Capitolo XVII
Trascinai quasi a forza Sherry via dal muretto che stava annusando con naso nero come il carbone. Era passata quasi una settimana dalla morte di Marlene e Sherry non aveva visto il suo padrone da allora, confinato in giardino per tutti quei giorni, quasi si fossero dimenticati di lui.
Io, comunque, avevo deciso che per il momento non avrei dato un altro peso a Heath e a suo padre, perciò il rottweiler oramai passava più tempo con me che con loro, non che la cosa mi dispiacesse, anzi.
Quel giorno avevo deciso di portarlo con me al cimitero, dopotutto lui era stato un regalo di Marlene, Heath l'aveva così pregata di avere un cane che lei, per Natale, aveva già soddisfatto quel suo desiderio.
C'era da dire che Heath amava davvero il suo cane e non gli aveva mai fatto mancare nulla, era il suo migliore amico, e Sheridan lo venerava, illuminandosi ogni volta che lo vedeva.
Tuttavia, quando quel giorno ero andata a prendere Sherry per la nostra passeggiata, avevo sentito le urla.
Erano urla cariche di dolore e sconforto, un modo come un altro per sfogare il proprio dolore. Heath e suo padre si stavano insultando, il primo diceva che l'altro non c'era mai stato per Marlene e il secondo rispondeva che non sapeva nulla di quello che aveva passato lui e che era un figlio deludente.
Mi si era stretto il cuore nel sentire quelle pesanti parole, perché nessuno dei due lo pensava davvero, eppure in quel momento avevano bisogno di trovare una scusa per la scomparsa della donna che amavano a scapito di ferire l'altro.
Scossi il capo un'altra volta, cercando di scacciare via il ricordo delle grida e di qualcosa che si rompeva, come un bicchiere o un piatto, se non forse il loro legame già di per sé fragile.
Avevo provato a invitare Heath e suo padre a casa mia per cenare, ma avevano rifiutato ripetutamente seppur con gentilezza, e mi domandai in che stato avrei trovato Heath quando lo avessi rivisto. Nonostante ciò, avevo lasciato delle teglie di cibo sul tavolino della veranda ogni sera, e il giorno dopo erano lì, pulite di tutto punto come se fossero nuove di zecca.
Affondai i denti nel labbro inferiore mentre mi fermavo davanti all'alto cancello in ferro battuto che delimitava il cimitero. Ero certa che sulla tomba di Marlene non ci sarebbe andato nessuno in quei giorni, o almeno nessuno che potessi strettamente conoscere. Prima, però, Sherry permettendo, avrei comprato dei fiori.
Calle bianche per Marlene e iris viola per la madre di Bea. Nessuno andava sulla tomba di Sheila fatta eccezione per Peter, ma dato che tornava raramente da Madrid, era assai probabile che la lapide fosse completamente spoglia.
Mi diressi verso un venditore ambulante lì accanto e gli dissi di preparare i due mazzi di fiori che avevo in mente, legandoli con dei nastri bianchi, non volevo che il nero intaccasse ulteriormente il ricordo della loro assenza.
Per mia fortuna Sherry si era messo tranquillamente seduto sul marciapiede, la coda che spazzava il cemento.
Dopo aver pagato, entrai nel cimitero, alcune persone erano raccolte attorno alle tombe dei propri cari, qualcuno piangeva mentre altri tenevano dentro il proprio dolore. Scossi il capo, non dovevo pensare al dolore degli altri, non mi competeva, avevo già il mio.
Mi diressi verso la tomba di Marlene, qualcuno aveva già portato delle calle, essendo morta da poco la sua tomba era una delle più rigogliose, ma col tempo l'avrebbero dimenticata in molti, e quei fiori sarebbero stati solamente un gesto dettato puramente dalle circostanze e non dal cuore.
Scacciai quei pensieri, appoggiando il mazzo di calle bianche accanto alla foto della donna, il suo sorriso per sempre impresso sotto quel vetro. Sherry si distese accanto alla tomba, il muso tra le zampe anteriori, invitandomi a lasciarlo solo con la sua padrona. Mi preoccupai del fatto che qualcuno avrebbe potuto fare storie, ma dato che nessuno sembrava lamentarsi quando giravano su internet le foto di cani poliziotto o di cani in generale che rimanevano per ore davanti alla tomba dei propri cari, lo lasciai lì dopo avergli accarezzato il manto nero.
Dopotutto, anche lui l'aveva persa, e a volte i cani erano meglio degli uomini.
Mi rialzai, dirigendomi verso la tomba della madre di Bea, nemmeno un fiore era stato messo lì per ricordarla. Capivo Bea e suo fratello, ma gli amici... Beh, quelli in effetti erano amici del suo ex marito, più interessati ai suoi soldi e alle sue influenze che alla sua amicizia.
Trattenendo un'imprecazione per la superficialità del genere umano, posizionai il mazzo di iris viola sull'erba, sedendomi poi a gambe incrociate sul terreno, infischiandomene del fatto che poi avrei dovuto buttare i jeans a lavare anche se li avevo tirati fuori dall'armadio poche ore fa.
Guardai con sguardo vacuo la tomba di Sheila, domandandomi ancora una volta che cosa avrebbe fatto se fosse stata qui, se fosse stata più coraggiosa e meno codarda. Aggrottai le sopracciglia cercando di non incolparla, ma una parte di me non riusciva a non farlo, era così ovvio che avesse preferito la morte alla realtà dei fatti.
Ma, per me, era stata comunque come una seconda madre, e Marlene lo stesso. Da Sheila si parlava sempre di moda, era lei a cucire i nostri abiti per le recite scolastiche o per Halloween o carnevale, dovevo avere ancora da qualche parte il cappello da strega che mi aveva fatto, decorato con pietre viola che catturavano la luce. Con Marlene, invece, avevo preparato tantissimi dolci, alcuni disgustosi e altri fenomenali. La cosa più bella era finire con la farina tra i capelli – per non parlare poi dei vari impasti, ogni volta mia madre si arrabbiava ma mi aiutava a ripulirmi con pazienza, sorridendo, e di tanto in tanto riuscivo a trascinare pure lei in una lotta di farina.
Erano stati anni d'oro, tutto ciò che una bambina come me avrebbe mai potuto desiderare, tutto semplicemente... perfetto.
Già, perfetto, forse perché non sapevo che cosa stava passando nella mente di Sheila o che cosa stesse serbando il futuro per Marlene, e ancora una volta mi domandai perché erano scomparse, perché il destino aveva voluto porre fine alle loro vite. Non lo meritavano, eppure ora nessuna delle due mi avrebbe più cucito un vestito né mi avrebbe più insegnato una nuova ricetta.
Sentii le lacrime bagnarmi le guance e le asciugai con la manica della felpa, singhiozzando sommessamente, i singulti mi facevano tremare le spalle.
Riuscii a calmarmi in tempo per alzarmi con gli occhi fissi sulla lapide di Sheila prima di girarmi e imbattere nientemeno che in Cassandra Carter. Beh, almeno non avevo addosso i suoi vestiti, grazie al cielo.
«Oh, ciao, Dahlia,» mi salutò con un sorriso cortese sulle labbra, al che la guardai frastornata. Teoricamente non avrebbe dovuto ricordarsi di me, ci eravamo viste solo una volta e la cosa era stata decisamente frettolosa.
Io, al contrario, dovevo ricordarmi di lei, altrimenti avrei finito solamente per combinare un altro dei miei disastri. Non ero certa che Christopher le avesse parlato di me, sebbene non avessi alcuna idea di che cosa gli passasse per la mente dato che non ci sentivamo dal funerale.
«Uh, ehm, ciao,» risposi stringendo il guinzaglio tra le mani, notando oltre la sua spalla che Sherry era ancora immobile con il muso appoggiato sulle zampe anteriori.
Lei reclinò il capo di lato, probabilmente domandandosi se mi ricordassi di lei, ma alla fine dovette capire che la ricordavo eccome. «Chi sei venuta a trovare?» chiese esitante, perché tutti coloro che conoscevano mia madre sapevano che lei era l'unica persona che avevo al mondo fatta eccezione per i miei amici e i miei nonni, i quali erano abitavano stabilmente in Francia da sempre.
«Le madri di due miei amici... In un certo senso anche mie,» mormorai, e quelle mie stesse parole mi colpirono, perché per quanto lo avessi pensato, non lo avevo mai detto ad alta voce.
«Capisco,» replicò Cassandra, al che mi domandai chi fosse andata a trovare lei. Come se mi avesse letto nel pensiero – cos'era, il potere segreto dei Carter? – aggiunse: «Anche io sono venuta a trovare mia madre.»
Sbattei le palpebre più e più volte, e tutto iniziò ad avere più senso. Christopher mi aveva detto di avere una matrigna, e io saggiamente non gli avevo chiesto dove fosse sua madre, né avevo osato scavare nella sua vita privata come lui aveva fatto con la mia, nonostante la sua fosse praticamente a disposizione di tutti.
Mi morsi il labbro inferiore. «Mi dispiace,» dissi, sperando di suonare sincera, perché non c'era cosa più orribile delle frasi di circostanza in un cimitero.
Cassandra scosse il capo, un sorriso mesto sul volto che non le accendeva gli occhi. «È morta molto tempo fa,» rispose come se non fosse nulla, ma sapevo che non era così. Nonostante ciò, riuscì a scrollarsi di dosso quell'espressione corrucciata e mi rivolse un sorriso più leggero. «Vuoi venire a prendere un caffè con me?»
La guardai quasi esterrefatta, chiedendomi inevitabilmente come mai volesse offrirmi un caffè. «S-sì,» dissi sorprendendo addirittura me stessa, alzando il guinzaglio e indicando con un cenno del mento oltre le sue spalle, «sempre che non ti facciano paura i rottweiler.» Come a tuo fratello.
Sherry si alzò stiracchiandosi e venne verso di me, lasciandosi agganciare il guinzaglio e annusando con fare insistente le gambe di Cassandra. Lei ridacchiò, abbassando una mano con cautela per accarezzarlo dietro alle orecchie. «Ciao anche a te,» disse guadagnandosi un paio di suoni gutturali dal rottweiler. Traditore. «Vogliamo andare?»
Annuii e mi sistemai al meglio, attorcigliandomi il guinzaglio attorno al polso, la gente tendeva ad aver paura di Sheridan. Seguii Cassandra fuori dal cimitero e mi sembrò di essermi lasciata alle spalle un senso di pesantezza, quasi mi fossi scrollata di dosso la tristezza.
«Come è andato il ballo?»
Strabuzzai gli occhi, sconcertata dal fatto che se ne ricordasse ma, dopotutto, aveva riconosciuto me, quindi non avrei dovuto esserne tanto sorpresa. «Uhm, alla fine non ci sono nemmeno andata. La madre del mio amico... aveva un tumore e lo hanno chiamato a Sacramento, quindi è dovuto andare subito lì.»
Cassandra rimase in silenzio per qualche istante. «Mi dispiace per il tuo amico, so che cosa si prova,» mormorò talmente a bassa voce che mi domandai se avessi dovuto sentire le sue parole. Probabilmente no.
Mi strinsi nelle spalle, capendo che probabilmente anche a sua madre era toccato lo stesso destino triste di Marlene, ma non avrei chiesto, anche perché con tutta probabilità avrei già dovuto saperlo, certamente i social media ne avevano parlato. Quasi sorrisi pensando a che cosa avrebbe detto Christopher. «Tu non leggi molto.»
Sentii gli occhi di Cassandra scrutarmi mentre io mantenevo i miei su Sheridan. «Chris non te l'ha detto, vero?»
Il mio sguardo saettò improvvisamente nel suo, allarmata dalla familiarità che aveva presupposto avessimo io e suo fratello. Che lei sapesse? No, Christopher non poteva averglielo detto, no? Eppure poteva averlo fatto, dopotutto era sua sorella, e già in due lo sapevano al di fuori della sua famiglia – quattro se si contavano Elias e Bea.
Mi sentii sbiancare mentre Cassandra alzava gli angoli delle labbra in un sorriso rassicurante. «So tutto, Dahlia,» disse appoggiandomi una mano sulla spalla per tranquillizzarmi, ma non potei fare a meno di trasalire e scostarmi appena. Non volevo essere trattata come una delle sue altre donne, non volevo che lei mi trattasse come tale, pensando che volessi solo i suoi soldi. «E so anche del vostro accordo.»
Okay, questa era nuova. «E non ti fa... ribrezzo?»
Non potevo trovare parola più adatta per descrivere la situazione, almeno non dal mio punto di vista. Forse avevo davvero la sindrome da crocerossina, ma un conto era aiutare Christopher perché volevo farlo, un altro era infischiarsene di lui e guardare solo ai suoi soldi.
Con mia grande sorpresa, Cassandra scosse il capo, ridacchiando appena. «Vieni, andiamo a sederci,» disse prendendomi per un gomito e trascinandomi a un caffè lì vicino, sedendosi a uno dei tavolini in platea.
Feci sedere Sherry accanto a me, e lui subito si distese con la testa sotto la mia sedia mentre le mie dita continuavano a tormentare il guinzaglio. Come poteva essere che la sorella di Christopher volesse avere a che fare con me? Che volesse, che so, mettermi alla prova? Oppure voleva darmi una lezione morale? Dopotutto, lei lo conosceva meglio di me e...
«Smettila di pensare o ti scoppierà il cervello, posso sentire gli ingranaggi muoversi,» scherzò Cassandra spostando i capelli biondi dalla spalla. Notai solo allora com'era vestita, con un completo bianco e una camicia azzurra che le metteva in risalto gli occhi e che si apriva mostrando una collana con un ciondolo a forma di fiore. Semplice, eppure bellissima.
Arcuai un sopracciglio, ridacchiando mio malgrado. «Devo smettere di pensare? Scusa tanto se la sorella di quello che, in via molto, ma molto teorica, è il mio ragazzo, sempre che possa chiamarlo così, sa del nostro piccolo, insignificante accordo. E io dovrei starmene calma? No grazie.»
Bravo genio, mi complimentai ironicamente con me stessa, non potevo fare una figura peggiore di quella.
«Beh, definire una relazione non è mai stata una cosa da Christopher, ma posso dirti con certezza che voi siete qualcosa, la vostra relazione ha qualcosa in più rispetto alle altre volte in cui lui si è, come dire, fatto coinvolgere.»
Feci per controbattere quando arrivò una cameriera e Cassandra ordinò un tè al ginseng mentre io optai per un cappuccino.
«Tornando al nostro discorso,» continuò Cassandra rilassandosi contro lo schienale della sedia, «quello che intendo dire è che tu fai bene a mio fratello.»
Fui quasi sul punto di ridere, perché non era possibile che lo avesse detto davvero, soprattutto perché, a parte essere una gran testarda, io per Christopher non avevo fatto nulla. Okay, forse gli avevo salvato la vita o comunque gli avevo impedito di avere un incidente la notte del diluvio universale, ma per il resto non mi sembrava di aver fatto granché.
«Non so di che cosa stai parlando, davvero.»
Lei arcuò un sopracciglio. «Mettiamola così: il fatto che tu lo abbia respinto più di una volta lo ha fatto riflettere e ha capito che il suo approccio con il mondo femminile era sbagliato. Non che abbia intenzione di cambiare atteggiamento da un giorno all'altro, ma è un gran passo avanti. Finora nella sua vita ci sono state soltanto donne che lo hanno usato unicamente per i suoi soldi e per le sue conoscenze. Tu invece ti sei opposta, e questo lo ha mandato fuori dai binari.»
Incrociai le braccia al petto quasi volessi farmi scudo da quelle accuse. «Sarà la sindrome da crocerossina,» borbottai ironicamente in risposta mentre la cameriera lasciava le nostre ordinazioni sul tavolino.
Cassandra sospirò alzando gli occhi al cielo. «Non credo, Dahlia. Tenere agli altri ed essere altruisti non è essere crocerossine, lo sarebbe se mettessi Christopher su un piedistallo e tentassi di tenerlo in una teca di vetro per proteggerlo dagli altri e dirgli che tutto ciò che fa va bene. Tu invece punti i piedi e tenti di fargli vedere il mondo secondo il tuo punto di vista. Questo è quello che io chiamo progresso. Hai fatto per Christopher più di quello che abbia mai fatto io in questi anni.»
Reclinai il capo di lato, confusa. «In che senso?»
«Uhm, beh, possiamo dire che io sono la sua psicologa personale,» disse versando dello zucchero nel tè e mescolando con fare distratto. «Conosco tutti i suoi segreti, tutte le sue paure, anche se gli è costato molto aprirsi con me.»
Ridacchiai sommessamente, probabilmente per scacciare la tensione che sentivo montare con il passare dei minuti. «Già, mi ha detto che gli hai dato molto filo da torcere, anche se ammetto di non capire il perché.»
«La risposta più importante ce l'hai al collo, Dahlia.»
Abbassai lo sguardo sulla collana che mi aveva regalato, non riuscendo a capire come mai una cosa così insignificante potesse essere la chiave di tutto. «Mi spiace,» dissi riportando lo sguardo su Cassandra, «ma non riesco proprio a capire di cosa stai parlando.»
Come presa alla sprovvista, lei mostrò solo per una frazione di secondo la sorpresa sul proprio volto, ricomponendosi immediatamente, un sorriso gentile sulle labbra. «Perché non lo hai denunciato?»
Wow, cambiare discorso così all'improvviso era un tratto caratteristico dei Carter, un'arte, a quanto pareva.
La sua, però, era una domanda legittima, una che mi ero posta io e che mi aveva fatto più volte Bea. «Io... so come vanno queste cose,» dissi lentamente, lo sguardo abbassato sul marmo del tavolino, «so che se lo avessi denunciato sarebbe stato solo un comune caso di violenza non provabile, perché evidentemente la "colpa", per chiamarla così, sarebbe stata anche mia, per quanto io possa protestare dicendo di non ricordare niente e di non aver bevuto nient'altro che una piña colada. I giudici non tengono conto del fatto che la vittima non fosse stata consenziente se non riesce nemmeno a ricordare che cosa sia successo.» Mi strinsi nelle spalle, qualcosa mi stava pesando sul petto mentre confessavo quelle cose. «E poi, Christopher avrebbe avuto i migliori avvocati del mondo. Io... beh, forse mia madre sarebbe riuscita a trovare qualcuno, ma avrei dovuto dirle tutto e...»
«Non hai detto a tua madre quello che è successo?» Nel suo tono non c'era accusa, solo tristezza e una vena di sorpresa.
Scossi il capo, riluttante. «Non è un discorso che si può fare per telefono o via Skype.» Oltretutto mi vergono moltissimo perché lei si fida di me e io... Fermai lì i miei pensieri stringendo con forza i denti senza aggiungere più altro, lasciando che traesse da sé le conclusioni.
«Christopher è rimasto molto sorpreso dal fatto che tu non ricordassi nulla,» disse dopo un attimo di silenzio.
Oh, quello. Aggrottai le sopracciglia, confusa a mia volta. «Già. Christopher potrà anche essere un misogino o qualcosa di molto simile, ma non mi ha mai mentito finora,» convenni aggiungendo lo zucchero e mescolando il cappuccino arrivatomi in tazza gigante. Beh, io di certo non mi sarei lamentata. «Però non capisco perché non ricordi nulla.»
«Chris ha detto che eri anche piuttosto, uh, partecipe, entusiasta, a dire il vero.» Già, c'era anche quel fattore da considerare. Se ero stata così partecipe da iniziare addirittura la nostra relazione sul piano fisico, voleva dire che ero abbastanza attratta da Christopher da mandare a puttane tutti i miei principi oppure ero così brilla da non sapere nemmeno cosa stavo facendo?
«Confido che se fossi stata ubriaca Christopher non mi si sarebbe nemmeno avvicinato, vero?»
Cassandra mi sorrise, e in quel gesto trovai la risposta che cercavo. Misogino poteva esserlo, ma aveva una coscienza. «Non avrebbe mai osato, Dahlia, per quanto possa sembrarti assurdo, mio fratello non è un mostro.»
«Non è assurdo,» replicai forse troppo in fretta, e il suo sorriso si ampliò ancora di più. «Cioè, nella mia mente lo è stato, e forse lo è ancora, e non sto dicendo che capisco perché si comporta così, e nemmeno che lo ritengo tale perché dice di avere dei problemi a controllare la rabbia, più che altro perché non è stato onesto con me fin dall'inizio, ecco. Per me è stato difficile accettare il fatto di aver fatto sesso per la prima volta con un uomo che tutt'ora non conosco e che non riesco nemmeno a ricordare, e in parte non posso fare a meno di incolpare Christopher perché in un certo senso ha approfittato di me, o così credo, perché non ho alcun ricordo di quella notte. D'altra parte, la festa era affollata, e chiunque avrebbe potuto, che so, ritoccarmi il cocktail, e forse è stato così, ma fino a quando non so come sono andate esattamente le cose non posso smettere di incolpare Christopher.»
Presi un respiro profondo, quello sfogo mi aveva dilaniata, ma al contempo mi aveva tolto anche un peso dal cuore. Quello che non le avevo detto era che non potevo ancora fidarmi completamente di Christopher, anche se dopo essere stata a casa sua avevamo trovato un buon punto di partenza.
Il problema – uno dei tanti – era che non sapevamo, né io né lui, cosa cercavamo da questa relazione, sempre che tale si potesse definire. Io sapevo di volere una storia d'amore onesta, non ideale, perché non mi trovavo in un libro, ma reale abbastanza da essere ben definita e basata sulla fiducia.
«Già, immagino non possa essere facile,» convenne Cassandra, mescolando ancora il proprio tè, come se potesse leggere il mio futuro – o la mia diagnosi – sui fondi. «Penso che tu e Christopher dobbiate parlarne, anche se presumo saresti tu quella a parlare e lui quello che cerca di distrarti.»
Trattenni un sorriso. Christopher era un bravo venditore, ma talvolta ti comprava più con i gesti che con le parole. Non che avesse comprato me, io avevo scelto consapevolmente la mia strada.
«Probabile, anche se potrebbe risultargli difficile ora che è a New York.»
Cassandra aggrottò le sopracciglia. «No, è tornato stamattina presto, pensavo lo sapessi.»
Cercai di non sentire un dolore acuto al petto a quelle parole. Per quanto il nostro accordo potesse suggerire altrimenti, Christopher non aveva alcun dovere nei miei confronti, né tantomeno io avevo alcun diritto di fargli domande sulla sua vita quando non voleva darmi una risposta, eppure non sembrava essere meno doloroso.
«Lascerò che sbollisca la rabbia,» commentai un po' troppo duramente – un po' troppo ferita, più di quanto volessi ammettere a Cassandra e a me stessa. Poi, però, sarebbe stato lui a dover lasciar sbollire me.
Lei sorseggiò il suo tè mentre io affondavo i miei dispiaceri nel cappuccino, accarezzando distrattamente la testa ruvida di Sherry. «E tu devi sbollire la gelosia, dico bene? Anche se la ritengo una cosa difficile, persino io sono ancora gelosa della ex del mio ragazzo, quindi ti capisco. Capisco anche che per te non deve essere facile sentirti paragonata alle precedenti donne di mio fratello, ma sappi che alla prima uscita pubblica, se accadrà, anche se presumo Christopher aspetterà fino a quando non avrai diciotto anni, verrai subito presa d'assalto dagli squali dei media finché di te non rimarranno nemmeno le ossa.»
Sentii un brivido corrermi lungo la spina dorsale, questo non l'avevo messo in conto. Non del tutto almeno. Sapevo che Christopher era una figura abbastanza pubblica, meno di un attore o cantante, ovviamente, ma era brillante, e persino lui finiva sui giornali e nelle classifiche degli scapoli più giovani e sexy di Los Angeles se non dell'America intera.
Se però era come aveva detto Cassandra, allora avevo tempo per prepararmi, sempre che la nostra relazione durasse fino al mio compleanno, ovviamente.
Notando il mio disagio, Cassandra aggiunse: «Se vuoi posso aiutarti, non devi essere sempre al centro dell'attenzione se non vuoi, so che non sei come le altre.» Al mio sguardo sorpreso, scrollò le spalle. «Ne ho incontrate un paio diverse volte, e tutte erano immature, civettuole e sempre alla ricerca di divertimento e soldi, e ciò ha confermato l'idea che Christopher ha sulle donne. Come ti ho detto, so dell'accordo che avete stipulato, e io voglio aiutarti a far cambiare idea a mio fratello. Ci ho provato per anni, e spero che unendo le forze ci riusciremo.»
Sorrisi divertita dall'assurdità di quella situazione. «È diventata una moda quella di stringere accordi con i Carter? Cos'è, siete come diversi Rumplestiltskin e io vi dovrò il mio primogenito?»
Cassandra scoppiò a ridere. «Niente di tutto ciò. Vedi il mio come un aiuto per far cambiare idea a Christopher, non voglio che continui ad autocommiserarsi per qualcosa di cui non ha colpa.»
Ed eccolo lì di nuovo, il senso di colpa di cui nessuno dei gemelli voleva parlare e che io non riuscivo ad afferrare. Forse me lo avrebbe detto Cassandra nel tentativo di aiutarmi, così da poter capire che cosa rodeva Christopher, oppure me lo avrebbe detto direttamente lui, anche se non ci avrei messo la mano sul fuoco.
Con un sospiro, annuii. «Chissà se ho già venduto la mia anima al diavolo come Rasputin,» borbottai fra me, ma Cassandra lo sentì e ridacchiò.
«Nah, non è così drastica come cosa. Vedilo come un modo per maturare, per capire la vera natura umana e alcune delle sue sfaccettature, ti servirà per il marketing capire come pensano i tuoi clienti.»
Grugnii divertita. «Già, avrei dovuto immaginare che ti avesse detto anche che cosa voglio fare. Non ne sembra molto contento, però.»
«Questo perché l'università – o avere un lavoro in generale – non è mai stata un obiettivo delle sue ex. Loro cercavano la fama e i soldi, qualcosa che potesse dare loro una buona rendita vitalizia senza dover sacrificare nemmeno un secondo del proprio tempo libero. Tu invece vuoi studiare, vuoi guadagnare qualcosa con i tuoi sforzi, e questo ha fatto andare fuori dagli assi il mondo di Christopher.»
Aggrottai le sopracciglia. «Ma... tu e Meredith siete entrambe delle professioniste, anche voi avete studiato e messo in piedi i vostri studi. Voi non contate?»
Cassandra strinse le labbra. «Con me Christopher ha sempre avuto un rapporto difficile, l'ho costretto ad avere la mia attenzione, gli ho dato del filo da torcere, se vuoi usare le sue stesse parole, e non so se mi ammiri o mi sopporti, di quello non parliamo. Io preferisco non parlarne, perché non so se riuscirei a sopportare ciò che ha da dire di me. Tutti abbiamo delle debolezze, Dahlia, e questa è la mia. Tuttavia, so che mi vuole bene, e questo mi basta. Per quanto riguarda Meredith, so che la rispetta, e per il momento questo basta a tutti.»
Rimasi in silenzio per qualche istante, soppesando le sue parole. «Quindi io sarei la chiave di volta della situazione?»
Lei ridacchiò. «In un certo senso. Non che tu debba sentirti sopraffatta o portatrice del mondo di Christopher, anche se devo ammettere che la tua metafora con Atlante è interessante. Prova a ritenerti quanto più un sostegno, qualcuno su cui lui può appoggiarsi.»
Annuii lentamente, consapevole di che cosa mi stava chiedendo. Era ciò che facevo con i miei amici, anche se in questo caso era molto più difficile. Sapevo anche che non sarei mai stata in grado di provvedere a sostenere il peso del mondo di Christopher, sarebbe stato troppo. Doveva imparare a sostenersi da solo, anche se con un po' di aiuto, come tutti gli esseri umani, d'altronde.
«Non posso prometterti che Christopher cambierà idea,» dissi mettendo le mani avanti per proteggermi da un eventuale fallimento. Non ero mica una scienziata pazza che si metteva a fare esperimenti strani e cambiava le menti delle persone come Amanda di Nikita.
«E io non ti ho chiesto questo, ma solo di provarci. Tentar non nuoce, ed è ora che quel zuccone di mio fratello sbatta la testa da qualche parte e apra gli occhi,» sbottò Cassandra, evidentemente sembrava aver trovato in me l'ingrediente ultimo e necessario per portare Christopher a un livello emotivo "umano".
Non mi piaceva venire trattata come un oggetto, e non pensavo assolutamente che Cassandra volesse trattarmi come tale, nient'affatto, anzi, era importante per me che avesse chiesto il mio aiuto per un compito così difficile e a cui teneva molto, uno che aveva il mio stesso fine e che aveva messo in atto già da tempo.
Come si soleva dire, poi, uniti resistiamo e divisi cadiamo, e io avrei di sicuro avuto bisogno di Cassandra, perché lei sapeva come leggere Christopher quando io invece facevo addirittura fatica a interpretarlo.
Non riuscivo a capire come mai lei avesse bisogno di me, l'unica cosa che facevo per Christopher era tentare di spiegargli come girava il mio mondo, come la vedevo io, senza imporgli nulla, permettendogli così di ragionarci sopra. Forse, però, era ben più di quanto io pensassi.
Alzai lo sguardo su Cassandra, un sorriso sulle labbra mentre incrociavo gli stessi occhi di Christopher, caldi e brillanti in quel pomeriggio d'inizio ottobre.
«A quanto pare abbiamo un accordo.»
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