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Infiltrato

Buonaseraaaa!
Scusate, scusate davvero per l'attesa, ma ho avuto un'estate molto impegnata e non ho più scritto nulla... La storia arranca, ma pian piano procede!
A presto (speriamo!!),
Sara❣️

***

Quella notte ebbi un incubo orrendo.

Ero in una sala anonima, dalle pareti in pietra scura, e osservavo me stessa dall'esterno. Indossavo un completino intimo in pizzo rosso e null'altro addosso, e una luce pericolosa mi illuminava gli occhi. Di fronte a me, in ginocchio sulla pietra, vi era Rían, completamente nudo.

Mi sentii arrossire, ma la me del sogno si limitò a sogghignare soddisfatta.

«Mi sei mancato, amore mio» sussurrò lei, ed io la vidi avvicinarsi con passo felpato a Rían. Gli passò un'unghia sulla guancia e io vidi Rían ritrarsi al suo tocco, quasi... spaventato.

Nella mano della me del sogno comparve una frusta, nera e lunga, che schioccò nell'aria quando lei fletté rapidamente il polso.

«Apri le braccia, amore. Fallo per me, è un ordine» mormorai nel sogno, la mia voce che era una cantilena melliflua e inquietante.

Rían rabbrividì sul pavimento e strinse i pugni, scuotendo violentemente la testa.

«Ti ho dato un ordine» sussurrai di nuovo, accarezzando il suo viso con un unghia smaltata di rosso e girandogli intorno come un predatore pronto ad attaccare.

Le spalle di Rían tremarono e, mentre io – fantasma incorporeo spettatore della scena – gli strillavo di fermarsi, di fuggire da lì, di allontanarsi dalle grinfie della me del sogno, lui aprì le braccia.

La sua schiena scolpita di muscoli e di un dorato color miele fu esposta allo sguardo bramoso della me del sogno, la quale si leccò le labbra prima di far schioccare la frusta.

La pelle di Rían si squarciò in una lunga ferita estesa dalla scapola alla parte bassa della schiena, esponendo i fasci di muscoli e carne viva.

Il sangue sgorgò di un intenso rosso vivo e colò lungo la sua pelle abbronzata, mentre l'uomo non emise nemmeno un gemito.

«Voglio sentirti urlare» mormorai facendo quasi le fusa, schioccando di nuovo la frusta e scavando più a fondo nella schiena dell'uomo, e lui questa volta emise un debole lamento prolungato, carico di sofferenza.

Mi venne da vomitare e cercai di lanciarmi su Rían per coprire il suo corpo martoriato, ma non riuscii a schiodarmi dalla mia posizione di spettatore inerme.

«Più forte... urla per me, maledizione» ringhiai, le gote arrossate dall'eccitazione, e la frusta sferzò di nuovo. L'urlo dell'uomo vibrò nell'aria e il bianco delle coste fece capolino al di sotto dei suoi muscoli maciullati e sanguinanti, e un conato di vomito mi squassò il corpo.

Mi vidi quindi avanzare leggiadra e leccare via il sangue dalla schiena di Rían in un osceno gesto erotico, e le mie unghie laccate di rosso affondarono nel collo dell'uomo. Egli iniziò a sanguinare, ma la sua espressione rimase una vuota maschera di cera, come se non sentisse più niente, nemmeno il dolore fisico.

Osservai con orrore il modo in cui le mie braccia si strinsero attorno ai fianchi di Rían e la mia bocca si posò nell'incavo del suo collo, succhiando il sangue dalla ferita aperta mentre lui rimaneva inerme sotto la mia presa.

«Amami, amore mio» mi sentii mormorare e mi vidi avvinghiata al corpo nudo dell'uomo come una sanguisuga.

Lui cercò di divincolarsi, con l'agonia dipinta in viso e un muto rifiuto negli occhi lacrimosi, ma io lo tenni stretto: «Fa' l'amore con me» gli ordinai in tono imperioso, e ogni tentativo di lotta abbandonò il suo corpo.

Vidi le mani dell'uomo accarezzarmi meccanicamente la schiena, in un gesto privo di qualsiasi forma di desiderio e, fissando i suoi occhi vitrei e vuoti, iniziai a urlare.

Urlai e urlai, serrando gli occhi e cercando di rimuovere ogni traccia dell'orrore a cui avevo appena assistito, sapendo benissimo che quello che la me del sogno stava compiendo era una tortura... e un maledetto stupro.

La gola mi bruciò ma io continuai ad urlare, sperando di svegliarmi da quello che sapevo essere un orrendo incubo, maledicendo il mio subconscio e domandandomi il perché di un sogno tanto malato, finché non percepii una mano posarsi sulla mia spalla.

Sussultai e, scossa dai singhiozzi, mi passai le mani sugli occhi appannati dalle lacrime. Sollevai lo sguardo e fui acciecata dalla luce del sole.

«Rowan? Sei tu?» mi domandò una voce conosciuta e, mettendo a fuoco la sagoma davanti a me, riconobbi Lúg, inondato da una calda luce dorata.

I suoi capelli biondi lunghi fino alla vita scintillavano al sole e, alle sue spalle, un acero rosso era infiammato dei colori dell'autunno; il cielo era di un meraviglioso blu elettrico e l'aria frizzante di ottobre mi soffiò sul viso.

Quando compresi di essere in un sogno indotto dalla sua magia, e non più in quel maledetto incubo, scoppiai a piangere... per il sollievo.

«Grazie» piansi e, circondandomi le gambe con le braccia e stringendomi stretta, ribadii: «Grazie per avermi tirata fuori di lì».

Sentii la sua calda mano muoversi incerta sulla mia schiena, poi percepii il suo corpo muscoloso aderire al mio. Lúg parve tremare alle mie spalle, poi le sue braccia mi circondarono il corpo rigido e il suo calore mi entrò nelle ossa, donandomi il conforto di cui in quel momento avevo bisogno. Senza che me ne rendessi conto, mi accucciai fra le sue braccia e affondai il viso nel suo petto, stringendogli le mani sulla schiena e aggrappandomi alla sua maglietta bianca, grata che ci fosse qualcuno lì con me... anche se quel qualcuno era un bastardo assassino sanguinario.

«"Via" da dove, Rowan?» la sua voce mi arrivò vibrante attraverso il suo costato, con un'inflessione incuriosita ma gentile.

«Ho...» balbettai, sentendomi una stupida, «Ho fatto un incubo davvero, davvero orrendo. Grazie per avermi portata via da lì» confessai, rabbrividendo fra le sue braccia.

Lui mi passò le mani sulle spalle, sfregando la mia pelle come per riscaldarmi, e mormorò: «Anche a me capita, qualche volta» esitò, poi il suo tono si fece più allegro: «Sappi però che questa volta non ti ho cercata io... tu ti sei praticamente catapultata nel mio letto» mi spiegò, e lo sentii sogghignare contro i miei capelli.

Le allusioni nelle sue parole mi fecero rinsavire un poco, infatti mi allontanai da lui a sufficienza da riuscire a fissare i suoi occhi argentei, così simili eppure così diversi da quelli di Rían, e sbottai: «Ti odio ancora, sia chiaro». Per enfatizzare le parole affilai lo sguardo e aggiunsi in un sibilo: «Maledetto bastardo».

Il sorriso sul suo viso si fece più intenso e lui distolse lo sguardo da me, concentrandosi sull'ambiente circostante: «Era una vita che non tornavo qui» mormorò, quasi perplesso.

Mi allontanai dal suo caldo abbraccio e, rabbrividendo nel fresco vento autunnale, domandai: «Dove siamo?».

«A casa mia» fu l'incolore risposta di Lúg e, alzandosi in piedi, si portò una mano sugli occhi per sfuggire al forte riverbero del sole.

Lo imitai e, affilando lo sguardo, fissai gli occhi su un piccolo chalet di montagna, costruito con spesse travi in legno nero e pietre grigie. Fioriere intagliate nei tronchi d'albero erano poste sui davanzali con gialle piantine ormai avvizzite dal freddo che sbucavano secche oltre il bordo di legno.

«Questa è casa tua?» sbottai, non credendo ai miei occhi.

Un biondo sopracciglio di Lúg si sollevò irritato mentre lui mi fissava: «Sì. Non è quello che ti aspettavi?».

«Decisamente no» ammisi, «Pensavo vivessi in una spelonca buia e umida, con il puzzo dei cadaveri delle persone che ti mangi per cena e il loro sangue sulle pareti» ammisi, andandoci giù pesante con la fantasia.

Una grassa risata gli fece vibrare la gola, poi i suoi occhi si fecero più scuri: «Il sangue mi piace caldo...» mormorò e, senza che nemmeno facessi in tempo a registrare i suoi movimenti, mi ritrovai la sua mano stretta attorno alla gola. Sussultai impaurita, ma suoi polpastrelli callosi si limitarono a indugiare sulla mia pelle con leggerezza, sfiorando il mio collo con lente e ruvide carezze.

«...Caldo e preso direttamente da un'arteria» continuò in un roco sussurro e, mentre il battito del mio cuore vibrava rapido contro la sua mano, io tremai sotto le sue iridi improvvisamente scure di desiderio.

«Mi vuoi... uccidere?» sussurrai, la voce flebile che parve un mero soffio di vento.

Lui fissò gli occhi ardenti sul mio collo e io trovai la forza di continuare: «Mi vuoi... mangiare?» balbettai, con i palmi resi umidi di sudore freddo.

I suoi occhi lampeggiarono di una luce pericolosa e, mentre un sorrisetto divertito gli incurvava le labbra, la sua voce si abbassò di qualche tono mentre mormorava: «Non se tu non lo vorrai».

Rabbrividii a quelle parole pur non avendone compreso il significato: «Cioè?».

Lúg tolse la mano dal mio collo e i suoi occhi tornarono su di me, limpidi: «Ti troverò, Rowan, ma non per ucciderti» sentenziò.

Mi massaggiai lentamente il collo, non per il dolore, visto che Lúg non aveva stretto la presa, ma per il freddo improvviso che mi aveva invaso la pelle non appena la sua mano si era scostata dalla mia gola.

«Voglio semplicemente... aiutarti» continuò lui, «Vedilo come un passo verso la mia redenzione. Sarò una sorta di angelo custode maledetto: veglierò su di te, impedendo che vengano fatti errori già compiuti in passato».

«Che errori?» domandai, perplessa.

Un lampo di dolore balenò rapido sul viso di Lúg ed egli mi fissò dritto negli occhi: «Ci sono cose di cui non parlo. Mai. Questa è una di quelle» sentenziò, e mi domandai cosa diavolo fosse successo a Saraid perché il Generale soffrisse ancora in quel modo dopo tutti quegli anni.

«Scusa» mi scivolò dalle labbra, «Sono stata invadente».

La fata scosse la testa e i suoi lunghi capelli pallidi si librarono nel vento come un ventaglio: «Non fa niente. Come procede il tuo soggiorno a Murias?» mi domandò per cambiare argomento.

«È un posto abbastanza... Ehi!» aggrottai le sopracciglia, «Come sai che sono a Murias? Sono arrivata meno di quattro ore fa!».

Lúg fece spallucce: «Finvarra sa sempre tutto» borbottò, ed io mi domandai distrattamente se il Sovrano fosse a conoscenza della decisione del suo Generale di proteggermi da ciò che aveva portato alla morte di Saraid. Probabilmente no, riflettei, altrimenti la testa di Lúg sarebbe già stata infilzata su una picca per alto tradimento, visto il desiderio che aveva Finvarra di aggiungermi alla sua collezione privata di sacche di sangue d'annata.

«E come fa Finvarra a saperlo?» indagai di nuovo, camminando in cerchio nell'erba avvizzita.

«Ha i suoi metodi. Probabilmente usa i suoi corvi per studiare i vostri movimenti» rifletté.

«Usa i corvi? Stai dicendo che Finvarra mi può vedere attraverso gli occhi di un maledetto uccello?!» sbottai, incredula.

«Sì, è uno dei suoi innumerevoli doni, però...» Lúg esitò, aggrottando le sopracciglia, «Vi aveva trovati anche quand'era ancora rinchiuso nei tumuli, ricordi? Quando io sono venuto a prenderti, lui mi aveva detto dove foste».

«E quindi?».

«E quindi non avrebbe potuto essere in grado di localizzarvi, quella volta. Era ancora nei tumuli, dove la sua magia non funzionava» spiegò Lúg, perplesso.

Un campanello d'allarme mi risuonò in testa: «Oh, merda» sibilai, soffocata dalla potenza di un ricordo.

«Sono una stupida. Una scema, un'imbecille...» mi picchiai la mano sulla fronte, ma Lúg mi fermò il polso e mi domandò: «Cosa? Cosa c'è?».

Esitai, non sapendo quanto fosse intelligente rivelare quell'informazione a Lúg, ma alla fine decisi che il suo amore per Saraid sembrava sufficientemente sincero da indurmi a credere che non mi avrebbe consegnata alle grinfie di Finvarra.

«C'è una maledetta talpa, ecco cosa c'è» confessai, «Come cazzo ho fatto a dimenticarmene? Donegal ce lo ha detto sulla tomba di Ivar di Limerick; ha riferito di aver origliato lo sprazzo di una conversazione di Finvarra nella quale emergeva come lui avesse una talpa fra di noi... nelle streghe».

L'espressione di perfetto stupore che si dipinse sul volto del Generale fu sufficiente a farmi comprendere che lui non ne sapeva niente, ma durò solo un istante: la sorpresa sul suo viso sparì, le sue labbra si assottigliarono in una linea sottile e i suoi occhi divennero affilati come rasoi, conferendogli un aspetto terrificante.

Spaventata dalla luce pericolosa che leggevo nei suoi occhi, indietreggiai, memore di quanto fosse micidiale Lúg quand'era incazzato, ma lui mi afferrò il mento con le dita e mi fissò con una ferocia tale da farmi tremare le gambe: «Chi, fra i tuoi, può odiarti talmente tanto da volerti consegnare a Finvarra?» domandò con una terrificante calma piatta.

Deglutii a vuoto e rimasi muta, completamente assoggettata al suo sguardo argenteo, temendo per la mia incolumità.

Lúg inspirò il mio odore e immediatamente il suo viso si rilassò, perdendo l'aspetto terribile del

predatore: «Scusa, non volevo spaventarti. La mia rabbia non è diretta verso di te, Rowan». Le sue dita si rilassarono sulla mia pelle e lui continuò con voce morbida: «Non sto per ucciderti».

Sollevai lo sguardo sui suoi occhi e li trovai limpidi e privi di collera e, mentre la calma riprendeva possesso del corpo del Generale, il mio cuore rallentò i battiti e il respiro mi sfuggì in un controllato soffio d'aria fra le labbra.

«Mi hai... mi hai letto nel pensiero? Lo puoi fare?» gracchiai, leggermente rincuorata dalle sue parole ma ancora scossa.

«Non leggo nel pensiero, Rowan, mi è bastato annusare la tua paura» spiegò con voce bassa Lúg, sfiorandomi la guancia con un pollice.

Arrossii e la vergogna spazzò via ogni traccia residua di paura: «Sei un maledetto pervertito, non ti permettere mai più di annusarmi come un cane!» sbottai, allontanandolo con uno spintone.

Un ghigno tornò a solcare il volto di Lúg, lui si picchiettò il naso con un dito e ribadì: «Segugio, ricordi? L'acre e dolciastro odore della paura è impossibile da non notare».

«Schifoso» sibilai, allontanandomi di qualche passo e facendomi aria con le mani per cercare in qualche modo di allontanare dal mio corpo il puzzo di paura.

Nel vedermi, Lúg scoppiò a ridere divertito: «Non ce n'è bisogno, ormai è andato via. È stato sostituito da...» lo vidi inspirare di nuovo e strillai: «Smettila!».

«Va bene, scusa... Ma non ti arrabbiare» aggiunse, facendomi l'occhiolino con espressione furba.

Ribollii di rabbia e indignazione, ma Lúg smise di darmi il tormento e riprese: «Chi pensi possa essere la spia? Chi ti odia a tal punto da tradire il suo popolo e venderti a Finvarra?».

Mi sedetti a gambe incrociate nel prato e strappai alcuni ciuffi di erba secca: «Non ne ho idea. Sono tanti quelli che mi vorrebbero fuori dai piedi» borbottai, ricordando perfettamente gli sguardi carichi di risentimento che mi riservavano le streghe da quando mi ero svegliata sulla nave.

Lúg parve riflettere qualche istante, poi disse: «Lo scopriremo, non preoccuparti»

Una risata amara mi raspò la gola: «Come faccio a non preoccuparmi?! Uno dei miei mi vuole vendere a un mostro!» strepitai, passandomi nervosamente le mani nei capelli.

Lúg mi posò una mano calda sul ginocchio, e lo sentii dire: «Ti dico di non preoccuparti perché la situazione non è così grave. Fintanto che Finvarra rimane nel Mondo degli umani non può nuocere, il che significa che bisogna trovare la spia prima dell'equinozio d'autunno... quindi abbiamo tempo, Rowan. Io terrò gli occhi aperti da qui, ti farò sapere cosa scopro».

«Io sono inutile, al momento! Sono incastrata a Murias per quella puttanata della cittadinanza, Domhnall non ha voluto aspettare nemmeno un secondo prima di portarmi nella sua città... mi vuole a tutti i costi nelle sue terre» ringhiai, improvvisamente furibonda.

«Domhnall, eh?» rise Lúg, lanciandomi uno sguardo divertito oltre la spalla.

«Lo conosci?».

«Certo. Domhnall è... giovane. Idealista. Ma non credevo fosse spietato al punto tale da far fuori il suo Signore e di prenderne il posto».

«Ho sentito dire che è diventato un vegetale, pare che Domhnall gli abbia fritto il cervello» gli feci sapere, ricordando la conversazione avuta con Daireen.

Lúg fece un lento fischio di ammirazione: «Il Principino non è sciocco, non lo si può negare... soprattutto è stato furbo, da parte sua, offrirti la cittadinanza» mi disse, osservandomi con i suoi occhi argentei luminosi di sole.

«Io non...» tentennai qualche istante, poi domandai piano: «Non ho fatto un... un errore, vero?».

Incredibilmente, ritenevo fosse importante avere l'opinione di Lúg a proposito di questa questione: non mi fidavo di lui, ovviamente, ma il Generale rimaneva pur sempre una delle fate più antiche che io avessi conosciuto... forse la più antica, seconda solo a Finvarra. Se c'era qualcuno in grado di darmi un consiglio circa il modo migliore di muoversi nel mondo delle fate, beh, quello era sicuramente Lúg e, vista la sua improvvisa benevolenza nei miei confronti, ne avrei sicuramente approfittato.

Il Generale ridacchiò e mi lanciò un'occhiata divertita: «Cerchi il mio consiglio, piccola mezzosangue?» mi domandò, e sulle sue labbra quella parola non suonò come un insulto, solo come un... banale aggettivo.

«Sì» ammisi candidamente, stringendomi nelle spalle.

«No, non hai fatto un errore, anzi: le mura di Murias sono la protezione migliore che tu possa avere nel mondo delle fate. Sarebbe una buona cosa se tu riuscissi a superare la prova per diventare una Cittadina» mormorò, rivolgendomi un sorriso che sembrava quasi... incoraggiante.

«Prova?» domandai, perplessa, «Che prova?».

Lúg alzò gli occhi al cielo, incredulo: «Per gli dei, non mi dire di aver accettato di diventare Cittadina senza nemmeno sapere come si svolge la procedura!».

Inorridii, rendendomi conto del madornale errore che avevo compiuto, e balbettai: «I-io... io credevo di dover firmare qualche carta...».

Lúg scoppiò a ridere e si lasciò cadere all'indietro nell'erba secca, conficcando i gomiti nel terreno e rimanendo semisdraiato a fissarmi con gli occhi colmi di divertimento.

«"Firmare qualche carta"» mi scimmiottò, «Sei così ingenua, mezzosangue, che mi fai quasi tenerezza».

«Punto primo» cominciò, sollevando il dito indice e fissandomi con serietà: «Nel nostro mondo le firme non valgono niente, ricordatelo bene. L'unica cosa che vale, per noi, è il sangue: giura col sangue e nessuno oserà infrangere una promessa.

Punto secondo: presta attenzione alla formulazione della promessa. Una sola parola può alterare completamente il suo significato, storpiare il tuo intento e condannarti.

Punto terzo: non fidarti mai di nessuno. Sii spietata con i tuoi nemici e mantieni una gelida cortesia con i tuoi alleati, ma ricordati di non mostrare mai una debolezza, a nessuno, se non vuoi che qualcuno ti salti alla giugulare» snocciolò Lúg, e io non riuscii a distogliere lo sguardo dalle sue dita sollevate per mostrarmi i tre punti appena elencati.

«Mi farò ammazzare» realizzai, scioccata, «Io non so essere così... calcolatrice. Io accarezzo i cani altrui per strada! Racconto la storia della mia vita al primo sconosciuto in un bar, se bevo anche solo una birra! Io... io mi sento in colpa se non mi piace un regalo di compleanno!» sbottai, rendendomi conto solo in quel momento quanto sarebbe stato difficile sopravvivere in quel mondo.

«Non dire sciocchezze» mi liquidò con noncuranza Lúg, «Sei sopravvissuta a Finvarra, quindi non sei del tutto priva di autoconservazione. Devi solo... imparare ad essere una fata. Imparare il modo in cui noi ragioniamo, e farlo tuo».

«Come se fosse facile» sbuffai con voce sconsolata.

«Ti aiuterò io» mi disse, ed io sollevai lo sguardo su di lui.

I suoi occhi argentei studiarono il mio viso e, mentre i suoi lineamenti affilati si facevano sfocati, domandai incredula: «Tu?».

«So essere un maledetto bastardo, no?».

L'ultima cosa che vidi prima di essere strappata dal sogno fu il suo sorriso beffardo che ammiccava con i canini esposti.

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