Partenze pt.2
«Siete pronti a partire?» la voce di Domhnall mi sorprese alle spalle.
Mi limitai ad annuire, nonostante ogni fibra del mio corpo mi stava strillando di non andarmene da Murias, di non abbandonare la protezione delle mura e i comfort della città.
Ad attenderci appena oltre il muro di cinta della fortezza vi era una carrozza nera, talmente lucida che la vernice rifletteva la luce aranciata delle torce che erano appena state accese sulle torrette difensive del perimetro. A trainarla vi erano quattro stalloni mostruosi che sbuffavano irrequieti, scalpicciando sul terreno fangoso con gli zoccoli e nitrendo di tanto in tanto.
«Accomodatevi» mormorò il Principe, aprendoci la portiera della carrozza con gesti spicci.
«Con voi viaggeranno Sven e Cathair, io invece vi precederò su una seconda carrozza. Abbiamo una scorta silenziosa e discreta, quindi non vi preoccupate se non vedete nessuno: via assicuro che siamo protetti dalle guardie migliori di Murias e che il viaggio è sicuro» disse ed io, nell'accomodarmi nella carrozza, studiai con curiosità le due fate che avrebbero diviso con noi l'abitacolo per i successivi dieci giorni.
Cathair era la guardia che avevo conosciuto il mese precedente, quand'ero arrivata a Murias; era una fata con biondissimi capelli legati in una lunga treccia e rasati sulle tempie, come volevano le tradizioni vichinghe, e penetranti occhi azzurri che si posarono su di me non appena misi piede nell'abitacolo.
«Mia Signora» mormorò ossequioso, ed io arrossii visibilmente.
«Dammi del tu, te ne prego» pigolai, imbarazzata di fronte allo sguardo quasi devoto che il soldato mi stava rivolgendo.
«Siete la nostra Signora, vi dobbiamo il rispetto che merita il vostro rango» si intromise la seconda guardia, tale Sven. Sven era alto e longilineo, con la testa rasata e tatuaggi scuri che parevano prendere vita sul suo cranio, mentre suoi occhi erano di un colore a metà fra il castano ambrato e il verde bosco.
Sussultai quando la carrozza iniziò a muoversi e mi aggrappai al sedile, poi borbottai: «Siamo tutti cittadini, io non ho nulla in più di voi».
«Noi non siamo cittadini» mi corresse Sven, ed io mi sentii annegare nell'imbarazzo: «Oh, ehm, io credevo... scusatemi» balbettai, non sapendo cosa dire e decidendo di tacere per non peggiorare ulteriormente la situazione.
Cathair mi rivolse un sorriso apparentemente sincero e cercò di venire in mio aiuto: «I soldati possono diventare cittadini solo dopo aver servito la città per un determinato numero di anni... noi non siamo nemmeno a metà di questo periodo, ma arriverà anche il nostro momento».
«Oh, è una... è un'ottima notizia» blaterai, «Perdonatemi per non aver avuto molto... tatto» aggiunsi poi nascondendo la testa fra le tendine della finestra, non avendo più il coraggio di guardare i due negli occhi.
Osservai con finto interesse la strada ciottolata snodarsi nella foresta e le ombre farsi via via più lunghe con l'avanzare della sera, mentre la luce filtrava con sempre meno intensità fra le spesse fronde dei rami. Quando infine il crepuscolo si trasformò in notte, gli uccelli smisero di cinguettare e lasciarono posto al lontano bubolare di un gufo e all'acuto stridere dei pipistrelli, e tutto fu nero oltre il finestrino della carrozza. Era per me strabiliante quanto il mondo potesse essere buio – quasi minaccioso – senza le luci delle città in lontananza o i bagliori degli aerei nel cielo, quanto profonda potesse essere l'oscurità di una notte senza luna.
Passarono le ore, lente e inesorabili, ed io sentii la noia ghermirmi con i suoi artigli affilati.
All'ora di cena mangiammo pane e formaggio senza nemmeno fermarci per una breve sosta ed io, per sfuggire al tedio, intavolai una conversazione con le due guardie. Chiacchierammo per un paio d'ore, finché il russare di Labhraidh ci fece esplicitamente intendere che fosse ormai ora di dormire.
Anziché accoccolarmi fra i cuscini e chiudere gli occhi, però, io mi misi a contare le stelle e a cercare di individuare costellazioni a me note al di là del finestrino, cercando di tenermi sveglia in qualche modo: l'idea di addormentarmi e incontrare Lùg nei sogni mi terrorizzava.
Fino a quel momento, ero riuscita a non pensare al Generale: la giornata era stata talmente movimentata e ricca che la mia mente aveva bloccato ogni memoria ed immagine della sera precedente, ma in quella carrozza, nel buio della notte... i ricordi iniziarono a punzecchiarmi, molesti come fastidiose zanzare estive.
Scossi la testa e mi imposi di ricordare a me stessa tutto ciò che mi aveva fatto Lùg nei tumuli, tanto che, in breve, un profondo disgusto mi strinse la bocca dello stomaco in una morsa quasi dolorosa.
Mi sentii nauseata dai suoi occhi argentei, che ancora bruciavano dietro le mie palpebre; schifata dal suo sorrisetto arrogante; orripilata dal modo in cui le sue mani erano scivolate sul mio corpo.
Desiderai potermi fare una doccia bollente per lavare via la sensazione delle sue dita fredde sulla mia pelle.
Digrignai i denti, odiandolo e odiando me stessa e il mio inesistente autocontrollo, e decisi che, per quanto mi riguardava, la faccenda era chiusa: qualunque cosa egli avrebbe detto durante il nostro prossimo incontro, io avrei fatto finta di non ricordare assolutamente nulla. Avrei fatto orecchie da mercante e avrei seppellito la questione sotto metri e metri di bugie.
Incredibilmente, però, i miei desideri furono esauriti: Lùg non popolò i miei incubi quella notte, né quella seguente, né quella dopo ancora. Per ben cinque giorni, i miei sonni furono profondi e silenziosi e i miei sogni furono solo miei, non condivisi con il Generale delle fate.
Durante il sesto giorno di viaggio, Domhnall ricevette un messaggio di fuoco dalla guardia che aveva accompagnato il ribelle umano al Castello Nero, nel quale vi era un dettagliato resoconto circa la perfetta salute dell'uomo; così il nostro viaggio poté proseguire verso Sud, alla volta di Velias.
Viaggiammo attraverso foreste e vasti altipiani, attraversammo fiumi su antichi ponti di pietra e costeggiammo canyon che si aprivano come enormi ferite nella terra.
Per tutte le ore di luce io tenni il naso incollato al finestrino, cercando di assimilare il più possibile di quel mondo, così simile eppure così diverso dal mio: la natura che mi scorreva di fronte agli occhi non era molto diversa da quella che si trovava sulla Terra, eppure... i colori erano più vividi, gli alberi più grandi, l'erba più alta. Non c'era cemento né inquinamento, non c'era nemmeno il molesto strombazzare dei clacson o il rumore delle macchine: c'era solo il rumore degli zoccoli dei cavalli dei radi viandanti che incontravamo per strada, e il cigolio delle ruote del loro carro.
Al settimo giorno di viaggio, decisi che avrei potuto uccidere pur di farmi una doccia calda con tanto sapone e tante bolle. Per due volte, durante le rapide soste che ci consentiva la ferrea tabella di marcia imposta da Domhnall, mi ero andata a lavare alla bell'e meglio nelle ghiacciate acque di un fiume, ma l'esperienza non era stata per nulla soddisfacente: oltre al tremendo intirizzimento che mi rimaneva nelle ossa dopo l'immersione in quelle acque ghiacciate, mi sembrava di non riuscire a levarmi di dosso la polvere secca del terreno, l'odore dei cavalli, la puzza di sudore. Volevo disperatamente del bagnoschiuma, dello shampoo e del balsamo, ma mi sarei anche potuta accontentare delle comodità offerte dal palazzo di Falias o dalla fortezza di Murias, per esempio avere una vasca da bagno o un benedetto gabinetto.
Se c'era una cosa che stavo imparando durante il tragitto era che io ero assolutamente schiava della modernità e che non sarei sopravvissuta in un mondo privo dei comfort a cui ero abituata a casa, in Irlanda... ero troppo viziata.
Al decimo giorno di viaggio, infine, raggiungemmo un villaggio.
«Questo è l'unico insediamento sopravvissuto alla devastazione causata dagli umani» ci comunicò Sven, indicando con il mento le piccole case colorate che si facevano via via più grandi man mano che la carrozza si avvicinava.
«A poche miglia da qui vi è la Foresta Rossa e, una volta al suo interno, non incontreremo né abitazioni né viandanti... nessuno sano di mente si addentra fra quegli alberi da almeno duecento Fuochi Celesti» aggiunse la guardia, seria in volto.
«Come mai? Che c'è di tanto spaventoso?» indagò Labhraidh, scrutando l'orizzonte in cerca di risposte.
Lucien si guardò attorno con discrezione e borbottò: «Si dice... si dice che la foresta sia infestata. Non ci sono più animali, né esseri viventi, eppure parole oscure vengono sussurrate dal vento» abbassò ulteriormente il tono di voce e continuò: «Alcuni viandanti che vi sono entrati non ne sono mai usciti; altri, invece, ne sono usciti... cambiati. Folli».
Sven proruppe in una rauca risata, che mi diede i brividi: «Non credete a questo imbecille» esclamò, lanciando un'occhiataccia a Lucien, «La foresta non è infestata, è solo che le persone sono suggestionabili e si spaventano nell'udire l'ululare del vento».
«E i morti, allora?» sbottò la seconda guardia.
«Erano degli idioti che hanno deciso di avventurarsi fra gli alberi senza abbastanza cibo, o acqua. Lo sanno tutti che nella foresta non ci sono più animali e che le piante sono velenose; quindi, si può dire che se la siano cercata» spiegò con voce burbera Sven.
«Spero che tu abbia ragione» si limitò a ribadire Lucien, poi le due guardie rimasero in un muto silenzio finché arrivammo al piccolo villaggio.
Osservai le casette colorate arroccate sulla collina e studiai gli abitanti, i quali si fermavano a fissare il passaggio delle nostre carrozze sulla via: vidi fate umanoidi e fate con sembianze più grottesche, quasi animali; vidi i pochi giovani correre dietro ai nostri cavalli e i molti vecchi scrutare con espressione incupita le guardie del Principe; vidi l'interesse sui loro volti abbronzati.
Notai come buona parte degli abitanti avesse brillanti occhi dorati e lunghi capelli ramati, e come tutti indossavano abiti leggeri color pastello, che svolazzavano nel vento dell'estate.
«Loro sono gli unici rimasti del popolo di Velias» mormorò Sven, «Una volta, qui vi abitavano i poveri, gli esclusi, coloro che non avevano nemmeno il diritto di entrare nella Capitale... oggi, invece, queste persone sono gli unici superstiti di un intero popolo, gli unici che si salvarono dall'ecatombe passata».
«Quante persone abitavano a Velias?» domandai piano.
«Più di un milione. Era la città più popolosa del regno, e in una notte soltanto è stata trasformata in un ammasso di macerie e ossa fumanti» rispose Lucien ed io rabbrividii, domandandomi cosa avesse visto Lùg quand'era accorso a Velias per cercare di aiutare la popolazione.
La carrozza, infine, si fermò con un brusco scossone. Mi alzai in piedi, grata di potermi finalmente sgranchire le gambe, e scesi dalla vettura, trovandomi di fronte ad una piccola taverna la cui insegna ondeggiava tristemente al vento.
Scortati dalle guardie, io, Labhraidh e Domhnall entrammo nella minuscola osteria ed io mi stupii non poco nell'individuare Alistair, il Principe di Falias, e Daireen, la principessa di Findias, seduti come comuni viaggiatori ad un sudicio tavolo della bettola, intenti a cenare con quello che pareva stufato di coniglio.
«Finalmente eccovi arrivati, miei cari!» esordì Alistair, rivolgendoci un ampio sorriso che illuminò il suo viso dalla pelle olivastra. Il Principe era bello come lo ricordavo, con i riccioli biondi e gli occhi castano-verdi, ma la sua bellezza impallidiva a confronto con quella della donna seduta al suo fianco: Daireen, Principessa di Findias, era la creatura più eterea su cui avessi mai posato lo sguardo. La fata era minuta, dalla pelle nera come l'inchiostro che creava un meraviglioso contrasto con i suoi capelli bianchissimi, e le sue ciglia, anch'esse candide come la neve, coronavano i suoi brillanti occhi nocciola, che in quel momento erano fissi su di me.
«Ciao, Portatrice del Calderone» mi salutò con voce cristallina; poi mi fece cenno con il mento di sedermi al suo fianco.
«B-buonasera, Principessa» balbettai, cercando di sfuggire ai suoi occhi d'oro, capaci di mettere in soggezione anche il più coraggioso degli uomini.
«Avete ricevuto nuove da Morven?» domandò Domhnall senza troppi preamboli, sedendosi al fianco di Alistair e rubandogli una fetta di pane dal piatto.
Alistair lo fulminò con lo sguardo ma non disse nulla, mentre Daireen rispondeva: «Pare abbia avuto qualche... contrattempo con la prova di cittadinanza del suo mezzosangue».
«Che significa?!» sbottai immediatamente, percependo il sangue abbandonare il mio volto e le mani velarsi di sudore freddo. Come Rìan mi aveva chiesto, gli avevo scritto tutti i giorni al tramonto e lui aveva risposto con qualche rapida parola... ma aveva risposto, sempre. Se ci fosse stato qualche problema, se gli fosse successo qualcosa... io l'avrei saputo.
Un sorrisetto spuntò sul viso della Principessa: «Oh, nulla di grave. Il ragazzo sta benissimo, è in viaggio insieme a Morven per venire qui».
Studiai la donna con gli occhi ridotti a due fessure, incerta se credere o meno alle sue parole: «Quando arriverà?» domandai secca.
«Sono a due giorni a cavallo da qui, ma Morven ci ha suggerito di recarci pure al Castello Nero senza di lui, quindi noi partiremo domani alle prime luci dell'alba».
«Non possiamo aspettarli?» protestai, sentendo la preoccupazione per Rìan crescere di secondo in secondo.
«No» fu la secca risposta di Alistair, «Abbiamo già aspettato abbastanza in questo posto dimenticato dagli dei; domani noi partiamo».
Cercai di trattare, ma il Principe fu irremovibile: l'indomani saremmo entrati nella Foresta Rossa, niente e nessuno al mondo l'avrebbe fatto desistere. Fu così che mi misi il cuore in pace e, raggiungendo Labhraidh al bancone dell'osteria, ordinai una porzione di stufato e un boccale di sidro, cercando di consolarmi nel pensare che, almeno, quella notte avremmo mangiato cibo decente, con un vero e proprio tetto sulla testa.
Quella notte, per la prima volta in undici giorni, riuscii a farmi un bagno caldo e a dormire in un letto vero. Il sapone era poco e non molto profumato e il letto era duro e scomodo ma, quando mi infilai sotto le ruvide coperte, mi sentii serena come non lo ero da giorni: ero pulita e rilassata e, nonostante l'ansia che mi attanagliava lo stomaco nel pensare al viaggio che avremmo dovuto intraprendere il giorno successivo e nonostante il rumoroso russare di Labhraidh, riuscii a prendere sonno in pochi minuti.
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