cosa devo fare?» domandai quindi, avanzando di un paio di passi finché le mie ginocchia toccarono il materasso sul quale lui era ancora steso, «Cosa devo fare per evocarti?» ripetei con convinzione.
Il sorriso di Lùg fu un lampo luminoso nella camera buia e, per la prima volta, percepii un brivido di eccitazione all'idea di stare cospirando con il Generale delle fate in persona... tanto che un oscuro compiacimento mi vibrò nel petto quando egli mormorò: «Brava, mia piccola Mezzosangue».
Il Generale si mise quindi a sedere nel letto e, sprimacciando un cuscino, continuò: «Se vuoi evocarmi, dovrai recuperare la fiala del mio sangue che ho nascosto a Gorias quand'ero giovane».
Aggrottai le sopracciglia, perplessa: «Tutto qui? È sufficiente una fiala del tuo sangue per evocarti?» domandai, poi un ragionamento mi folgorò: «Mi stai dicendo che... che sarebbe sufficiente un po' di sangue di Finvarra per poterlo evocare e... diciamo... ucciderlo?» domandai speranzosa, folgorata dall'immagine di me che evocavo il Sovrano e piazzavo un coltello nel suo cuore prima ancora che egli potesse rendersi conto di ciò che stava accadendo.
Lùg scoppiò a ridere, mettendo in mostra gli affilatissimi canini che brillarono argentei, illuminati dalla luce lunare che inondava la stanza: «Non è così semplice, Mezzosangue: in primo luogo, evocare una fata che non desidera essere evocata è quasi impossibile poiché richiederebbe un'esagerata quantità di potere, che nemmeno io stesso possiedo» mormorò, esponendo alla luce della luna la sua mano sinistra e osservandola con espressione torva, come se potesse vedere l'immensità del potere celato sotto la sua pelle.
I suoi occhi tornarono quindi su di me: «Punto secondo...» ricominciò, «Finvarra non lascerebbe mai una fiala del suo sangue in giro... nessuno sano di mente lo farebbe».
Una muta domanda mi si dipinse sul viso e, con uno scintillio negli occhi argentei, Lùg mi rispose prima che potessi dare voce ai miei pensieri: «Ho detto forse di essere sano di mente, Mezzosangue?» domandò in un soffio, facendomi l'occhiolino con furbizia.
Osservai la sua espressione affilata, lessi l'acuta intelligenza nei suoi occhi chiari, e intuii che il Generale non era affatto un folle, anzi... egli era un passo avanti a tutti gli altri, Finvarra compreso.
Rabbrividii nel rendermi conto che Lùg aveva probabilmente un centinaio di assi nella manica simili a questo e, cercando di non pensare a quanto fosse pericolosa la fata svaccata nel mio letto, sviai l'argomento, balbettando: «E-e il t-terzo punto?».
«Il terzo punto – forse il più importante di tutti – è che tu non potresti evocare Finvarra perché egli, al momento, si trova in un mondo diverso dal tuo... e la materia non può attraversare il mondo se non attraverso le Porte, che si aprono solo quattro volte l'anno».
«E allora come posso evocare te? Tu sei dall'altra parte» osservai confusa, lasciandomi mollemente cadere sul materasso.
Il sorriso di Lùg si fece ferino: «Si dia il caso che io sia una fata molto... speciale. Il mio elemento è la luce, ricordi? Il che mi conferisce l'abilità di trasformarmi in luce stessa... e la luce non è materia, Rowan, quindi la luce può viaggiare fra i mondi. Se tu mi evocherai, io sarò in grado di individuare la Porta e poi di attraversarla, per giungere da te».
Senza darmi modo di rispondere, continuò: «Raggiugi l'Isola dell'Upupa e trova il Mausoleo degli Eroi. Nella catacomba troverai il mio loculo, e nel mio loculo troverai la fiala di sangue che ti serve... la parola d'ordine è luce stellare».
«Luce stellare?» ripetei come un pappagallo, faticando a stare al passo con tutte le informazioni che egli mi aveva riversato addosso come un fiume in piena.
«Luce stellare, sì» confermò Lùg, ed io rimasi a fissarlo, quasi inebetita di fronte alla sua confessione: il Generale mi aveva appena confidato come trovare il suo sangue e come evocarlo.
Mi aveva appena confidato informazioni che avrebbero potuto mettere a rischio la sua stessa vita se solo io ne avessi parlato con le persone giuste, eppure, in quel momento egli appariva rilassato e per nulla preoccupato dalla situazione: le sue labbra sottili erano incurvate in un mesto sorriso e i suoi occhi argentei mi stavano osservando con pacato interesse, scivolando sul mio viso con gentilezza, quasi come se egli stesse valutando la mia reazione.
«Mi stai prendendo in giro?» domandai irritata, incrociando le braccia al petto e squadrandolo male.
«Perché mai dovrei farlo?».
«Cioè tu mi stai dicendo...» esitai, «Che tu, il Generale delle fate in persona, sei stato talmente spudorato da lasciare il tuo sangue in giro per la città... e addirittura ora lo stai venendo a dire a me?».
Il sorriso di Lùg si fece più pronunciato: «Vuoi denunciarmi, Rowan?» sussurrò, poi le sue nocche mi sfiorarono il profilo dello zigomo sinistro: «Vuoi correre a dirlo ai Principi? Vuoi farmi uccidere?» la sua voce fu un mormorio burroso, quasi seducente, come se l'idea che io potessi macchinare per farlo uccidere lo compiacesse.
Serrai le labbra e rimasi ad osservarlo in silenzio, rabbrividendo nel sentire le sue gelide dita sfiorarmi la pelle.
«Non credo tu voglia questo, Rowan. Io credo tu voglia indietro i tuoi poteri a tutti i costi... e credo che tu sappia benissimo che io sono la persona più indicata per aiutarti. Sei venuta a chiedere il mio aiuto... nonostante avessi a disposizione i Quattro Principi delle Terre Lontane, tu hai scelto di chiedere il mio aiuto. E lo avrai, Mezzosangue: ti darò ciò che desideri» sussurrò lentamente Lùg, e le sue parole furono per me più invitanti del melodioso richiamo di una sirena.
Si avvicinò ancora di più a me, tanto che il suo respiro soffiò fra i miei capelli; poi le sue labbra fredde premettero sulla mia fronte in un gesto che mi parve quasi... solenne. Come un'antica tradizione fatata, come una promessa suggellata col sangue.
«Evocami davanti al fuoco, Rowan, e brucia il mio sangue fra le fiamme» mormorò quindi, e le sue labbra sfiorarono la pelle della mia fronte mentre egli sussurrava le ultime istruzioni.
«P-perché lo fai?» la mia voce fu un rauco pigolio e i miei occhi non riuscirono a scostarsi dall'intensità del suo sguardo, «Perché mi stai aiutando?» ribadii, avvicinandomi impercettibilmente a lui come una falena con la fiamma.
Il suo sorriso fu un lampo nel buio e il suo respiro caldo mi accarezzò le labbra quando egli mormorò: «Perché no?».
Poi il suo profumo si dissipò nell'aria ed io mi risvegliai sola, nel mio letto, con la luce del mattino che inondava la camera.
Rimasi immobile nel letto, raggomitolata sotto la spessa coltre di coperte, faticando a processare tutto ciò che Lùg mi aveva rivelato in sogno. Quando infine mi alzai – con la confusione che ancora mi annebbiava la mente – il mio sguardo cadde sulla figura riflessa nello specchio: la mia camicia da letto era stropicciata, i miei capelli un nido indistricabile e le mie guance due pomelli rossi, pronte a fare concorrenza al rossore delle labbra turgide, che avevo torturato fra i denti per i passati dieci minuti.
«Maledetto Lùg» sbottai, odiando il Generale per causarmi sempre sonni agitati e tachicardie mattutine.
Dopo essermi rinfrescata il viso con acqua gelida e sistemata i capelli, acconciandoli in una stretta e lunga treccia, mi vestii con gli abiti lasciatimi dalle cameriere di Morven – una scomoda gonna nera lunga fino ai piedi, una camicia azzurra e una sorta di gilet nero con bottoncini dorati – e uscii dalla mia stanza.
Vagai a zonzo finché non fui intercettata da un valletto, il quale mi scortò nella sala dove Morven era già intento a fare colazione insieme alla donna che avevo visto la sera precedente, Val, e ad altre fate a me sconosciute. Non appena misi piede oltre la soglia, gli occhi di tutti si fissarono su di me, studiandomi attentamente mentre avanzavo lungo la sala: le iridi gialle di Morven erano curiose e la sua postura rilassata, mentre gli occhi di tutti gli altri – Val compresa – mi scrutavano sospettosi, assottigliati in uno sguardo affilato,
«Buongiorno, Rowan» mi salutò il Principe, facendomi cenno di sedere al suo fianco.
«Buongiorno» mormorai, leggermente intimorita dalle numerose fate che mi fissavano con ostilità.
Morven mi domandò come avessi dormito, poi mi presentò ai suoi consiglieri più fidati e mi comunicò che mi avrebbe portata con sé durante la sua visita in Città, per farmi vedere di persona le meraviglie di Gorias: fu così che, finita la colazione, mi ritrovai nuovamente seduta affianco al Principe in una carrozza che procedeva lentamente lungo la stretta striscia di terra che era emersa a causa della bassa marea e che connetteva l'isola sulla quale sorgeva il castello di Morven con l'isola principale dell'arcipelago.
La strada che stavamo percorrendo era una lingua di terra sopraelevata, circondata da ambo i lati dalle acque salate del lago, e con la luce del sole ebbi la conferma che Morven non aveva mentito la sera precedente, dicendo che il lago era un cimitero di barche: alberi e legni, assi e vele erano visibili sul fondale chiaro del lago, ed io rabbrividii nell'immaginare il numero di cadaveri che giaceva in quelle acque.
Distolsi l'attenzione dai relitti affondati e sollevai lo sguardo sulla città in lontananza, che si avvicinava sempre più grazie alla sostenuta velocità della carrozza: vidi le strade del porto brulicare di fate e animali, carrozze e carri; udii i suoni della viva cittadina, le urla dei venditori e i rumori delle attività commerciali; annusai l'odore del pesce e della brace, delle fucine e dei fornai.
«Sembrano contenti» commentai sorpresa una volta che fummo arrivati al porto, osservando bambini correre ai lati della carrozza e inneggiare il nome del loro Principe.
«Certo che lo sono» ribadì Morven, «Gorias è la città più prospera del Regno».
La carrozza si arrestò improvvisamente nel centro di una piazza e l'acuto fischio di uno dei valletti del Principe attirò l'attenzione degli astanti, facendo calare un interessato silenzio.
Morven sfoderò un sorriso sfavillante, che fece luccicare i suoi affilati canini, e saltando giù dal calesse urlò con voce tonante: «Salute, miei concittadini!».
L'entusiasta risposta dei Cittadini mi sorprese ed io sbirciai il modo disinvolto e quasi affettuoso con il quale il Principe si rivolgeva alla folla, padroneggiandola come un burattinaio con i suoi pupazzi: ascoltò le lamentele e fornì soluzioni e giudizi, promise fondi e fece minacce, dando prova di avere in pugno ogni fata del suo popolo. Fu solo verso la fine della visita, quando ormai io mi ero mezza appisolata sui cuscini della carrozza – stanca di sentir parlare di soldi, leggi sconosciute e terre a me ignote – che Morven diresse l'attenzione su di me: «Vi invito infine ad un banchetto a palazzo, questa sera, per omaggiare la mia deliziosa ospite, la signorina O'Brien. Confido che – nonostante il suo status di mezzosangue – venga accolta e trattata con tutti i riguardi di un'ospite reale... non tollererò affronti nei suoi confronti, e chiunque verrà meno a tale obbligo ne risponderà direttamente a me» disse, pronunciando le ultime parole con voce più bassa di un ottavo e voce minacciosa.
Fortunatamente, Morven non mi chiese di raggiungerlo nel centro della piazza né mi presentò ufficialmente ai suoi concittadini, perché le espressioni che lessi sui volti delle fate di Gorias non furono per niente rassicuranti. Nascosta dietro il vetro spesso della carrozza, sbirciai il modo in cui si misero a bisbigliare gli uni con gli altri e ringraziai di avere la protezione della spessa tendina rossa a nascondermi dai loro occhi curiosi.
«Se volete una puttana umana, mio Principe, ve ne posso vendere una delle mie» si levò una voce irata dalla folla, «Ne ho di più belle, ben addestrate e disposte a compiacervi in tutti i vostri... desideri».
Mi irrigidii, orripilata dalle parole della fata. I miei occhi saettarono nella direzione dalla quale avevo sentito provenire la voce, e si fissarono su un uomo alto almeno due metri, corpulento e dalla faccia larga, rubiconda. La fata era di mezz'età, né bella né brutta, ma con uno sguardo perverso negli occhi verdi che mi fece venire la pelle d'oca.
«La tua insolenza ti farà uccidere prima o poi, Valerius» commentò Morven con apparente giovialità, «Se ti vedo anche solo annusare nella direzione della mia ospite, ti faccio impalare davanti al tuo stesso bordello» aggiunse poi, liquidando la fata con un gesto scocciato della mano.
«A questa sera, fedeli concittadini!» concluse infine il Principe, voltando loro le spalle e tornando a grandi falcate verso la carrozza.
Sedette di fronte a me e, sfoderando un sorriso lupesco che mi fece rabbrividire, esclamò con giovialità: «Direi che è andata bene!».
Ignorando il suo commento, partii all'attacco: «Avete... bordelli?» sbottai, odiando il modo in cui le parole della fata continuavano a rimbombarmi nelle orecchie.
«Certo, Mezzosangue. Tutti li hanno».
«E avete... gli schiavi» pigolai, cercando di mantenere la calma.
Un ghigno solcò il volto di Morven: «C'è un motivo se Gorias è la città più fiorente del regno... la nostra manodopera è gratis» commentò, divertito.
Affondai con la schiena nel cuscino della carrozza, ritraendomi da lui disgustata: «Come puoi trovare questo... obbrobrio divertente?!» strillai, «Sono esseri umani!».
«Appunto» ribatté il Principe, sporgendosi verso di me con i gomiti piantati nelle ginocchia e il mento posato sul dorso delle mani giunte, «Sono umani e Mezzosangue senza una briciola di potere nelle vene. Sono inutili».
«Sono come me!» sbottai, disgustata.
Morven mi osservò per un lungo momento, poi si chinò alla mia altezza e mi fissò dritta negli occhi, con le sue pupille verticali ridotte ad una capocchia di spillo nel mare giallo che erano le sue iridi: «Alcuni di loro sono spie dei sovrani mortali, Mezzosangue. Alcuni di loro approdano sulle nostre rive con il solo scopo di apprendere le nostre debolezze, rubare i nostri tesori, le nostre magie, il nostro sangue. Io mi limito a difendere le mie terre... trattenendoli qui per sempre».
«Non tutti sono così! Non tutti sono ribelli!» sbottai, cercando di cancellare dalla mia mente l'odio che avevo visto bruciare negli occhi della donna umana che mi aveva attaccata a Murias.
«Punirli tutti, indiscriminatamente, è il deterrente migliore, Mezzosangue» mormorò Morven, ghignando, «Sono anni che i sovrani mortali cercano lo scontro con noi, ragazzina... se fosse per me, avrei già mandato il mio esercito a sterminarli tutti, quegli umani pulciosi. Purtroppo, però, gli Accordi prevedono che i Quattro Principi debbano essere tutti favorevoli all'entrata in guerra; quindi, io mi ritrovo con le mani legate. L'unica cosa che posso fare per difendere le mie terre è schiacciare ogni tentativo di ribellione... ergo, la schiavitù».
«Sei un bastardo» non riuscii a trattenermi dallo sbottare, «Voi siete delle fate, per gli dèi! Loro sono solo degli umani!».
Morven scoprì i canini e, per la prima volta, vidi la minaccia celata dietro i suoi occhi ferini: «Erano solo degli umani anche quando hanno distrutto Velias, o quando hanno tentato di distruggere Gorias stessa. Se non fosse stato per Lùg, questa Città non sarebbe altro che una landa di sabbia e cenere... grazie ai tuoi amici umani».
La sua voce si fece tagliente: «Devi capire, Mezzosangue, che gli umani non sono dei cucciolotti indifesi, da proteggere e amare. In questo mondo, nel mio mondo, gli umani hanno fatto delle porcate che io stesso faccio fatica a comprendere».
Mi sottrassi ai suoi feroci occhi dorati e fissai ostentatamente la città che scorreva fuori dal finestrino, rimuginando sulle crudeli parole del Principe e torturandomi l'interno di una guancia con i denti.
Per me era così facile vedere le fate come il nemico, come il grande e grosso lupo cattivo... loro erano quelle forti, immortali e potenti, mentre noi eravamo quelli mortali e fragili, facili da spazzare via come una fiammella nel vento. Eppure, le fate di questo mondo si ritenevano le vittime, la parte lesa: Morven, Domhnall, Lùg stesso... tutti mi avevano descritto la guerra come una barbaria dalla quale si erano riusciti a salvare solo per un soffio, quasi come se... come se fossero loro quelli in svantaggio, quelli deboli, come se i loro straordinari poteri non valessero nulla in confronto alle tecnologie sviluppate dagli umani.
Nel mio mondo, l'uomo aveva inventato l'elettricità, le macchine, addirittura i razzi per andare sulla luna... nessuna fata era mai andata sulla luna. L'uomo aveva inventato internet, capace di fornire una risposta a qualunque domanda e di garantire una comunicazione costante in qualunque parte del globo... l'uomo aveva inventato la bomba atomica.
Se gli umani di questo mondo erano anche solo simili a quelli del mio mondo, allora... allora forse non erano così indifesi.
«Raccontami di loro» sbottai irritata ma, in quel momento, la carrozza si arrestò con uno scossone.
Morven mi lanciò un sorrisetto divertito: «Sono contento di aver instillato il seme del dubbio nella tua mente mortale, ma ora ti devo lasciare. Ci sono questioni di cui mi devo occupare» sentenziò, spalancando la porta del calesse.
Girò leggermente il collo nella mia direzione e, scendendo con grazia i gradini, mi disse: «Ci vediamo al porto fra un po'», poi chiuse la porta alle sue spalle e la carrozza ripartì immediatamente.
Rimasi qualche istante inebetita a fissare dal finestrino la sagoma del Principe allontanarsi lungo una stretta via ciottolata, sorpresa che egli mi avesse lasciata sola in una carrozza nel mezzo di una città che odiava in modo viscerale i mezzosangue e, non appena egli fu scomparso dalla mia vista, mi lasciai andare ad un borbottio poco lusinghiero nei suoi confronti.
Il tragitto per raggiungere il porto fu breve e la carrozza si fermò proprio di fronte ad una barca che riconobbi immediatamente come quella che ci aveva scortati dal castello alla città, sulla cui vela sventolava lo stemma dorato del Principe Morven.
«Già di ritorno, signorina?» mi domandò in tono burbero il timoniere non appena mi vide incespicare lungo i gradini della carrozza.
«Il Principe mi ha piantata in asso per andare a svolgere uno dei suoi tanti... compiti principeschi, e mi ha spedita come un pacco qui al molo» borbottai, usando una mano a mo' di visiera per ripararmi dal baluginio del sole che si rifletteva sulle cristalline acque del lago.
La fata dietro il timone ridacchiò: «Morven non è conosciuto per le sue buone maniere» commentò bonariamente, ed io non potei che assentire.
Saltai a bordo della barchetta e, svaccandomi su una panca di prua, rimasi ad osservare le fate affaccendate sul molo, intente a scaricare merci e caricare casse fra le urla e gli strilli tipici di un porto, e origliai le colorite conversazioni dei marinai.
Con gli occhi socchiusi, mi crogiolai nel caldo sole estivo di Gorias, lasciandomi cullare dal leggero dondolio delle onde, finché un gelo improvviso mi penetrò nelle ossa facendomi venire un'inaspettata pelle d'oca.
L'aria si fece immobile e il calore del sole parve farsi freddo, le voci dei marinai si zittirono e le fate sul molo si acquietarono, sospendendo le loro attività e immobilizzandosi.
«Che succede?» domandai, guardandomi intorno e notando che anche il mio timoniere si era bloccato, come se fosse in... in attesa.
I suoi occhi scuri saettarono su di me ed egli sollevò un dito: «Sta arrivando il Traghettatore» mormorò in un soffio, quasi impaurito all'idea di spezzare la quiete che aveva avvolto il molo.
Seguii la direzione da lui indicata e vidi una zattera in legno nero scivolare silenziosamente sull'acqua immobile, senza nemmeno incresparne la superficie cristallina, sospinta da una figura avvolta in un drappo nero che pagaiava con calma fermezza.
Un brivido intenso mi scivolò lungo le spalle e mi strappò la voce dalla gola, e non potei fare altro che rimanere a guardare la zattera solcare le acque del lago risucchiando tutto il calore e la luce del porto.
Quando infine il Traghettatore scomparve all'orizzonte, il sole tornò caldo e le fate parvero riscuotersi dallo stato di trance nel quale erano cadute, riprendendo a vociare e a lavorare come se nulla fosse mai accaduto.
«Cosa... cos'era quella cosa?» domandai in un soffio, passandomi le mani sulle braccia per togliere i residui di gelo che ancora mi increspavano la pelle.
«Il Traghettatore» mi rispose il timoniere, «Colui – o colei, non so dirti, visto che nessuno ha mai visto il suo volto – che conduce le fate all'Isola dell'Upupa».
Sollevai la testa di scatto: «L'Isola dell'Upupa?».
«Sì. È il luogo dove noi seppelliamo in nostri defunti, l'isola più remota dell'Arcipelago» borbottò, toccandosi la collana che pendeva al centro del suo petto in quello che mi parve un gesto scaramantico.
Borbottai un'imprecazione indistinta, rendendomi conto che Lùg – quel maledetto bastardo di Lùg – aveva nascosto il suo sangue proprio nell'isola dei morti. Rabbrividii, rendendomi conto che raggiungere quel luogo non sarebbe stato proprio uno spasso.
«La si può raggiungere solo... con il Traghettatore? Sulla sua zattera?» domandai, cercando di racimolare più informazioni possibili.
La risata del timoniere fu una bassa vibrazione del petto: «La raggiungi sulla zattera solo se sei morta, ragazzina» commentò, poi aggiunse: «Quando il Traghettatore si fa vivo...» rise di nuovo, deliziato dalla sua stessa battuta, «...significa che qualcuno è morto qua in città. Egli ne preleva il corpo, lo porta sull'isola e prepara il defunto per il funerale». Sollevò un braccio e indicò un punto alle mie spalle, dove diverse fate piangenti erano raccolte sul molo: «I familiari e gli amici raggiungeranno il loro caro al tramonto, quando si celebreranno le sue esequie. Un funerale, dopotutto, è l'unica occasione in cui i vivi possono raggiungere l'Isola dell'Upupa».
Osservando distrattamente le fate immobili sulla banchina, in attesa, mi resi conto che per portare a termine il compito che Lùg mi aveva affibbiato avrei dovuto imbucarmi ad un maledetto funerale.
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