Falias
Partimmo quando ormai erano le dieci del mattino passate.
Eoghann era giunto con una barchetta di legno lunga circa cinque metri e ci aveva ordinato in modo brusco di salire a bordo.
Dopo essermi calata con una scaletta d'acciaio dal fianco della nave da crociera ero rimasta a contemplare con occhio critico il nostro mezzo di trasporto, per nulla sicura della sua stabilità: il legno era consunto e scheggiato, e patelle e alghe erano incrostate sulla parte esterna, in prossimità dell'acqua.
Alla fine, però, mi ero decisa a salire a bordo, e la barchetta aveva pericolosamente ondeggiato sotto il mio peso.
«Finiremo tutti in acqua, me lo sento» borbottò Labhraidh, ancora appeso alla scaletta, osservandomi con una smorfia sul volto.
Sentii mia nonna sogghignare, producendo un suono di gola raspante che avrebbe fatto accapponare la pelle a qualunque bambino l'avesse udito, e poi la vidi librarsi in aria di qualche centimetro e planare dolcemente al mio fianco.
«Perché non ci ho pensato?» brontolai, rendendomi conto con un certo fastidio di quanto ormai mi fossi abituata a non avere i miei poteri.
Grania, Rían e Neacht imitarono mia nonna, sedendosi poi con le schiene rigide sulle dure panchine della barchetta; Labhraidh e Solamh, invece, si calarono come me dalla scaletta, facendo inclinare pericolosamente il rottame di barca che Eoghann ci aveva procurato.
Quando fummo tutti a bordo, la barchetta iniziò a solcare rapidamente l'acqua sospinta da una corrente invisibile, allontanandoci rapidamente dalla nave da crociera.
Mi voltai indietro e scorsi immediatamente i capelli rosso fuoco di mia madre e di Meaghan, in braccio a Laidhgeann, che ci salutavano con la mano.
Saoirse e Michan, poco lontani da loro, ci guardavano abbracciati l'un l'altro, mentre Declan si sporgeva dal parapetto con il ciuffo nero al vento.
Nel rendermi conto che stavo veramente andando ad incontrare un Principe di una terra straniera, in un mondo a me sconosciuto... un fastidioso nodo mi strozzò la gola, e il mio cuore mancò un battito nel petto.
A distrarmi dai miei pensieri ci pensò Labhraidh, il quale, con l'entusiasmo di un bambino, strillò: «I pesci volanti, ci sono i pesci volanti!» e si mise ad indicare un banco di pesci, luccicanti nel caldissimo sole mattiniero, che saltava a pelo dell'acqua.
«Oh, per gli dei...» sbuffò Grania, scocciata dal suo entusiasmo, sollevando i castani occhi al cielo e iniziando a districare i ricci rossi resi appiccicaticci dalla salsedine.
Ammirai con sguardo rapito il turchese dell'acqua e poi i miei occhi corsero lontano, verso la costa che si avvicinava sempre più rapidamente.
La nostra minuscola barchetta stava virando in direzione del promontorio che avevo già individuato dalla nave, sul quale, avvicinandoci lentamente, riuscii ad individuare un alto e stretto faro, dipinto di un bianco talmente accecante da risultare quasi doloroso per gli occhi.
Circumnavigammo il promontorio e io percepii una debole scossa negli arti, proprio come quella che avevo percepito all'ingresso dei tumuli, e compresi che la città era protetta da un incantesimo in grado di tenere lontani i visitatori.
Mi scrutai le mani, in cerca di una prova tangibile che confermasse la presenza di una barriera, ma non trovai nulla di particolare.
Scocciata, sollevai gli occhi e... e ciò che vidi mi lasciò a bocca aperta.
Oltre il promontorio si apriva un'insenatura talmente stretta che i due lembi di terra quasi si toccavano e, sulla sommità di queste lingue rocciose, si erigevano due statue colossali.
Sulla destra vi era la scultura di un uomo, che si slanciava nel cielo blu di una dozzina di metri brillando nella luce del mattino di un bianco accecante. L'uomo era nudo, con solo un drappeggio dorato a coprirne la vita, e la maestria dello scultore era evidente nell'attenzione che egli aveva riservato ad ogni singolo muscolo del corpo della statua.
Sul lembo di terra di sinistra, invece, una donna scura come l'ebano pareva incombere su di noi, risucchiando la luce del sole come se fosse fatta di pura oscurità.
Le due statue presentavano entrambe un braccio proteso l'una verso l'altra, e le loro granitiche dita si avvicinavano quasi fino a toccarsi proprio nel centro dello stretto.
«Vita e Morte» sentii Conneleugh mormorare e, lanciandogli un'occhiata, lo vidi ammirare con espressione nostalgica le due figure.
La nostra barchetta scivolò veloce sotto le braccia protese delle due statue, entrando in un'ampia laguna. L'acqua passò da un intenso color turchese a un limpido verde acqua e, sporgendomi dal bordo, riuscii a vedere distintamente il fondale sassoso costellato di neri ricci e colorati anemoni di mare.
Socchiusi gli occhi, abbagliata dal rifulgere del sole sull'acqua e, scrutando l'orizzonte, vidi una città sorgere in un'insenatura della laguna.
Man mano che ci avvicinavamo, riuscii ad identificare sempre più dettagli: la città era costituita da piccole casette tinte di un luminoso bianco ghiaccio, dalle persiane colorate di mille sfumature.
I tetti delle abitazioni erano piatti e adibiti a giardini pensili: piante e fiori crescevano rigogliosi e pendevano lungo le pareti laterali delle case, donando alla città un aspetto che sarebbe parso trasandato se le piante non fossero state così ben curate.
La barchetta raggiunse un piccolo molo di pietra e, mentre Eoghann la legava ad un palo d'ormeggio, io osservai rapita le vie ciottolate che si inerpicavano su per la collina, strette e tortuose fra le bianche case.
«Benvenuti a Falias» disse la profonda voce di Eoghann, mormorando i suoni con una musicalità che era tipica solo dell'antica lingua delle fate.
«Dì ai tuoi...» il soldato esitò, «... compagni...» schioccò la lingua con avversione, «... di fare in fretta. Il Principe li aspetta al più presto».
Conneleugh tradusse per noi e Labhraidh, che non stava più nella pelle dall'entusiasmo, schizzò fuori dalla barchetta, arrampicandosi sul molo come una scimmia.
«Dai, forza!» ci incitò ed io, senza farmelo ripetere due volte, mi sollevai in aria di qualche centimetro.
Mi beai della sensazione di libertà che trasmetteva il tagliare tutti i fili di gravità che mi tenevano ancorata al suolo e, percependo la brezza carezzare il mio corpo accaldato, mi librai in aria. Raggiunsi il molo e toccai terra accanto a Labhraidh. Mi chinai e, con mano tremante, sfiorai la pietra della banchina, non riuscendo a credere di aver davvero messo piede in un nuovo mondo.
«Seguitemi» borbottò in modo burbero Eoghann, marciando con lunghe falcate lungo il molo.
Io e Labhraidh gli corremmo dietro, faticando a tenere il suo passo, ma non ci lamentammo.
Il soldato ci portò attraverso viuzze strette e ripide stradine, ed io non potei che guardarmi intorno con gli occhi sgranati, avida di assimilare il più possibile di quella meravigliosa cittadina.
Le strade erano tutte ciottolate e ai margini vi erano grossi vasi colorati contenti piante di ogni tipo; vasi di fiori pensili pendevano dai balconi e dalle finestre e panni colorati erano stesi fra una facciata e l'altra delle case, donando una allegra vivacità all'ambiente.
Gli abitanti della cittadina non fecero molto caso al nostro passaggio, così li potei osservare senza destare troppa attenzione: quasi tutti avevano lunghe orecchie a punta da fata, la pelle scura o dorata e capelli ricci e biondi, acconciati in complicate pettinature.
Sia gli uomini che le donne indossavano abiti colorati lunghi fino alle caviglie, le quali erano lasciate nude per esporre le numerose scintillanti cavigliere, che tintinnavano sonoramente ad ogni loro passo.
Gli abitanti erano intenti nell'allestire i preparativi per la festa di quella sera: ricche ghirlande di fiori venivano appese alle finestre e alle porte, e vasi colmi di rossi fiori di papavero venivano esposti sui davanzali.
Un profumo di cannella e salvia aleggiava per gli stretti vicoli, e quei dolci odori mi riportarono alla mente il modo in cui Litha veniva festeggiata dal clan dei Leiprechan nella contea di Cork: anche nella mia vecchia congrega le erbe venivano bruciate per purificare la casa e richiamare gli spiriti benigni della natura.
Bracieri e torce erano già stati disposti lungo tutte le vie, pronti per essere accesi per le celebrazioni di quella sera in onore del sole e del suo potere vitale.
Proseguimmo lungo strette scalette che si inerpicavano su per la collina e, quando finalmente uscimmo dal labirintico dedalo di viuzze e stradine, ci ritrovammo in un'ampia piazza sulla quale si affacciava il palazzo più curioso che avessi mai visto.
La costruzione somigliava vagamente ad una piramide, con più livelli, e ogni piano si faceva via via più stretto del sottostante. Giardini e piante crescevano rigogliosi su ogni gradone, e immense scalinate alabastrine collegavano i vari piani dell'edificio.
«Wow» mormorai, osservando lo spruzzare di getti d'acqua all'interno di una delle numerose fontane che riuscivo a vedere fin dal fondo della piazza.
Eoghann procedette spedito attraverso la piazza e ci condusse lungo le ampie gradinate. Le scale erano all'aperto ma, ad ogni piano, vi erano due arcate, una a destra e una a sinistra, che conducevano all'interno dei corridoi del palazzo.
Quando infine raggiungemmo l'ultimo piano della costruzione, avevo la maglietta incollata alla schiena e le gambe rese rigide e dolenti a causa dei mille gradini che avevamo percorso.
Posando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato, osservai con curiosità il portone di legno a doppia porta, chiuso, davanti al quale Eoghann si era fermato.
Il soldato si voltò verso di noi e, scrutandoci con i suoi magnetici occhi verdi, sbottò: «Di fronte al Principe vi dovete inginocchiare, per poi alzarvi solo quando ve lo dice lui. Dategli del voi e non fissatelo troppo a lungo negli occhi. Seguite le mie indicazioni e forse vi andrà bene».
Mentre Conneleugh traduceva le sue parole, Eoghann bussò due colpi in rapida successione al portone che, con un cigolio sommesso, si aprì di fronte a noi.
La sala che mi si parò di fronte era immersa in un bagno di luce. Immense finestre erano presenti su tutti e tre i lati della stanza, mostrando un paesaggio tanto vasto e ricco da togliere il fiato: sulla sinistra si vedeva il promontorio che avevamo circumnavigato, con il faro bianco che spiccava sulle rocce grigie; di fronte vi era un'alta collina dai brulli pendii; e sulla destra si poteva ammirare una foresta estendersi a perdita d'occhio.
L'interno della stanza, invece, era il luogo più sfarzoso che io avessi mai visto.
Il pavimento era un immenso mosaico, i cui tasselli colorati andavano a comporre le onde spumeggianti del mare, e le tende alle finestre erano leggerissimi drappeggi azzurri che svolazzavano nella brezza mattutina. Vi erano tanti piccoli tavolini di ferro battuto, finemente elaborati, e divani bianco panna i cui cuscini apparivano più soffici di una nuvola.
I miei occhi avidi, infine, si posarono su un ampio trono dallo schienale alto e dagli intagli d'oro che era posizionato al centro della stanza, rialzato da una pedana di legno.
Fu lì, su un trono talmente grande da incutere timore, che vidi il Principe di Falias.
«Benvenuti... benvenuti, cari ospiti» lo sentii dire nella lingua delle fate.
La sua voce musicale rimbombò sulle pareti della stanza, e gli occhi di tutti corsero a lui.
L'uomo, che nel frattempo si era alzato in piedi, indossava una lunga veste bianca come il latte con un profondissimo scollo a V che terminava appena sopra il suo ombelico. Piccole e luminose catenelle dorate univano un bordo dello scollo all'altro, e una pesante cintura d'oro gli stringeva i fianchi, evidenziandone la fisicità.
Il Principe scese dalla pedana e, posando i piedi nudi sul pavimento mosaicato, incrociò le braccia al petto. I muscoli delle sue spalle guizzarono sotto la pelle olivastra, che appariva ancora più scura in contrasto con la candida veste, e la sua ribelle chioma bionda gli sfiorò le clavicole quand'egli inclinò la testa per scrutarci meglio.
«Dunque... cos'abbiamo qui?» domandò, e la sua dentatura candida parve brillare fra le labbra scure.
«Mio Principe...» iniziò Conneleugh, per poi inchinarsi con il ginocchio a terra e la testa bassa.
Lo imitai immediatamente, rendendomi conto di aver già dimenticato una delle poche regole che Eoghann ci aveva imposto di seguire.
«Guarda chi si rivede... Credevo che qualcuno ti avesse finalmente dato la grazia, Fenice, ma a quanto pare sei un osso duro, eh?» ridacchiò il Principe, camminando lentamente verso Conneleugh, accompagnato dal cristallino tintinnare delle cavigliere d'oro che portava ai piedi.
«Alzati, cugino. Vieni ad abbracciare il tuo Principe preferito» disse poi, posando una mano sulla spalla di Conneleugh e aiutandolo ad alzarsi.
Le due fate si scrutarono qualche secondo negli occhi, per poi abbracciarsi calorosamente. Conneleugh, ossuto e minuscolo, parve scomparire fra le scure e muscolose braccia del Principe, il quale era, molto probabilmente, una quarantina di centimetri più alto e una sessantina di chili in più del ragazzino.
«È tanto che non ci vediamo, Alastair» disse infine Conneleugh, e un sorriso sincero, quasi infantile, comparve sul suo volto giovane.
«Troppo. Eri partito qualche fuoco celeste fa fa per partecipare ad una guerra... ma non sapevo le guerre nel mondo mortale durassero così tanto» commentò il Principe, osservando il suo interlocutore con un sopracciglio inarcato.
Conneleugh voltò lo sguardo verso di noi e borbottò: «È una storia lunga e per nulla interessante».
«Oh, me la racconterai questa sera a cena. Ora...» fece il principe, e i suoi occhi color nocciola scivolarono su di noi, «...Ora voglio conoscere i miei ospiti».
«Sono umani» borbottò Conneleugh, poi si corresse: «Mezzosangue. Portano con loro tre dei Quattro Tesori d'Irlanda».
Gli occhi del Principe di accesero di interesse, ed egli ci guardò attentamente per la prima volta.
Le sue iridi castane scivolarono su ognuno di noi e, quando si posarono su Rían, un ghigno comparve sul suo bel viso: «Lúg...» sussurrò, aggiungendo poi: «Immagino tu sia il nuovo possessore della Lancia».
Conneleugh tradusse, e Rían chinò la testa dicendo: «Sì, Principe».
Le sue mani corsero alla cinta ed estrassero dal fodero di cuoio la Lancia, che prese immediatamente le sue fattezze originali.
«Erano millenni che non vedevo questo manufatto» commentò il Principe, sollevando la mano come se volesse toccare l'artefatto, ma riabbassandola subito dopo.
«Bravo, ragazzo» commentò, annuendo piano in direzione di Rían.
I suoi occhi trovarono poi la chioma rossa di Donegal e un sorriso sincero gli distese le labbra scure, mettendo in bella mostra i candidi e lucidi canini: «Noi non siamo mai stati presentati...» iniziò, porgendo l'avambraccio alla fata, «...Ma io so chi sei, Donegal figlio di Nuada».
«È un piacere, Principe» rispose la fata, stringendo il braccio di Alastair.
«Sei identico a tuo padre... egli mi parlò spesso di te, quando combattemmo fianco a fianco contro i Fomori. Vedo che ora la sua Spada ti ha trovato di nuovo» aggiunse, indicando con un cenno la lama che Donegal portava legata dietro la schiena.
«I mortali l'hanno trovata per me. È grazie a loro che la Spada è tornata... in famiglia» si schernì Donegal, e io non potei che apprezzare il suo tentativo di metterci in buona luce agli occhi del Principe.
«Devono essere proprio speciali questi mortali, non è così?» sussurrò Alastair, tornando a squadrarci come se fossimo curiose bestioline in mostra dietro una teca.
I suoi occhi scivolarono sul nostro gruppo e, quando infine mi individuò, seminascosta dietro a Neacht, il suo sorriso si fece più pronunciato: «Ed ecco Saraid. La nostra squisita Saraid».
Abbassai immediatamente lo sguardo a terra, con il cuore in tumulto.
Vi fu poi un allegro tintinnare di cavigliere, e una mano asciutta e priva di calli si posò sulla mia guancia: «Guardami, ragazza» mormorò la voce morbida del Principe.
Sollevai lo sguardo su di lui e trovai i suoi occhi ad aspettarmi.
Da vicino, le sue iridi non erano propriamente castane: il marrone si intrecciava con scaglie verde bosco, che rendevano il suo sguardo più vivace, più vivo.
Rammentando le parole di Eoghann, distolsi in fretta lo sguardo dai suoi occhi e concentrai la mia attenzione sulle sue labbra scure e carnose, che si incurvarono in un sorrisetto e mormorarono: «Tu devi essere la deliziosa portatrice del Calderone di Dagda».
Annuii e, con la gola chiusa in una morsa di paura, rimasi in silenzio, cosa che parve non piacere al Principe: insoddisfatto, egli mi diede le spalle e raggiunse di nuovo Conneleugh.
«Scorta i tuoi nuovi amici in sala da pranzo, poi torna da me. Abbiamo molte cose di cui parlare, tu ed io...» gli disse, rivolgendogli un sorriso amichevole.
Si voltò quindi verso di noi e sentenziò: «La vostra... questione verrà presentata domani sera, durante la cena con gli altri Principi. Perdonateci per non essere in grado di ricevervi già questa sera ma, come avete potuto vedere nell'attraversare la nostra città, questa notte festeggeremo la festa di Litha... un appuntamento al quale le fate – e, in particolar modo, i loro Principi – non possono mancare. Voi sette avete il mio premesso per partecipare alle celebrazioni, e mi assicurerò personalmente che i vostri amici sulla nave ricevano cibo in abbondanza. Spero il vostro soggiorno nella mia città sia piacevole, e spero di vedervi divertire, questa sera» e con tali parole di congedo ci diede le spalle e scomparve oltre una minuscola porta sulla sinistra.
Per qualche secondo regnò un silenzio assoluto, poi Conneleugh borbottò: «Si può dire che sia andata relativamente bene».
«Tutto qui?» domandai, perplessa dal così rapido congedo del Principe, che se n'era andato senza praticamente ottenere alcuna informazione utile su di noi.
Conneleugh sogghignò malevolo e mi rivolse uno sguardo derisorio: «Ragazzina, Alastair sa il fatto suo. Egli vi terrà d'occhio tutta la giornata per sincerarsi delle vostre intenzioni e, allo stesso tempo, vi userà come ostaggi se le cose con i vostri amici sulla nave dovessero mettersi male. Credimi, quando ti dico che domani mattina Alastair saprà più cose di voi di quante ne sappiate voi stessi».
Il ragazzino schioccò le labbra e, procedendo a lunghi passi verso il portone d'ingresso, ci richiamò: «Forza, seguitemi! Vi porto a pranzo... e poi dovreste anche darvi una sistemata per questa sera: non vi conviene per nulla presentarvi alla festa agghindati... in quel modo» commentò, scrutando con malcelato disgusto i jeans strappati di Solamh e la felpa di Labhraidh, sulla quale capeggiava il logo ormai sgualcito di una vecchia band degli anni Settanta.
«Bada a come parli» ringhiò piano Labhraidh, facendomi sorridere, e, camminando al suo fianco, trotterellai dietro a Conneleugh.
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