La Proposta
«Arrivo, un secondo!» borbottai, districandomi fra le lenzuola e rotolando giù dal letto, andando poi ad aprire la porta.
Mi trovai di fronte il bel viso di Neacht che, nel vedere l'impronta del cuscino ancora impressa sulla mia guancia, sogghignò.
«Ci aspettano per colazione, quindi fa' in fretta» si limitò a dirmi, girando poi i tacchi e allontanandosi lungo il corridoio con andatura leggiadra.
Sbuffai e, con la mente ancora annebbiata dal sonno, mi ributtai sul letto. Il mio sguardo vacuo si fissò sul soffitto mosaicato della camera e i miei pensieri vorticarono confusi all'incontro avvenuto la notte precedente.
Lúg – il mio acerrimo nemico, colui che odiavo addirittura più di Finvarra – mi aveva lasciata... perplessa. Rimaneva comunque un maledetto bastardo, non vi erano dubbi, però... però aveva delle motivazioni. Non aveva agito solo per il puro gusto di fare del male, ma seguiva un suo contorto schema di mosse, come se stesse sfidando Finvarra a scacchi e fosse finalmente giunto il momento di scuotere un po' la partita. Lúg era pronto a sacrificare qualunque pedina per ottenere ciò che si era prefissato, ma almeno questo lo rendeva... meno folle. L'idea che il Generale seguisse qualche piano era meno spaventosa che crederlo capace di uccidere a sangue freddo per il puro gusto di farlo.
Scossi la testa, irata con me stessa anche solo per il fatto che mi stessi scervellando per analizzare le motivazioni del Generale, e mi vestii in fretta senza nemmeno prestare attenzione a quali abiti stessi indossando.
Dieci minuti più tardi stavo salendo le grandi scalinate insieme a Grania, Neacht e mia nonna, mentre i ragazzi ci stavano già aspettando nella sala da pranzo.
«Buongiorno, zuccherino» mi salutò il Principe Morven con un sorrisetto complice, spostando la sedia da sotto il tavolo per farmi accomodare. Arrossii violentemente di fronte alla sfacciataggine del Principe e borbottai un ringraziamento a mezza voce senza incontrare il suo sguardo ferino.
La tavola era imbandita di leccornie di ogni tipo: vi erano frutti tropicali dai colori sgargianti, alcuni che conoscevo – come manghi e papaie – e altri a me sconosciuti; pasticcini soffici come nuvole e pane fumante appena sfornato; caraffe di succo e teiere sulle quali galleggiavano foglioline e fiori rossi.
«Possiamo... mangiare tutto?» balbettai, rivolgendomi a Morven.
Il Principe rise: «Ti pagherei dieci corone d'oro se ci riuscissi» commentò, facendomi l'occhiolino.
Vi fu un sospiro sconsolato e Alastair, che aveva compreso la mia domanda, aggiunse: «Sì, tutto ciò che vedete è commestibile per gli umani... penso sia così anche per voi».
Chinai la testa in segno di ringraziamento e, rapida come un rapace, allungai le mani su un pasticcino con una spumosa crema azzurro cielo e mi riempii il piatto di fettine di mango.
Qualcuno mi rifilò un calcio al di sotto del tavolo e, soffocando un gemito di dolore, sollevai lo sguardo irritato su mia nonna, la quale mi fissava severa con le mani strette attorno a una tazza di ceramica colma di tè nero.
«Che c'è?» mimai con le labbra e lei accennò con il mento alla sedia vuota posta proprio sotto le ampie vetrate, quella che la sera precedente era stata occupata dal Principe Domhnall.
Sentendomi una selvaggia maleducata, riposi nel piatto il pasticcino che stavo per addentare e nascosi le mani in grembo, aspettando che anche Domhnall facesse il suo ingresso nella sala.
Quando infine udii dei passi risuonare chiari sul pavimento della sala, mi voltai per fissare di sottecchi il Principe e per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva: alla luce del giorno egli appariva meno minaccioso che di notte, e così ne riuscii ad apprezzare la bellezza senza sentirmi il cuore in gola dalla paura.
Domhnall indossava una semplice tunica grigia di tessuto grezzo, fermata in vita da una cintura di cuoio, e i suoi capelli intrecciati scoprivano il bel viso affilato già macchiato di trucco nero.
«Buongiorno» mormorò piano e, sedendosi con grazia, osservò: «Non avreste dovuto aspettarmi... perdonate il ritardo».
Alastair gli fece un cenno con la mano e affondò i denti in una croccante fetta di pane, dando ufficialmente inizio alla colazione.
«Rowan».
La morbida voce del principe Domhnall accarezzò il mio nome e mi fece venire la pelle d'oca.
«Sì, Principe?» pigolai leggermente inquieta, dedicando la mia completa attenzione a quell'uomo così particolare.
«Vorrei parlarvi, dopo colazione... sempre che per voi vada bene. E vorrei parlare anche con il ragazzo» aggiunse, accennando a Rían, il quale stava seguendo la conversazione con espressione attenta nonostante non comprendesse una parola di ciò che il Principe stava dicendo.
«Dritto al punto, eh?» commentò Morven, spazzolando un pasticcino e pulendosi le briciole dalle labbra con la lingua.
«Come sempre» ribadì Domhnall sorseggiando lentamente un calice di succo rosso che somigliava tremendamente a sangue.
Non toccai cibo.
L'ansia di dover dialogare di nuovo tête-à-tête con il Principe mi chiuse lo stomaco, facendomi venire la nausea e impedendomi di ingerire alcunché se non qualche sorso di tè bollente. Rían pareva si sentisse allo stesso modo, infatti lo vidi sbocconcellare una fetta d'anguria senza troppo entusiasmo, mentre i suoi occhi grigi sfrecciavano fra Morven e Domhnall nel vano tentativo di intuire qualcosa dalle loro espressioni.
Quando infine la tortura che era stata la colazione terminò, Alastair sussurrò qualcosa all'orecchio di Domhnall e, ordinando a Donegal di tradurre per lui, invitò i miei amici a seguirlo nella sala del trono.
Rían, senza dire una parola, mi si avvicinò e rimase in piedi alle mie spalle, posando una mano sullo schienale della mia sedia in modo protettivo.
Morven osservò il gesto e sogghignò, sollevando gli occhi al cielo con fare divertito.
«Vorremmo proporvi un accordo» iniziò Domhnall, fissandoci con i suoi profondi occhi neri.
«Sappiate che in questo mondo c'è gente che ucciderebbe per trovarsi nei vostri panni in questo momento» intervenne Morven, sollevando le gambe e posando le scarpe di cuoio sulla tovaglia bianca immacolata, assumendo una posizione sciolta e rilassata.
Tradussi sottovoce per Rían, il quale, fissando i due Principi dritto negli occhi, sbottò: «Sentiamo».
«Vogliamo proporvi di diventare nostri... cittadini».
Aggrottai le sopracciglia: «In che senso?».
«Spiegaglielo tu, Domhnall, sei più coinciso di me con le parole» borbottò Morven sorseggiando un calice di succo come se fosse un prelibato vino d'annata.
«Come avrete ormai capito, nella nostra Confederazione vi sono quattro Città-Stato governate da noi, i quattro Principi. La maggior parte della popolazione vive in queste città, ma non tutti gli abitanti sono cittadini. Diventare cittadini è una fortuna che a non tutti viene offerta... e comporta diversi privilegi, come accesso gratuito alle università, alle biblioteche e alle cure magiche e, soprattutto, protezione assoluta quando il cittadino si trova all'interno delle mura della città».
Gli occhi di Domhnall si fissarono nei miei: «Significa che entrambi sareste intoccabili, se all'interno delle mura».
«Qual è il prezzo?» gli domandai a bruciapelo, e Domhnall sorrise di fronte alla mia schietta richiesta: «Il prezzo è giurare fedeltà alla Città».
Fedeltà... Ecco che compariva di nuovo quella parola, quel concetto che nel mondo delle fate assumeva una connotazione completamente diversa rispetto a ciò a cui ero abituata: ciò che per noi era impegno e dedizione per loro era sangue e sottomissione.
«Rowan, voi dovreste giurare fedeltà alla mia città: Murias; mentre Rían dovrebbe giurare sulle pietre di Gorias, la città di Morven» continuò Domhnall.
«Cosa...» esitai, «Cosa comporta giurare fedeltà ad una città?» chiesi piano, confusa dalla strana proposta che mi era appena stata rivolta.
Morven si raddrizzò sulla sedia e, passandosi una grande mano sulla testa rasata, sentenziò: «Significa giurare di difendere la città ad ogni costo, anche a costo della vita».
Sussultai, ma la mano di Rían si posò rassicurante sulla mia spalla, infondendomi un tiepido calore.
«Come facciamo a sapere che, quando Finvarra attraverserà la porta fra i mondi, voi non ci consegnerete a lui? La fedeltà delle fate, dopotutto, è molto... aleatoria» osservai, rammentando il discorso che avevo avuto poche ore prima con Lúg.
Morven scoppiò a ridere, mettendo in bella mostra gli affilati canini candidi, più lunghi di quelli di qualunque fata avessi incontrato fino a quel momento, e commentò: «Oh, ragazzina, se non fossi una straniera ti avrei già squarciato la gola per la tua impertinenza».
Impallidii, ma Domhnall ignorò il commento del Principe e mi spiegò: «Se anche noi decidessimo di consegnarvi a Finvarra, la Città non lo permetterebbe».
«Ne parlate come se la Città abbia vita propria» osservò Rían con voce bassa e, osservandolo da sopra la spalla, vidi un'espressione perplessa sul suo bel viso.
«Infatti è così. Le quattro Città-Stato furono costruite dagli dei... che vi infusero un alito di spirito, rendendole quasi esseri senzienti. Chiunque dia il proprio sangue alla città diventa parte di essa e da essa ne riceverà protezione».
«Posso sapere...» esitai, lanciando un'occhiata preoccupata a Morven, che mi stava osservando come se mi volesse divorare, e continuai: «Posso sapere perché ci state proponendo questo accordo? Cosa ci guadagnate voi?».
Domhnall allungò le braccia sul tavolo e fece ruotare gli anelli d'argento che gli adornavano le dita con fare pensoso, poi rispose in modo pacato: «Noi siamo i Principi di una Città: se la Città cade, noi non abbiamo più nulla... ma se noi cadiamo, la Città avrà comunque un futuro. Voi due...» i suoi occhi neri scrutarono a fondo prima Rían, poi me, «Voi avete ricevuto in dono i nostri tesori, tesori che il nostro popolo cerca da millenni. Nella spada si trova l'acciaio sul quale è stata costruita Gorias; nel calderone vi sono le anime degli abitanti di Murias. I Tesori appartengono già alle Città... varrà lo stesso per voi?» domandò il Principe inclinando la testa su un lato e mostrando i neri tatuaggi che gli avvolgevano in ampie volute il collo.
«Pensateci» concluse Domnall, alzandosi con un sonoro stridore di sedia sul pavimento.
Morven lo imitò, ma aggiunse: «Non troppo a lungo, però... Finvarra sta arrivando» e ci fece l'occhiolino.
I due Principi lasciarono la sala ed io e Rían restammo soli. L'uomo espirò lentamente e si sedette al mio fianco, passandosi una mano fra i capelli chiari.
«Cosa ne pensi?» mi domandò, con il viso ancora nascosto fra le mani.
«Penso che avere una protezione incondizionata non sarebbe una cattiva cosa» mormorai, attorcigliandomi una ciocca di capelli castani su un dito.
Rían parve cogliere una sfumatura nelle mie parole, infatti domandò: «Cosa intendi?».
Buttai fuori lentamente l'aria dai polmoni e mormorai: «Finvarra è il Sovrano di questo regno, la Confederazione fu instaurata da lui stesso prima di partire per la guerra nel nostro mondo... i quattro Principi potrebbero ancora essergli fedeli».
«Merda» sibilò Rían, buttando la testa all'indietro e fissando il soffitto con sguardo ostile.
«Morven e Domhnall, però, ci stanno dando questa possibilità...» osservai e, rammentando il discorso avuto con Lúg la notte precedente, azzardai: «Forse... Forse loro sanno di non potere nulla contro Finvarra, forse hanno stretto con lui un patto di sangue che impone loro di servirlo... ma, se noi diventassimo cittadini, la nostra incolumità sarebbe garantita dalla città stessa, il che significa che i Prinicipi non potrebbero consegnarci a Finvarra neanche se lui stesso glielo ordinasse».
Le iridi di Rían si accesero di un barlume di comprensione: «Credi che Domhnall e Morven tengano più alle loro città che al loro Signore?» domandò, inclinando la testa e osservandomi incuriosito.
Annuii piano: «Credo che gli interessi dei Principi non collimino più con quelli di Finvarra» mormorai, e mi vidi costretta a distogliere gli occhi dal viso di Rían perché mi parve di vedere il ghigno sornione di Lúg distendergli le labbra, proprio come lo avevo visto fare in sogno.
Restammo in silenzio qualche minuto, ciascuno perso nei propri pensieri, poi Rían sbottò: «Dobbiamo accettare. Se ci stanno offrendo una boa di salvataggio non possiamo non afferrarla».
«E per quanto riguarda le condizioni poste da Alistair? Quel favore?» domandai, inquieta.
I cupi occhi di Rían incontrarono i miei: «Abbiamo un'altra scelta?» ribatté freddamente e, notando il mio prolungato silenzio, confermò: «No, esatto. Alistair ha posto le sue condizioni, e noi non possiamo fare altro che accettarle».
«Non mi piace» borbottai, stringendo le mani a pugno.
«Nemmeno a me» confermò Rían, poi posò il mento sul dorso della mano e borbottò: «Non mi piace nemmeno quello che ha detto Dagda l'altra sera. La storia di quel Castello Nero».
Sospirai e decisi di confidarmi con Rían: «Quel luogo è la dimora di Finvarra, Rían. È il posto dove si trova il suo trono, e fidati di me quando ti dico che la Principessa Daireen aveva il terrore nella voce quando ne ha parlato».
«Come sai tutte queste cose?» indagò Rían, osservandomi con gli occhi stretti in un'espressione sospettosa.
Mi morsi l'interno di una guancia e mormorai: «Ho origliato alcune conversazioni che non avrei dovuto sentire. Essere rimasta cinque anni nei tumuli, dopotutto, è stato utile a qualcosa... tipo imparare la loro lingua» rammentai.
Rían rifletté qualche istante con lo sguardo perso nel vuoto, poi mi si fece più vicino e sussurrò: «Dobbiamo tergiversare, Rowan. Prendiamo tempo, diventiamo loro cittadini, impariamo la loro lingua... e stiamo attenti. Tu cerca di scoprire più cose possibili, soprattutto a proposito di quale sarebbe il nostro ruolo al Castello Nero, e forse avremmo una chance di arrivare preparati. Non so per cosa, ma per ora l'unica cosa che possiamo fare è cercare di ottenere più informazioni possibili».
«Lo farò» promisi, ed ebbi l'orribile sensazione di essere appena diventata la protagonista di un film di spionaggio.
Quando infine raggiungemmo i nostri compagni, li trovammo ad aspettarci nella grande piazza sulla quale si affacciava il palazzo di Alistair.
Quella mattina il cielo blu era fosco a causa della calura e, guardando lontano, verso le montagne alle spalle della città, la vista di faceva tremula, sfocata dal caldo. Non un alito di vento soffiava fra i miei capelli, e le vie della città erano deserte: probabilmente tutti gli abitanti cercavano rifugio dalle temperature proibitive, rintanandosi dietro le tende scure delle finestre.
Gli acuti strilli dei gabbiani riverberavano al di sopra delle case e, a valle, il mare scintillava con un'intensità quasi dolorosa per gli occhi.
«Una barca vi attende al molo per scortarvi alla vostra nave. Sentitevi liberi di confrontarvi con il vostro popolo; noi attendiamo una vostra risposta per domani sera, all'ora di cena. Per qualunque domanda, scriveteci un messaggio di fuoco e vi verremo a prendere» ci istruì Alistair, sorridendoci in modo gentile senza esporre i canini. Il Principe parve esitare un secondo, poi domandò: «Sapete mandare i messaggi di fuoco, vero?».
Daghain raddrizzò le ossute spalle: «Noi vecchi sì, lo sappiamo fare. Temo ci toccherà insegnarlo alle nuove generazioni, visto che loro hanno sostituito i messaggi da strega con quei maledetti telefonini» sbottò, lanciandomi un'occhiataccia eloquente. Molto probabilmente si ricordava di quando, alcune settimane prima, l'avevo presa in giro per l'antiquato metodo di comunicazione che usava per tenersi in contatto con le sue amiche.
«Vecchia bisbetica» sussurrai, facendole una smorfia antipatica.
Dopo che ci fummo accommiatati, ci incamminammo verso il molo percorrendo le silenziose viuzze di Falias, cotte dal sole di mezzogiorno.
«Allora? Che vi hanno detto i Principi?» indagò Labhraidh prendendomi a braccetto e osservandomi con espressione cospiratoria.
Gli raccontai in breve la loro proposta, e i grandi e scuri occhi del mio migliore amico non mi lasciarono un secondo.
Se c'era una cosa che amavo di lui era che era sempre disposto ad ascoltarmi e che, per quanto alle volte fosse un maledetto burlone scansafatiche, sapeva anche essere serio e offrire ottimi consigli.
Lo osservai rimuginare sulle mie parole: due rughe orizzontali gli solcavano la fronte, come sempre succedeva quando stava riflettendo attentamente su qualcosa, e le sue labbra carnose erano strette in una linea sottile. I suoi capelli, lunghi fin sotto al mento, si arricciavano sulle punte conferendogli un aspetto malandrino, e il luminoso sole estivo faceva brillare i fili castani di un intenso color miele, quasi biondo.
Labhraidh era sempre stato bello, ma quel giorno, baciato dal sole e con le gote arrossate dal caldo, lo sembrava ancora di più.
«Row, sei ancora fra noi? A cosa stai pensando?» mi prese in giro, rifilandomi un pizzicotto fra le costole.
«Che sei bello, Labhraidh. Davvero tanto» osservai, senza un briciolo di malizia nelle parole.
Il ragazzo arrossì e abbassò gli occhi a terra: «Tu sì che sai come imbarazzarmi, dannata strega» borbottò, passandosi una mano fra i capelli con un gesto nervoso.
«Oh, avanti, non fare il timido! L'hai sempre saputo di essere bello, non ti sto dicendo nulla di sconvolgente» ribadii, facendogli l'occhiolino.
«Neacht sarebbe fortunata, se voi due decideste finalmente di mettervi insieme» osservai poi, indicando con un cenno del mento la donna, che scendeva leggiadra i gradini di una scaletta, con la nera treccia che le ondeggiava sulla schiena.
«Dici?» domandò Labhraidh, inclinando la testa e fissandomi come se si aspettasse che, da un momento all'altro, gli dicessi che si trattava di uno scherzo.
«Certo. Sei una delle persone migliori che io conosca» confermai, afferrandogli la mano e stringendola fra le mie con affetto.
Lui mi rivolse un mesto sorriso, con le gote rosse, e io adorai il suo imbarazzo di fronte anche al più misero complimento.
Chiacchierammo con leggerezza fino al molo, commentando gli affreschi che vedevamo sui muri delle case e i mosaici della pavimentazione, e mi sentii... felice. Mi sembrava di essere una turista che girovagava con gli amici in un villaggio greco, fra i panni stesi e le case bianche con i tetti piatti, i vasi colorati delle piante e l'edera rampicante che avvolgeva i lampioni al bordo delle vie.
Labhraidh individuò addirittura un gatto che sonnecchiava su un muretto e, quando gli andò vicino per fargli un grattino fra le orecchie, balzò all'indietro scioccato non appena il felino spalancò le ali e volò via soffiando nella sua direzione in modo stizzito.
«Quello era un gatto» osservò con il viso pallido, «Un gatto con le ali» rincarò, sbattendo le palpebre un paio di volte senza distogliere lo sguardo dalla figura alata che era atterrata su un altro muretto e aveva iniziato a leccarsi le ali pelose.
«Quella è una chimera» ci spiegò Donegal usando la nostra lingua, in modo da farsi capire anche da Labhraidh, «Ne vedrete molte in queste terre. Alcune hanno deboli poteri magici, ma la maggior parte sono solo incroci di specie diverse che in questo pianeta prosperano in armonia».
«Che gli dei ci aiutino» borbottai, scioccata almeno quanto lo era il mio migliore amico.
«Avete anche i draghi, in questo continente?» domandai poi, ricordandomi improvvisamente il discorso che avevo fatto con Rían a proposito delle stranezze che ci avrebbero atteso nelle Terre Lontane, e di come io avessi ipotizzato l'esistenza dei draghi.
Donegal aggrottò la fronte: «Cosa sono i draghi?» domandò, perplesso.
«Lucertoloni giganti che volano e sputano fuoco» snocciolai, fissandolo con attesa.
La fata, però, scosse la testa: «No, nulla di tutto ciò. Abbiamo capre sputa-fuoco, però».
«Perché mai... oh, per gli dei!» sbottò Labhraidh, l'espressione a metà fra l'orrore e l'incredulità.
«Fanno un buon latte, utile per le pozioni curative» spiegò Donegal, facendo spallucce come se per lui fosse la cosa più comune del mondo.
«Riportatemi a casa» implorò Labhraidh, sollevando le braccia al cielo e invocando gli dei con atteggiamento supplichevole.
Scoppiai a ridere e, dopo avergli dato uno scappellotto affettuoso sulla nuca, lo presi per mano e ci avviammo dietro agli altri, ormai lontani un centinaio di metri da noi.
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