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12. EZIOLOGIA COLLINARE E IDIOMA ENOLOGICO

Il giorno seguente lo passai in apnea.

Avevo la sensazione di sprecare il mio tempo nelle occupazioni abituali, quando invece avrei dovuto mollare tutto e correre chissà dove. Conoscevo bene quell'inquietudine, era stata la colonna sonora della mia precedente relazione a distanza, vissuta, in quanto tale, a singhiozzo.

Il meteo faceva da cassa di risonanza al mio umore, incredibilmente terso e sereno per tutto il mese precedente, quel giorno mi accompagnava con nuvole basse e grigie.
In università ero distratta, lavoravo poco e male.

Decisi che quel week end avrei fatto un salto a casa. Tornare alle mie colline aveva sempre avuto un effetto calmante, e non realizzavo mai quanto mi fossero mancate finché, non le rivedevo salutarmi dai finestrini del treno, come vecchi parenti che ti hanno riempito l'infanzia.

Contavo molto sulla loro capacità di fare silenzio.

Aydin aveva ragione: ad Istanbul, come in tutte le grandi città, non c'è mai silenzio, e se la cosa all'inizio può risultare inebriante, l'espressione di una potenzialità senza fine, alla lunga deposita sulle spalle, come polvere, uno strato di stanchezza atavica e soffocante, che blocca i raggi del sole.

Avevo bisogno di casa per scrollarmi di dosso il rumore di quegli ultimi giorni. Avevo bisogno di mia madre che mi raccontava delle cose piccole e belle della vita, con l'entusiasmo di chi non ha ancora smesso di cercare, e di mio padre che mi aggiornava sull'ultimo lavoro preso, chè io con mio padre, da brava veneta ruspante, non ho mai parlato di altro che di lavoro e di vini (e mi chiedo cosa sarebbe successo se non avessi studiato architettura e fossi stata astemia).
Quello era pressappoco il nostro linguaggio in codice:

-E allora come va a Milano?- 'Hai una faccia da schifo, che succede?'

-Bene dai, un po'stanca- 'Mi sento come se mi avessero gettato dalle guglie del Duomo e degli operai bulgari avessero piallato quel che rimane di me sotto il pavè del centro con un rullo compressore.'

-Ben ben, e coi compagni di università?- 'Capito, chi è lo stronzo a cui devo far fare bungee jumping senza elastico?'

-Mah, con loro bene- 'Uno che non ti piacerebbe neanche un po'.

-Aaa ben. Alòra, vuoi che ti porto a camminare domani?- 'Ok, ci pensa papà'.

-Si dai, un giro facile però- 'Grazie, ti voglio bene'.

-Sì sì. Assaggia 'sto rosso amabile. Me l'ha dato lo zio- 'Anch'io'.

Questo prevedeva il copione, con un numero assai limitato di variazioni.

Il giorno dopo andammo a fare una passeggiata come promesso, scegliendo il patchwork di vigneti e boschi dietro casa.
Quello era il mio percorso preferito. Un po' perché quando mio padre mi proponeva di fare un giro, il rischio che si facesse prendere dall'entusiasmo e mi portasse a fare una ferrata da ottanta chilometri e duemila metri di dislivello, era sempre dietro l'angolo; robe che arrivati in quota trovavi il signor jeti e famiglia che ti invitavano al pranzo domenicale. Un po' perché quelli che ormai erano diventati fazzoletti di verde a portata di finestra, erano stati il suo regno d'infanzia. E potevo vederlo davanti ai miei occhi, quel dodicenne scanzonato, la mia versione al maschile, venuto su allo stato semi-brado, capo della sua banda in virtù del suo instancabile destriero, una bicicletta scassata a cui in accelerazione aveva distrutto più volte la catena per la troppa energia.

Tutti abbiamo i nostri miti, per me uno di quelli era quel ragazzino allampanato, la sua libertà e le sue imprese che terminavano immancabilmente con una memorabile strigliata materna al rientro serale.

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